"Non è l’Arena" non è informazione

So bene quanto sia sbagliato e fuorviante giudicare una persona in base a un’impressione, a una frase detta in un contesto isolato, eppure ci sono alcune espressioni che a prescindere da quanto possano essere dettate solo da una circostanza non riesco proprio a mandare giù. Una di queste, per esempio, è l’uso del termine “scomodo” per auto-definirsi in quanto personalità fuori dagli schemi o, per usare un altro giro di parole molto diffuso tra chi ama tratteggiare il proprio carattere come fosse un ribelle senza padroni, “Io dico sempre quello che penso”. In generale, ma potrei anche sbagliarmi, una cosa che ho capito nella vita è che se qualcuno ci tiene a descriversi in un certo modo probabilmente o quella narrazione di sé non è del tutto onesta o si tratta di un modo per pararsi il culo. L’idea per cui ci si debba proclamare da soli elementi dissonanti del dibattito, outsider e voci fuori dal coro, contiene in sé un elemento che va in contrasto con il concetto stesso di “personaggio scomodo”.

In Italia c’è un conduttore che tiene molto a questa immagine di paladino della verità scomoda, giustiziere del non detto: Massimo Giletti, con la sua trasmissione che un tempo era L’Arena e dal 2017 è diventata Non è l’Arena, incarna bene lo spirito da cavaliere dell’inchiesta maledetta; una formula televisiva che se confinata ai limiti dell’intrattenimento può anche risultare avvincente a seconda dei gusti. Questo modo a metà tra l’informazione d’inchiesta trasparente e giornalistica nell’accezione più alta del termine e lo spettacolo sensazionalista che cerca la polemica rendendola centro di uno show – che, guarda caso, si chiama proprio “l’arena” – è un formato che rientra nell’ottica di “programma scomodo” per dare quel tocco di proibito alle questioni trattate. Se il programma che “dà fastidio” – espressione usata da Giletti per giustificare la cancellazione de L’Arena dai palinsesti Rai – rimane confinato ad argomenti di costume tutto sommato innocui, di pericoloso c’è ben poco. Il problema arriva quando questo tipo di televisione tocca temi spinosi in momenti delicati come quello che sta vivendo l’Italia nel mezzo di una pandemia. Una pandemia che convive con un flusso di informazioni contrastanti e precipitose, spesso false e infondate, che fiacca un Paese già in enorme difficoltà, anche grazie a leader dell’opposizione che sui loro profili social alimentano complottismo e scetticismo nei confronti della scienza.

Non ha nessun senso parlare di “meriti” del coronavirus, tratteggiandolo come un’occasione per riflettere o un momento per “scoprire se stessi”. Si tratta di una pandemia con conseguenze disastrose per tutto il mondo e non c’è proprio nessun lato positivo nel dover affrontare una crisi simile. Tuttavia, come si diceva nei meme in stile Camorra and Love, è nel momento delle difficoltà che si vedono gli amici. Se ci siamo risvegliati tutti di fronte al rischio mediatico di una trasmissione in cui Matteo Salvini recita una preghiera, tanto da lanciare una petizione per chiuderla – e ci siamo ricordati del livello tossico dei teatrini televisivi di Barbara D’Urso –, è chiaro che in fasi critiche come quelle che stiamo vivendo la televisione e i suoi contenuti generino molta più attenzione.

Proprio Massimo Giletti, lo stesso che attaccava D’Urso per aver dato spazio nella sua trasmissione al matrimonio tra Tony Colombo e Tina Rispoli – lui cantante neomelodico palermitano di spicco, lei vedova del boss di camorra Gaetano Marino – definendo il suo programma “irresponsabile”, salvo poi invitare a sua volta i coniugi nel suo programma, in questi mesi di emergenza sanitaria e quarantena ha reso ancora più evidenti i suoi difetti. Non tutti usciranno da questa situazione più saggi o maturi, ma qualcuno magari si renderà meglio conto della potenza penetrante e insidiosa di un messaggio che arriva male a destinazione e che crea un effetto a catena in un mondo in cui simboli e immagini hanno una predominanza indiscutibile.

Barbara D’Urso

Il fatto di aver criticato la collega D’Urso per poi fare esattamente il suo stesso gioco con la scusa dei chiarimenti – con l’aggravante della missione etica, sempre per rimanere nell’area del “personaggio scomodo” che dice le cose come stanno – è un esempio perfetto del  metodo Giletti: utilizzare mezzi, ospiti, linguaggio, prossemica e modalità di rappresentazione da infotainment presentandoli come se fossero informazione seria e istituzionale. Dunque, rendendoli molto più difficili da decodificare, dal momento che ci aspetteremmo di vedere Tony Colombo e consorte che sfilano su una carrozza nuziale barocca mentre la banda del carcere suona in una trasmissione trasmessa su Real Time, mentre decontestualizzati e inseriti in un set più serio l’atmosfera diventa quella dell’inchiesta. Eppure, come emerso dalle intercettazioni, il messaggio della coppia sembrava piuttosto chiaro: invadere spazio mediatico con materiale che dovrebbe restare di competenza della magistratura, facendolo diventare il focus di ore di televisione che parlano di nulla, se non mettendo in risalto e sfruttando l’aspetto pittoresco e “folkloristico” di una situazione potenzialmente pericolosa. Il punto critico di questo genere di televisione si raggiunge nel momento in cui si mescolano i linguaggi, travasando stilemi populisti e sensazionalisti in una narrazione che ha il grande svantaggio di viaggiare sempre su registri molto ambigui, come possono essere quelli dell’esposizione in situazioni che hanno a che fare con la criminalità organizzata, cosa che si è verificata anche con il caso delle sorelle Napoli di Mezzojuso.

