Lo scorso anno, una donna trans di Andria morì a 49 anni sola in casa, nell’indifferenza dei suoi concittadini. Vittima in vita di pregiudizi e aggressioni, Gianna ne subì anche dopo la morte: i familiari infatti, senza rispettare la sua identità, fecero affiggere i manifesti con il nome anagrafico e non con quello che si era scelta. La sua storia arrivò all’interesse nazionale perché Vladimir Luxuria prese a cuore la vicenda e l’azienda di pompe funebri Taffo, non senza qualche polemica, diffuse su internet nuovi manifesti con il nome di Gianna “per darle un rispettoso ultimo saluto”. Ciò che è successo a Gianna dopo la sua scomparsa succede a decine di persone trans che abitano in questo Paese e la cui memoria viene tradita, spesso dalle stesse famiglie che mentre erano in vita le ignoravano o allontanavano o dalla burocrazia che interviene nelle situazioni di disagio economico.
Per dare un nome e una misura a questo fenomeno, il Movimento Identità Trans (Mit) – storico gruppo di rivendicazione dei diritti delle persone transgender – ha avviato un progetto di raccolta e di censimento delle tombe di persone trans decedute intitolato “I nomi favolosi”, con l’obiettivo di realizzare un docufilm. Il Movimento ha chiesto alle persone di indicare luoghi dove sono sepolte persone trans nei cimiteri italiani e sudamericani – nazionalità d’origine di molte donne trans residenti nel nostro Paese –, ritrovandone il nome e l’identità reale. “Alle persone trans viene negata una dignità dopo la morte”, spiega a The Vision una delle fondatrici del Mit, Porpora Marcasciano. “È come se le famiglie si riprendessero ciò che apparteneva a loro, il loro figlio con il nome che gli avevano dato, anche se spesso non c’era più alcun rapporto. Sulle tombe appare un nome che più nessuno conosce, molto spesso con foto vecchie di trenta o quarant’anni o che mostrano una discrepanza tra l’aspetto di una persona e il nome sulla lapide”. Questa prassi, aggiunge Marcasciano, fa sì che spesso gli amici e gli affetti acquisiti in anni più recenti non abbiamo un luogo dove piangere i propri cari.
Il nome riveste un’importanza fondamentale nel percorso di affermazione del genere e segna il riconoscimento sociale della propria identità. Il nome di battesimo viene chiamato dalle persone trans “deadname”, nome morto, per sancirne un abbandono definitivo. Per questo motivo l’uso del nome di nascita (deadnaming) e dei pronomi sbagliati (misgendering) – ancor più se fatti consapevolmente con l’intento di negare l’identità di una persona – sono una forma di violenza transfobica. Come ha rilevato uno studio dell’Università di Austin, Texas, pubblicato sul Journal of Adolescent Health, gli adolescenti transgender dai 15 ai 21 anni chiamati con il nome di elezione riportano il 71% in meno di sintomi legati alla depressione e il 65% in meno di tentativi di suicidio rispetto a quelli che sono costretti a utilizzare il loro nome di nascita. Avere anche un solo contesto sociale in cui si viene chiamati con il nuovo nome, ad esempio la scuola, ridurrebbe il rischio suicidario del 29%. “Spesso la questione del nome viene considerata un capriccio”, spiega Marcasciano. “Ma è qualcosa che emerge nella vita di tutti i giorni: ci sono persone che non vanno a votare per l’imbarazzo che creano i vecchi documenti e questo problema esiste anche all’università o in qualsiasi ufficio pubblico”. Fino al 2015 per cambiarlo era necessario avere eseguito interventi chirurgici per la modifica dei caratteri sessuali, ma una sentenza della Cassazione e una della Corte Costituzionale hanno stabilito che non sono obbligatori. Tuttavia, ancora oggi molte persone incontrano diversi problemi nel processo di rettifica anagrafica e qualcuna scompare prima che sia possibile questa modifica.
