L’arrivo del 2020 ci dà la sensazione di aver compiuto un passo avanti dentro una dimensione “futurista”, un po’ come è successo vent’anni fa con l’arrivo del 2000. Sarà la cifra tonda, sarà che adesso siamo in un nuovo decennio che possiamo definire “gli anni Venti del 2000”, che come espressione fa molto film di fantascienza anni Sessanta, o sarà semplicemente che vivendo ancora in una realtà fortemente ancorata alla prospettiva del Novecento, ciò che viene dopo la fine del millennio assume una carica di significato influenzata dalle idee che ci eravamo fatti prima che questo arrivasse. Ma oltre a Kubrick che azzardava addirittura un futuro fantascientifico in cui l’uomo galleggiava in mezzo allo spazio diciannove anni prima di oggi, in 2001 Odissea nello spazio, o a Ridley Scott che invece ipotizzava un 2019 in cui l’uomo si serviva di comodi replicanti in Blade Runner – e insieme a loro molti altri registi o scrittori hanno eletto i nostri anni come set per il “futuro” – c’è stato un altro sognatore che negli anni Settanta ha immaginato un 2020 veramente distopico. Solo che, a differenza di registi come Kubrick e Scott, non si tratta di un famoso regista americano, ma di un professore di nome Pasquale Saraceno che nel 1972 ipotizzò forse la proiezione fantascientifica più spinta e suggestiva che si potesse pensare, ben oltre cose che noi umani non potremmo immaginare: e lo fece in un rapporto per il Ministero del bilancio pubblicato su Il Corriere della Sera del 13 settembre di quell’anno. Saraceno profetizzava che entro il 2020 il divario tra Nord e Sud d’Italia sarebbe stato colmato. Ebbene, siamo del 2020: possiamo salvarci da un infarto grazie a un orologio, possiamo chiedere ad Alexa di leggerci le notizie come se fosse uno di quei robot da navicella de I pronipoti, ma di non vivere più in un’Italia letteralmente spaccata in due Paesi diversi non se ne parla.
Eppure me lo immagino il professor Saraceno che negli anni Settanta si figurava questo sfavillante futuro pieno di industrie al Meridione, lavoro, sanità che funziona, giovani che non fanno più metaforiche valigie di cartone per cercare fortuna tra le lande della Pianura Padana. Chi glielo doveva dire che invece il 2020 sarebbe stato l’anno di Tik Tok e di Luigi Di Maio che si trova a fronteggiare da ministro degli Affari esteri un’ipotetica terza guerra mondiale? Non che quella del professor e del ministero per il Bilancio fosse un’idea originale, visto che si parla di “Questione Meridionale” dal giorno dopo in cui l’Italia è stata unita, visto che già in partenza c’erano un bel po’ di cose che non funzionavano. Senza piangersi addosso o lanciarsi in ardite dispute dalle tinte neoborboniche, si può fare un’analisi dei motivi che hanno fatto sì che l’Italia rimanesse spaccata in due luoghi distinti e separati e rendersi conto che le responsabilità sono ben distribuite tra i piani alti e i piani bassi. Lasciamo stare il fatto che proprio questa molteplicità culturale, linguistica, geografica ed estetica è forse l’elemento più bello del nostro Paese, uno di quelli di cui possiamo veramente andare fieri senza passare per nazionalisti beceri – da Verona a Siracusa, grazie a questa macedonia strampalata di dominazioni e ambientazioni diverse non ci possiamo lamentare in quanto a diversificazione. Assodato che le differenze non creano un ostacolo ma anzi, contribuiscono alla ricchezza di un luogo, ci sono sempre stati dei punti deboli e incompatibili tra le due parti dell’Italia che invece di venire sanati subito sono diventati al contrario la scusa sia per sfruttare la parte più debole sia per dare spazio alla crescita di fenomeni come la criminalità organizzata che si insinua molto bene proprio laddove manca la presenza delle istituzioni. A distanza di centocinquantanove anni dalla nascita dell’Italia, la questione meridionale ha assunto un aspetto diverso da quello degli anni anni del Risorgimento, ma non ha cambiato il fatto che dopo quasi due secoli stiamo ancora pagando le conseguenze perpetuate di una serie di errori politici che determinano tuttora la vita di giovani costretti a emigrare – e di persone costrette a vivere in un contesto di sottosviluppo – portando avanti un lento ma inesorabile processo di spopolamento di un pezzo di Italia.
Nel Diciannovesimo Secolo, quando l’Italia è diventata una realtà, i problemi tra i due “mondi”, Nord e Sud, erano tanti e di natura diversa: c’era un sistema feudale, quello borbonico, ancora improntato su forti ineguaglianze e accentramento della ricchezza, c’era l’arretratezza economica e industriale; c’erano gli intenti ben chiari di una parte del Paese di basare le politiche post-unitarie a proprio favore, più che su un principio di reale distribuzione e sviluppo in parallelo. Non è reazionario prendere atto del fatto che le politiche piemontesi favorivano indubbiamente tutto ciò che a livello di infrastruttura e sviluppo avvicinasse l’Italia a Francia e Austria, così come non è da leghista vecchia scuola sottolineare le incapacità gestionali del Sud e i sistemi clientelari che hanno generato. L’Italia e le sue disuguaglianze sono il frutto di un’idea di Stato che in teoria doveva essere democratico ma che in realtà si basa ancora sul privilegio delle élite, su una distribuzione della ricchezza improntata su un principio di accumulo e di accrescimento di capitali già esistenti, un cosa che va avanti da sempre e che nella sua riconversione nella modernità si esprime in nuove forme di cortocircuiti strutturali. Se negli anni Sessanta del Novecento, un secolo dopo l’Unità, il Sud si riversava in massa al Nord per fare sì che questo sistema già sbagliato in partenza continuasse ad andare nella stessa direzione – mentre la mafia diventava un’entità potente come poche nel mondo – alimentando ulteriormente lo sviluppo industriale settentrionale, oggi i giovani vanno a studiare fuori dalle loro regioni perché sanno molto bene che se vogliono lavorare è molto più sensato fare così. Non ci sono più le valigie di cartone e non si vive più nelle soffitte con i topi, ci sono i Flixbus e si affittano stanze a seicento euro in nero in qualche zona periferica di Milano.
