Quando si parla di aborto clandestino ci vengono in mente scene di altre epoche, con donne sdraiate su tavoli da cucina o sul pavimento mentre altre trafficano con bacinelle di acqua bollente e strani strumenti di metallo. L’abbiamo visto rappresentato tante volte nei film e nelle serie tv, con esiti più o meno tragici, da Dirty Dancing a Revolutionary Road, ma l’aborto clandestino non appartiene solo ai racconti di un passato che ci sembra lontano, anche se poi così lontano non è: è un fenomeno molto più diffuso di quanto pensiamo, anche in un Paese dove abortire è consentito dalla legge, come ad esempio l’Italia, anche nel 2021.
Secondo un’inchiesta di Repubblica di poche settimane fa, in Sicilia, l’alto numero di obiettori, combinato con la difficoltà di spostarsi fuori regione, sta facendo aumentare i casi di aborto clandestino. Le difficoltà che incontrano le donne iniziano già dal reperimento delle informazioni necessarie su come interrompere la gravidanza, con consultori che non rispondono al telefono o rimandano di continuo gli appuntamenti per ottenere il certificato di gravidanza. Poi cominciano i problemi tante volte denunciati dalle attiviste: dalle pressioni per non abortire da parte del personale medico, all’ingerenza di preti e suore fin dentro le corsie di reparto. Con un’obiezione pari all’82,7% del personale medico – che raggiunge il 100% in alcune province, come a Marsala – le Ivg effettuate in tutta la Sicilia sono meno di quelle eseguite a Milano.
Forse più che di un ritorno di aborto clandestino si deve parlare di un fenomeno che non si è mai veramente arrestato, specie per le donne più emarginate e in difficoltà, come quelle migranti che temono di dover dichiarare una loro eventuale situazione di irregolarità in ospedale. Non esistono però dati certi sulla sua estensione: l’Istat e l’Istituto Superiore di Sanità stimano un ricorso all’aborto clandestino tra i 10mila e i 13mila casi, cifre che si riferiscono però solo alle donne italiane. Per le straniere si parla di 5mila casi, ma si tratta di un dato al ribasso legato alla difficoltà di tenere traccia del fenomeno. Se, come conferma la relazione annuale del ministero della Salute sull’applicazione della legge 194/78, la liberalizzazione della vendita della contraccezione di emergenza ha contribuito a contenere il numero complessivo degli aborti (compresi quelli illegali), è anche vero che le restrizioni sempre crescenti al servizio di Ivg in tutto il Paese – e in particolare al Meridione – rendono più facile il ricorso a pratiche clandestine.
Non è solo la Sicilia ad avere una situazione particolarmente grave per quanto riguarda l’accesso all’aborto: l’unico ginecologo non obiettore di tutto il Molise ha dovuto posticipare la pensione in attesa di trovare un sostituto. Il dottor Michele Mariano continuerà quindi a lavorare fino alla fine dell’anno, affiancato da un’altra ginecologa, nella speranza che al prossimo avviso pubblico si presenti un nuovo candidato non obiettore. Come ha spiegato il medico, non si tratta di un problema specifico della sanità regionale, ma diffuso a livello nazionale: “Chi fa aborti non fa carriera: trovatemi un primario che ne faccia. In Italia c’è la Chiesa, e finché ci sarà il Vaticano che detta legge questo problema ci sarà sempre. Ci sarà sempre un vescovo che chiama il politico di turno e si assicura un primario non obiettore per un pugno di voti”, ha affermato in un’intervista. “E poi perché la maggioranza dell’opinione pubblica – e dei colleghi – considera chi pratica le Ivg come qualcuno da mettere da parte, ginecologi di serie B, che fanno qualcosa di brutto. Io qui sono ‘il medico degli aborti’: si scordano che faccio anche partorire”.
