Quando ero bambino e andavo nel bar del paese dove trascorrevo le vacanze estive, c’era un uomo al bancone che la sapeva lunga. Beveva anche nel primo pomeriggio, aspettava che si riunisse intorno a lui un gruppetto di persone, solitamente anziani e bambini, e poi dava vita alla sua filippica. Il sottofondo era quello dei flipper e dei cabinati anni Novanta. Io non riuscivo ad afferrare tutti i suoi discorsi, alcuni nomi elencati non li conoscevo, così come diversi termini, e mi rimasero impresse solo alcune sue verità sugli alieni. Ricordo però nitidamente l’incipit di ogni discorso: “Non ce lo dicono”. Non sapevo a chi si riferisse, però era certamente intrigante ascoltare la storia di misteri che qualcuno – il governo, i potenti del mondo, i giornalisti o chissà chi – non voleva diffondere. E mi sentivo fortunato a trovarmi proprio nel bar di paese dove c’era l’unica persona (per me era così) che quei segreti li sapeva eccome. Poi sono arrivati il web e i social, e la cultura del non ce lo dicono è diventata un collante di massa. Un po’ ci rimasi male: pensavo di essere cresciuto in un luogo d’elezione, mentre Internet pullulava di persone che, anche loro, sapevano quello che i potenti non volevano dirci.
Sebbene l’analfabetismo funzionale riguardi ancora una cospicua fetta della popolazione italiana, adesso tra i cittadini c’è stata una sorta di maturazione digitale, è più facile stanare i cazzari e non ce lo dicono è diventato un meme. Per rimarcare la dose di ironia la frase stessa viene storpiata in modi diversi: noncelodicono, tutto attaccato, noncielodicono, lasciando intendere come sia una prerogativa di persone poco alfabetizzate, o persino noncielodicono!!1, con quel numero finale che rafforza la foga cieca di chi scrive un concetto sul web digitando male sulla tastiera l’ultimo punto esclamativo. Quest’ultima variante è spesso associata al periodo di avvento del grillismo di prima generazione. Fin qui potrebbe sembrare la descrizione del complottismo, né più né meno. C’è però altro, e il paradosso finale consiste nel fatto che i principali esponenti del noncelodicono siano allo stesso tempo sostenitori di nazioni – spesso dittature liberticide – dove “non glielo dicono davvero”.
A loro si sono aggiunti anche i fan del “non si può più dire niente”. Quindi non soltanto non ci raccontano i più subdoli complotti, ma noi stessi non abbiamo diritto di parola. Su cosa non è dato sapersi, ma intanto non possiamo dirlo. Quest’ultima ondata è invece più vicina al vittimismo della destra, alla distorsione del concetto di “politicamente corretto” e all’indignazione quando si fa notare a questi soggetti che chiamare “negro” una persona africana e “frocio” un ragazzo omosessuale è un’offesa, non una libertà d’espressione. In questi anni, le categorie del noncelodicono e del non si può più dire niente hanno nutrito un’ammirazione all’apparenza insospettabile per Vladimir Putin e la sua dittatura in Russia. Qualcuno si è spinto ancora oltre, arrivando a confuse riflessioni sulla Corea del Nord. Se prima era soltanto per una questione macchiettistica, probabilmente anche a seguito dei viaggi di Antonio Razzi in quello Stato, col tempo la faccenda si è fatta più seria, come quando Alessandro Orsini ha dichiarato che “Kim Jong Un è un uomo intelligente il cui ragionamento strategico rasenta la perfezione”. Il punto è che in Russia o in Corea del Nord davvero non si può più dire niente, visti i rischi di finire in carcere o di essere in vario modo eliminati. Sono inoltre le vere patrie del noncelodicono, trattandosi di dittature che non permettono al popolo di informarsi correttamente e di esprimere la propria opinione.
L’origine di questo bizzarro paradosso risale a una quindicina d’anni fa, e nasce sul web. Sul neonato Facebook, sui blog e sui forum iniziarono ad apparire titoli roboanti che riconducevano a siti dai nomi singolari. Uno dei più famosi era TzeTze. Per tutti i titoli veniva usata la stessa strategia: clickbait, certamente, una frase a effetto e la formula magica del non ce lo dicono. I titoli non spiegavano il contenuto dell’articolo, dunque si concludevano con un clicca qui che prometteva agli utenti di ottenere la risposta al mistero in questione. Internet fu invaso da link di TzeTze, al punto che molti si chiesero il motivo per cui un sito del genere potesse raggiungere così tanti utenti. La risposta arrivò nel 2011 direttamente dal blog di Beppe Grillo, con un post che si apriva così: “Oggi abbiamo la conferma che le uniche informazioni veritiere, la verità, nascono e si propagano attraverso la Rete. È finito il mondo del cartaceo, il mondo della televisione, a parte qualche mosca bianca, che può essere Il Fatto Quotidiano. L’informazione vera, plausibile e credibile si trova in Rete”. Intanto, va sottolineato che, all’epoca, non era ancora del tutto chiaro che Il Fatto Quotidiano fosse de facto l’organo di partito del M5S, mentre leggendo adesso queste parole viene quasi un sorrisetto alla Travaglio. Nel post, Grillo promuoveva TzeTze, definendolo “un servizio straordinario”, ufficializzando la proprietà del sito in questione: la Casaleggio Associati.