Per Marcasciano, il disconoscimento dell’identità delle persone trans è come una “seconda morte, quella della loro memoria”. Nella sua autobiografia L’aurora delle trans cattive scrive: “Di loro non si sa più nulla, sospese nel limbo grigio della negazione, da qualche parte nel mondo, in un cimitero, sperdute tra milioni di loculi metropolitani, con vecchie foto, surreali, riconosciute da pochi, sconosciute a se stesse, il nome di nascita stampato sul marmo freddo, chi potrà mai riconoscerle?”. Questo vale in particolare per le vecchie generazioni, la cui memoria rischia di perdersi insieme al loro nome. E considerando quanto la storia del movimento trans in Italia sia ancora sconosciuta, il rischio è non solo che si perdano le singole vicende umane, ma che un’intera fetta della storia LGBTQ+ italiana scompaia con esse.
Considerando poi quanto le vite delle persone transgender siano in bilico, sia per l’alto rischio suicidario sia perché l’Italia è il primo Paese per omicidi transfobici in Europa, le questioni del nome e della memoria diventano ancora più cruciali. Il sito di giornalismo investigativo ProPublica ha realizzato un’inchiesta sulle indagini relative a omicidi transfobici negli Stati Uniti e ha scoperto che in 74 casi su 85 avvenuti tra il 2015 e il 2018 la polizia aveva realizzato le indagini basandosi sul nome di battesimo della vittima. La tesi dell’inchiesta è che non tenere conto del nome di elezione, con cui presumibilmente una persona trans è conosciuta nella propria comunità, non solo sia irrispettoso, ma rallenti il corso delle indagini e faccia sì che oltre il 45% dei casi di omicidio a matrice transfobica rimanga irrisolto. Proprio a commento di questa inchiesta, l’attrice transgender Laverne Cox raccontò di aver pensato al suicidio in passato e di aver deciso di lasciare delle lettere per chiedere di essere chiamata “Laverne” e che nei suoi confronti fossero usati i pronomi femminili anche dopo la scomparsa. “Il misgendering e il deadnaming dopo la mia morte”, ha scritto l’attrice, “mi sembravano l’ultimo definitivo insulto alle ferite psicologiche ed emotive che ogni giorno sperimentavo come donna nera e trans a New York, ferite per le quali volevo togliermi la vita”.
L’iniziativa di Mit è quindi un primo passo verso un riconoscimento postumo di una dignità che viene negata molto più spesso di quanto crediamo. Nel contesto dell’esperienza transgender è ancora più significativo che questo censimento sia promosso con un’azione dal basso, attivando quella rete di networking che, come scrive la storica dell’omosessualità Maya De Leo, è fondamentale “non solo per lo scambio di informazioni e supporto, ma soprattutto per il processo stesso della definizione e costruzione del sé che svela tutta la sua natura relazionale. Il bisogno di vedere e stare in relazione con altre persone trans per riconoscere anche sé stesse”. È infatti la nuova rete di affetti e di sostegno, per certi versi la famiglia che si è scelti, che si fa carico di restituire l’autenticità della persona alla memoria collettiva. Si tratta di un’operazione unica nel suo genere che si spera possa stimolare un discorso che vada al di là della questione delle sepolture, ma che si allarghi al riconoscimento dell’esistenza e delle istanze politiche delle persone transgender nel nostro Paese.
Mai come in questi giorni di discussione sul ddl Zan è emerso quanto ancora le vite marginalizzate, specialmente quelle trans e non binarie, siano discusse e sovradeterminate dall’esterno e da chi con queste vite non ha nulla a che fare. Ancora oggi si decide in maniera arbitraria come si debbano sentire, presentare, nominare e persino quale sarebbe il modo più corretto per lottare per i propri diritti. Non si tratta, quindi, di portare un generico rispetto per chi non c’è più, ma di un problema politico che nella questione delle sepolture rivela tutta la sua urgenza. Identificare e quantificare queste tombe, ma soprattutto ricostruire la storia favolosa dietro quelle fotografie in abiti maschili e quei nomi che in pochi ricordano, è un atto dovuto.