I trasporti, che da sempre incarnano una metafora piuttosto lucida di ciò che significa il divario tra le due parti del Paese, danno una misura concreta e immediata della spaccatura: i rapporti di Legambiente sui pendolari sottolineano ogni anno come il numero di persone che usa il treno nelle regioni del Nord aumenti in modo inversamente proporzionale a quello delle regioni del Sud. Questo perché, non ci vuole chissà quale analisi per capirlo, semplicemente i trasporti dell’Italia Meridionale fanno schifo, proprio come diceva Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli, che se durante il fascismo indicava le ultime stazioni della ferrovia oggi potremmo dire che Cristo si è fermato a Salerno, luogo dopo il quale l’alta velocità sparisce e si ritorna negli anni Ottanta, o forse anche prima. Per chi vive fuori, e posso dirlo per esperienza personale, ci sono momenti dell’anno in cui anche solo l’idea di poter trascorrere una settimana con la propria famiglia diventa un’epopea, un nostos fatto di centinaia di euro spesi per aerei con compagnie che lucrano vergognosamente sulle difficoltà di chi è fuori sede alzando i prezzi in modo vertiginoso – tant’è che il Presidente della Regione Sicilia, durante le ultime vacanze di Natale, ha stanziato una flotta di bus per gli studenti fuori sede che non potevano permettersi biglietti a prezzi assurdi. Sembra una cosa da poco, non lo è: non è un capriccio pretendere le basi della civiltà sviluppata, ossia potersi spostare per stare con la propria famiglia, è un diritto di base; non è da vittimisti chiedere di non dover prendere treni che impieghino il quadruplo del tempo per percorrere gli stessi km, è semplicemente assurdo che mezza Italia sia nel 2020 e l’altra metà nel 1920.
I trasporti, ovviamente, non sono l’unica macchia nera nella questione meridionale 2.0 che non ha più come protagonisti briganti e savoiardi ma uomini e donne che dovrebbero godere degli stessi diritti, vivendo nello stesso Paese. Per quanto riguarda le aspettative di vita, per esempio, ci sono dieci anni in più per una generica “persona ricca del Nord” rispetto che a un “povero del Sud”, e non perché i settentrionali hanno preso un elisir di lunga vita ma semplicemente perché la sanità lì funziona meglio. Come sempre in queste cose, a incidere sulla salute delle persone è la ricchezza e l’accessibilità a un trattamento privilegiato, cosa che se già si verifica in base alle classi di appartenenza a livello sociale, diventa ancora più accentuata se analizziamo i dati relativi ai luoghi più poveri in Italia, dove tutto ciò diventa estremo. Il rapporto Svimez del 2019, che dagli anni Settanta si occupa di analizzare lo sviluppo economico del Meridione, conferma la percezione di un’economia spaccata in due: se l’Italia non se la passa benissimo a livello di crescita economica, non ci sono dubbi sul fatto che a crescere in questo stato di stagnazione sia comunque il Nord, mentre il Sud riprende ad alimentare flussi migratori preoccupanti, simili quasi a quelli di cinquant’anni prima. L’istruzione, poi, non se la passa di certo meglio, con percentuali di laureati nettamente inferiori al Sud, ma soprattutto con la presenza massiccia di Neet – i ragazzi tra i 15 e i 24 anni che non studiano e non lavorano – nelle regioni meridionali, più del doppio di quelle settentrionali stando ai dati del 2017. Così come per tutto ciò che riguarda i servizi in generale, dal trasporto pubblico alle ormai quasi comiche classifiche de Il Sole 24Ore che puntualmente mette nero su bianco una bella scaletta di quanto la vivibilità delle città del Sud Italia sia indietro rispetto alle altre.
Definire il professor Saraceno un visionario mi sembra doveroso considerata la sua dose massiccia di fantasia, allo stesso tempo riflettere sul fatto che meno di cinquant’anni fa si credeva possibile un’impresa simile fa quasi tenerezza. Non penso che sognare un futuro in cui ciascuno in Italia possa decidere a quale longitudine vivere senza doversi sentire obbligato a migrare in altre città sia una lamentela da “terrona” sfaticata; nessuno nel mondo in generale dovrebbe trovarsi costretto a partire, se non per scelta propria. Chi nasce al Sud cresce con l’idea che un giorno, molto probabilmente, dovrà andarsene, mentre chi ci rimane convive con la sensazione perenne di sentirsi in qualche modo italiani di serie B. Avere un Paese spaccato in due è bello solo se questa frattura comporta diversità e varietà, non se significa che da un lato si sta bene e dall’altro si rincorre lo sviluppo – anche con mezzi decisamente illeciti. Spero solo che – emergenza climatica permettendo – nel 2050 qualcuno magari leggerà questo pezzo e mi risponderà come io ho fatto con il professor Saraceno, dandomi della catastrofista melodrammatica, invece che della autrice di fantascienza che crede in un’idea dell’Italia fondata sull’uguaglianza e sull’equa distribuzione della ricchezza.