In quel caso la situazione era molto più complessa e si è protratta su un arco di tempo piuttosto lungo, coinvolgendo diversi personaggi in momenti diversi. Le sorelle, diventate poi anche grazie a Giletti simbolo di un certo tipo di lotta alla mafia, hanno senza dubbio portato avanti la loro battaglia insieme al presentatore e ottenuto giustizia. Ciò su cui bisognerebbe concentrarsi, però, è il modo in cui è stata rappresentata tutta la vicenda, usando come esempio una puntata di Non è l’Arena in particolare, andata in onda lo scorso dicembre direttamente nella piazza di Mezzojuso. L’intento del presentatore, evidentemente, era quello di ricalcare i passi dei colleghi Santoro e Costanzo, che nel 1991 furono protagonisti di un evento eccezionale quando Rai e Fininvest unirono le dirette dopo l’uccisione di Libero Grassi.

Michele Santoro

In quel caso, il set della piazza, marchio di fabbrica di Samarcanda, era il risultato di un clima che definire teso è riduttivo, considerato che da lì a poco ci sarebbero stati anche gli assassini di Falcone e Borsellino. Utilizzare la rabbia e le urla di una piazza stremata dalla situazione era una novità giustificata dal momento particolare che l’Italia stava vivendo, non proprio la stessa – per quanto grave – di Mezzojuso. Perché allora utilizzare lo stesso impianto scenico, lo scambio con il pubblico, le urla di rimbalzo tra abitanti del comune, sindaco, sorelle Napoli, Giletti, Buttafuoco e così via se non per un puro fine spettacolare? Il giornalista scomodo – raggiunto in passato da diversi provvedimenti disciplinari da parte del’Odg – dà vita a un set non necessario per un teatro che coinvolge persone a rischio, esponendo l’intera comunità di Mezzojuso.

La prossemica di un presentatore, il modo in cui questo sfrutta il pathos, le parole che sceglie per descrivere la realtà sono fondamentali per fare sì che un’informazione arrivi al pubblico nel modo più onesto possibile. Viziare un racconto con tracce di sentimentalismo è poco virtuoso, soprattutto quando l’attualità che viviamo è appesantita da notizie false che si diffondono con una rapidità inedita grazie a internet, tanto da farci arrivare al paradosso per cui servono task force per smascherarle. In questo contesto, invitare un personaggio come Adriano Panzironi – guru di un metodo non riconosciuto dalla comunità scientifica con migliaia di seguaci che promette di vivere per 120 anni, per cui è stato ora sanzionato – e introdurlo nella propria trasmissione dicendo “Non ha una laurea, ma questo non vuol dire nulla”, è tanto fuorviante quanto disonesto. Specialmente se lo si chiama in causa per parlare di coronavirus, mettendolo al pari di scienziati e medici qualificati. Come se, tralasciando la veridicità di un metodo che usa promesse di lunga vita come fossero slogan di una televendita di pentole, fosse comunque lecito dare spazio a chi mette in discussione la scienza senza nessuna base per farlo. Stessa cosa che è avvenuta per una questione ancora più grave, ossia la diffusione della notizia falsa che riguardava l’efficacia quasi miracolosa di un farmaco usato in giappone contro la Covid-19, messa in giro da uno youtuber che per guadagnarsi da vivere vende videogiochi.

A Non è l’Arena, infatti, è stato mostrato il video di Cristiano Aresu, corrispondente improvvisato dal Giappone che ha trasformato una chiacchiera da bar del calibro de “L’Italia ci nasconde la cura” in un caso nazionale. Non importa se nelle puntate successive Aresu è stato richiamato per chiarire, non importa nemmeno se sono state prese le distanze. Dal momento stesso in cui decidi di mandare in onda un filmato così pericoloso in un momento delicato come quello che stiamo vivendo stai comunque instillando un dubbio. A maggior ragione poi se nel calderone di informazioni, vere o false che siano, contrastanti o non verificate, ci metti dentro a discuterne anche personaggi come Red Ronnie o Sgarbi, entrambi con meriti nei rispettivi campi ma non quando si parla di un medicinale o di un virus. Quale sarebbe dunque il senso di fare opinionismo superficiale in un momento in cui di sentenze e punti di vista non richiesti ne abbiamo fin troppi, grazie a chi sente di avere la verità in pugno per un video di YouTube o una foto che circola su WhatsApp.

Vittorio Sgarbi

La responsabilità di un giornalista, di un comunicatore, di un politico e di chiunque partecipi al dibattito oggi è fondamentale. Per capirlo basta vedere l’impatto che hanno cose apparentemente inutili come le stories e i post di personaggi come Fedez e Chiara Ferragni, che riescono a smuovere milioni di euro per una raccolta fondi. Può sembrare esagerato, ma questo è il mondo in cui viviamo, fatto anche di tweet e di contenuti che per alcuni di noi potrebbero sembrare ridicoli e inoffensivi, ma per altri rischiano di alimentare un sospetto, una paranoia e un’ansia che può arrivare a spingere le persone ad assaltare supermercati o treni nel cuore della notte. Gestire le informazioni in modo chiaro e privo di ambiguità senza renderle un dialogo da “Bar Sport” è proprio l’obiettivo che chiunque si occupi di comunicazione deve porsi, indipendentemente dallo spettacolo che ne viene fuori. Se Massimo Giletti vuole davvero essere un personaggio scomodo, potrebbe cominciare facendo sì che la sua televisione non diventi uno dei tanti palcoscenici dove sfogare i sentimenti più immediati e istintivi, per quanto umani, sacrificando la chiarezza delle informazioni per la fiction. Altrimenti resta solo un conduttore che dà fastidio, ma non per le ragioni che lui ama raccontarsi.

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