Con gli anni altri siti portarono avanti la stessa strategia, e sempre sotto l’ala della Casaleggio Associati: per esempio, La Fucina e La Cosa. Un metodo ormai ben rodato: clicca qui, non ce lo dicono, e si dava voce anche agli oratori da bar di Paese con tutti i complotti possibili. Potrà sembrare un fenomeno insignificante, ma stiamo parlando di siti che muovevano milioni di utenti mensili e monopolizzavano Facebook ai suoi albori. L’informazione web non aveva codici deontologici, gli utenti erano ancora immaturi a livello digitale e, di conseguenza, tutto quello che veniva letto su Internet veniva preso per vero. Dopo il 2014, con l’avvicinamento tra M5S e Russia Unita, il blog di Grillo ospitò al suo interno anche articoli di Sputnik e Russia Today, megafoni del Cremlino. Casaleggio Jr. cancellò i loro contenuti dal blog quando il M5S salì al governo. Nel 2016 Buzzfeed realizzò un’inchiesta con lo scopo di svelare le fake news dei siti della galassia Casaleggio Associati (TzeTze, La Fucina e La Cosa) e la loro azione di propaganda pro-Putin, con conseguente replica del M5S.
Nel mentre, con l’esplosione di Whatsapp prima e Telegram poi, questo tipo di fake news iniziarono a girare anche privatamente con le famose catene di Sant’Antonio. I gruppi di complottisti proliferavano ovunque. Adesso, guardando a quel periodo, lo associamo quasi a una parodia, ma il danno ormai è stato fatto: i complottisti d’Italia sono in larga parte diventati putiniani. I nemici, quelli che non ce lo dicono, erano all’epoca l’Unione Europea, Soros, Bill Gates, il Nuovo Ordine Mondiale e qualche figura immaginaria creata per rendere la narrazione del complotto più plausibile. Nel mentre anche la Lega si era avvicinata a Russia Unita, dunque portò in quella direzione un bacino d’utenza ancora più ampio. I dittatori liberticidi diventarono quasi dei messia, lo stesso Matteo Salvini avrebbe “ceduto due Mattarella in cambio di mezzo Putin”. Fu un’evoluzione del “piove governo ladro”: non soltanto i politici nostrani ci nascondevano qualcosa, che fosse la pietra filosofale o l’elisir per risolvere tutti i turbamenti delle nostre vite, ma la Terra Promessa, il Paradiso delle libertà, si trovava più a Est, nei luoghi dove una parola fuori posto ti avrebbe condannato a un’ottima bevanda al polonio.
Le conseguenze di questo indottrinamento web le stiamo pagando ancora adesso, se una parte dei cittadini italiani chiede a Kiev di arrendersi e non a Mosca di ritirare le truppe, spesso basandosi sulla narrazione russa della denazificazione dell’Ucraina o dell’allargamento della Nato – come se quest’ultima lo facesse invadendo gli Stati e non fossero loro a mandare la richiesta per entrarvi. È il frutto di una quindicina d’anni di propaganda ad hoc su un mezzo, Internet, che ancora non aveva gli anticorpi per distinguere una notizia falsa da una verità, il clickbait dal corretto modo di esporre una notizia. Probabilmente nemmeno adesso siamo immuni da quel virus, ma siamo maturati e abbiamo una diversa dimestichezza del mezzo. Non a caso certi siti sono finiti nel dimenticatoio, il grillismo si è sgonfiato e i complottisti devono necessariamente cercare altre strade per far attecchire il proprio pensiero, togliendosi i vestiti da predicatori da bar e reinventandosi guru o improbabili esperti di qualche materia specifica. L’aspetto grottesco della vicenda, però, rimane, perché nessuno di questi individui durerebbe in Russia o in Corea del Nord più di due giorni, anche solo per le restrizioni o i divieti per quei social su cui adesso possono dire letteralmente qualsiasi cosa e hanno la possibilità di attingere a fonti di ogni tipo.
Io non auguro di certo a queste persone di vivere in una dittatura – una di quelle vere, intendo – ma forse la terapia d’urto sarebbe quella di metterli al corrente della privazione delle libertà anche più basilari a cui vengono sottoposti i cittadini critici dei luoghi in questione – loro sì ignari di quello che stanno vivendo, o al limite rassegnati e impossibilitati a cambiare il corso delle cose, perché “non glielo dicono e non possono dire nulla”. E non saranno salvati da un clicca qui: se lo facessero si troverebbero sulla pagina della Duma, nella quale fino a qualche mese fa veniva comunicato il divieto di usare la parola “guerra” riferendosi all’invasione in Ucraina, rischiando fino a quindici anni di carcere. Così i complottisti da tastiera vivrebbero il loro incubo più grande: stare in un luogo in cui è vietato cliccare, criticare e informarsi. Di fatto, sarebbero costretti a tornare nel loro habitat naturale, il bar, dalle tre del pomeriggio, anche se i flipper e i cabinati anni Novanta non esistono più.