La questione religiosa è infatti solo una parte del problema. È vero che nella sanità italiana c’è una forte componente cattolica, ma negli anni il numero degli obiettori è in costante aumento e con forti disparità territoriali (si va da una media del 63% dei ginecologi nell’Italia settentrionale all’80% nel Sud), fenomeni che si spiegano solo considerando anche altre motivazioni. La prima, come sostiene anche Mariano, sono le opportunità di carriera: in una struttura con un’alta percentuale di obiettori, i medici che sono disposti a praticarli rischiano di essere relegati a svolgere solo quella mansione. Esistono poi casi in cui la carriera di medici favorevoli all’Ivg è attivamente contrastata da primari o responsabili obiettori, come sottolineato anche di recente dal Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa, che ha accolto un ricorso della Cgil risalente al 2015 per il trattamento discriminatorio sul posto di lavoro. La legge 194 tutela l’obiezione di coscienza, ma non vi pone alcun limite se non l’obbligo di “assicurare in ogni caso l’espletamento delle procedure previste” – una dicitura che nella sua genericità non pone alternative concrete. Nella maggior parte dei casi, gli ospedali 100% obiettori si limitano a far svolgere un turno nella propria struttura a un medico non obiettore proveniente da un altro ospedale, ma delle finestre di tempo così ristrette creano liste d’attesa molto lunghe per una procedura che va svolta con una scadenza inderogabile.
Una soluzione che potrebbe aiutare a sbloccare la situazione è già stata adottata nella teoria, ma non nella pratica. Lo scorso anno, il ministro della Salute Roberto Speranza aveva infatti annunciato la modifica delle linee guida per l’aborto farmacologico, introducendo la possibilità di assumere la RU486 in day hospital e nei consultori. A un anno di distanza, però, nessuna regione ha recepito le nuove linee guida, a eccezione del Lazio. La de-ospedalizzazione dell’aborto farmacologico, in linea con quanto accade in altri Paesi europei, contribuirebbe non solo a semplificare l’organizzazione delle interruzioni di gravidanza, liberando posti letto e sgravando il personale ospedaliero, ma anche a limitare le possibilità che una donna incontri un obiettore nel suo percorso. Tuttavia, anche a causa di una radicata opposizione ideologica alla RU486 – che ha causato un ritardo notevole nella sua introduzione in Italia rispetto al resto dell’Europa – non solo le regioni ritardano a recepire le nuove linee guida, ma in alcuni casi le contrastano attivamente. Ciò è accaduto in Piemonte, dove l’assessore agli Affari legali Maurizio Marrone, di Fratelli d’Italia, ha diramato alle Asl una circolare che sconsiglia la somministrazione della pillola abortiva fuori dagli ospedali; e in Abruzzo, dove l’assessora leghista alla sanità Nicoletta Verì ha fatto altrettanto.
A livello internazionale la situazione italiana è fonte di preoccupazione, tra i continui richiami sulla violazione della Carta Sociale da parte del Consiglio d’Europa e le inchieste sulle testate straniere, dalla Cnn al New York Times. È evidente che, quarantatré anni dopo la sua approvazione, la legge 194 cominci a mostrare i limiti della sua impostazione di compromesso tra forze progressiste e mondo cattolico e non sia più adatta alle esigenze di un Paese e di una sanità che nel corso del tempo sono profondamente cambiati. Se è difficile pensare a una riforma della legge, qualcosa potrebbe però migliorare a partire dalla ricezione delle linee guida di agosto 2020, cosa che dovrebbe essere stata fatta già da tempo. È necessario, poi, attuare delle contromisure all’abuso dell’obiezione di coscienza, come l’introduzione di concorsi per soli non obiettori o sanzioni per le regioni inadempienti, come proposto anche dall’iniziativa “Libera di abortire”.
Il ricorso all’aborto clandestino non può essere in alcun modo un’alternativa a un servizio che deve essere assicurato dallo Stato nel rispetto della salute, della tutela e della dignità della donna. Se per il ministero della Salute quello dell’aborto clandestino è un fenomeno a “bassa entità”, bisogna riconoscere che anche una sola donna che non riesce o non sa come interrompere la gravidanza in maniera sicura nel 2021 è troppo e la responsabilità di ciascuno di quegli aborti rischiosi è nelle mani di chi, più o meno velatamente, ostacola un intervento garantito per legge da più di quarant’anni.