“Scusami, sto cercando una maestra”.
È un cattivo segno quando i genitori la prima volta ti danno del tu. Non è mancanza di rispetto. È proprio che non hanno capito che mestiere stai facendo.
“Ci sono io”.
“Sì, ma cercavo una maestra”.
“Beh io insegno qui”.
In questi casi la giacca può fare la differenza. Senza giacca è possibile che ti prendano per un bidello. Con la giacca puoi passare anche per un vicepreside. Ma un maestro no, non pensano mai al maestro.
“Ah, mi scusi, non avevo capito”.
È una questione di istanti: alla sorpresa subentra il sospetto. D’accordo, ho davanti un insegnante di sesso maschile. Com’è possibile? Cos’è andato storto con lui? Perché non è da qualche parte a fare un lavoro meglio pagato? Che errori ha commesso? Che peccati sta scontando? Forse semplicemente non aveva abbastanza ambizione.
È difficile essere insegnanti di sesso maschile? Probabilmente non quanto essere ingegneri di sesso femminile. O vigili del fuoco di sesso femminile. O insomma essere di genere femminile, in generale in tutti i luoghi di lavoro dove le donne sono una minoranza, e cioè praticamente dappertutto tranne che a scuola e forse in qualche infermeria. Questo è più vero nelle scuole italiane che in quelle di altri Paesi; più nelle scuole primarie che nelle secondarie (all’università, man mano che aumenta il prestigio e il salario, il rapporto si inverte). È una di quelle disparità intorno alle quali ancora oggi è costruita la nostra società. Anche nei più avanzati Paesi al mondo, ci si aspetta ancora che la donna trascorra mediamente più tempo dell’uomo in casa e coi figli e l’insegnamento è un mestiere che lo consente. Certo, con l’aumento del benessere la società dovrebbe diventare più fluida e consentire più spesso a una donna di dedicarsi alla carriera, mentre il marito si accontenta di fare un mestiere che gli piace e che gli consente di gestirsi qualche pomeriggio coi figli. Proprio per questo sono allarmanti le previsioni che ci dicono che nei prossimi anni in Europa il gap tra insegnanti maschi e femmine aumenterà.
Evidentemente la società si sta irrigidendo, e la scuola non può che rifletterlo. Per esempio, quando i maestri australiani ammettono di avere difficoltà con il contatto fisico, è chiaro che sono vittima di uno stereotipo di genere: nessuno si spaventa se una maestra tocca un bambino, perché con un collega maschio dovrebbe essere diverso? Allo stesso tempo lo stereotipo si basa su un senso comune confermato da dati statistici: la maggior parte dei sex-offenders risultano essere di sesso maschile, e spesso gli individui con tendenze pedofile scelgono una professione che consenta loro di lavorare a contatto coi bambini. Certo, se ci fossero più insegnanti maschi, il sospetto si diraderebbe (ma aumenterebbe anche la possibilità che un maestro risulti davvero un sex-offender). Negli Stati Uniti i maestri elementari non hanno smesso di essere una rarità, ma stanno diventando una rarità ricercata: pare infatti che a parità di condizioni, ottengano mediamente risultati migliori delle colleghe. Ma se questo accade è proprio perché insegnare, per un uomo, è ancora uno stigma sociale, un potenziale disonore che dissuade dall’intraprendere la professione chiunque non sia fortemente motivato. I maestri, insomma, sarebbero buoni proprio perché sono rari: il che significa che diventeranno sempre meno buoni man mano che aumenteranno e che forse ci accorgeremo di aver ottenuto l’uguaglianza quando cominceremo a trovarne di scarsi.
Insomma non soltanto siamo pochi, noi insegnanti maschi, ma rischiamo di estinguerci. Eppure oggi nessuno osa più sostenere pubblicamente che le donne siano biologicamente meglio predisposte all’insegnamento e ad altre professioni che costituiscono una specie di prolungamento delle mansioni di cura che tradizionalmente le spettavano nella famiglia (infermiere, cuoche, cameriere). La spiegazione che va per la maggiore è quella del condizionamento sociale: così come non nasci predisposto per bambole o soldatini, ma non puoi evitare di giocare con quello che i genitori ti comprano e desiderare quello che vedi in mano ai coetanei del sesso in cui ti riconosci, allo stesso modo, una scuola col 90% di maestre di sesso femminile non può che indirizzare le bambine verso quella direzione. Proprio per questo sarebbe necessario portare più maestri nelle scuole di ogni ordine e grado. Si arriverà alle quote azzurre? Per ora nessuno ne parla seriamente. La proposta che ha più successo è sempre quella: rendere l’insegnamento una professione più appetibile.
Più valorizzata, più dinamica (con più possibilità di “fare carriera”, qualsiasi cosa significhi), e soprattutto più remunerata per tutti. Negli USA lo stipendio medio di un insegnante è uno dei più bassi tra i lavoratori di sesso maschile, mentre è assolutamente nella media dei salari femminili. A questo punto la soluzione viene da sé: offriamo di più, e anche gli uomini cominceranno ad arrivare. In quanto insegnante maschio, sono ovviamente a favore di questa opzione (sarei probabilmente a favore anche se fossi un’insegnante femmina, transgender o gender fluid), ma non mi faccio molte illusioni. Mi sembra la classica risposta liberale a un problema democratico. Pochi uomini? Aumentiamo la paga. Domanda, offerta. Sembra facile. Ma le risorse, dove le troviamo?
Il liberale ha una risposta anche a questo: aumentiamo le rette. Se i genitori vogliono una società meno legata agli stereotipi di genere, che la paghino. Il rischio è che la parità di genere diventi un lusso di chi può pagarsi la scuola migliore. La maggioranza della popolazione ha altre priorità; specie in un Paese come il nostro, in cui frequenta scuole pubbliche. E questo accadrebbe anche se la scuola italiana non fosse la Cenerentola che è diventata dopo i tagli dell’ultimo decennio; anche se finalmente un governo (sicuramente non questo) decidesse di investire davvero nell’istruzione: anche allora, tra tante spese da fare, molto difficilmente si troverebbero soldi per rendere l’insegnamento una carriera competitiva.
È una questione meramente quantitativa: se vuoi che tutti i bambini d’Italia vadano a scuola, devi preoccuparti di offrire a tutti un’istruzione dignitosa, ma soprattutto economica. Un insegnante di scuola pubblica primaria o secondaria inferiore guadagnerà sempre un po’ meno di un coetaneo che lavora nel settore privato, o meglio, avrà sempre la sensazione di guadagnare poco, rispetto alla fatica che accumula e all’importanza di quello che fa (credere che quel che fa è importante gli è del resto necessario, sennò non sopravviverebbe). A chi davvero nella vita preme il successo, non verrà mai in mente di fare l’insegnante. Non possiamo offrire a tutti uno stipendio da favola: qualche istituto di élite lo può fare, ma noi non educhiamo le élite, non siamo il ristorante stellato. Siamo la mensa. Forse possiamo offrirti altre cose: più benessere, la stima di chi vive nel tuo quartiere, persino qualche soldo in più che probabilmente ti meriti. Ma non puoi aspettarti di guadagnare come in uno studio privato. Se scegli di lavorare per la scuola pubblica, è perché ci credi, perché hai deciso che quello è il tuo campo di battaglia, perché è qualcosa che ti realizza o per lo meno non ti fa sentire inutile. E poi certo, è un lavoro che ti lascia a disposizione qualche mezza giornata in più (molte meno di quanto creda la gente, ma è meglio non dirlo troppo in giro, se vogliamo che resti un mestiere appetibile).
Insomma l’identikit dell’insegnante di sesso maschile – meglio scriverlo di nascosto, in fondo al pezzo – è quello di un romantico cavaliere di ventura. La buona notizia è che ce ne sono ancora di uomini così: bisogna solo perfezionare il reclutamento. È gente un po’ matta, senz’altro, ma se gli dai la battaglia giusta possono funzionare. Non puoi comprarli con due spicci in più (anche se non guastano). Devi far loro balenare l’idea che ci sia una crociata da vincere, un drago da sconfiggere, anche solo qualche mulino a vento da rimettere al suo posto. E devi controllare che si vestano in modo decente: altrimenti i genitori continueranno a scambiarli per i bidelli.