A volte un meme, un fotogramma o un breve spezzone di un film sono in grado di catturare e sintetizzare più di qualsiasi altra opera lo spirito di un momento storico, perché in maniera istantanea, non mediata e orizzontale. “L’origine del mondo”, di Gustave Courbet; il Rivoltoso Sconosciuto, fotografato fermo immobile davanti ai carri armati il giorno dopo le proteste di piazza Tienanmen a Pechino, il 4 giugno del 1989; Neil Armstrong che sbarca sulla Luna; Philippe Petit in equilibrio sul vuoto tra le due torri gemelle; o la bambina che nel 1972 scappa nuda da un attacco al Napalm fotografata da Nick Ut fanno parte del nostro immaginario collettivo e della nostra storia; ma anche i meme “Distracted boyfriend”, “Hide the pain Harold” o “Woman yelling at a cat”; in una straniante commistione tra alto e basso, in cui inequivocabilmente emerge un valore altro da quello estetico, etico o morale. Forse è per questo che non mi sono stupita quando l’anno scorso ho sentito parlare per la prima volta di NFT. La sigla mi è apparsa sotto gli occhi traducendo un articolo in ambito finanziario e, come succede sempre più spesso nell’era degli algoritmi, poche ore dopo mi è stata riproposta su Facebook. Un amico che lavora nella finanza si interrogava proprio su questo strumento che mi ha subito incuriosita, come può incuriosire qualcosa di orrendo o di surreale.
Nel giro di poche settimane tutti ne parlavano, anche chi di finanza, o di arte, non ne sapeva nulla. Improvvisamente, non si capiva bene in virtù di quale strana forza, parevano esserci persone che vendevano immagini di clip art del tutto insignificanti guadagnandoci un bel po’ di soldi, e altre che inspiegabilmente sborsavano grandi somme di denaro per rivendicarne la proprietà. NFT sta per Non-Fungible Token: unità di valore digitale non fungibile. Una moneta da un euro – così come di qualsiasi altra valuta o un Bitcoin o un Ether – è un fungible token, ovvero è un oggetto con un valore specifico ma non unico, e quindi intercambiabile. Un’opera d’arte, un francobollo o un oggetto di valore, invece, sono oggetti con un valore determinato, che può salire o scendere, ma che non può essere sostituito. Gli NFT sono la stessa cosa, ma in versione digitale e con un sistema di verifica automatica della loro unicità su una blockchain (ce ne sono varie, ma la più usata al momento è Ethereum), una specie di libro mastro digitale che registra le transazioni. In sintesi, un NFT è trasferibile ma non intercambiabile, e ti dà proprietà esclusiva di un qualsiasi oggetto digitale, sia un’immagine, una canzone, ma anche un Tweet, e qualsiasi altra cosa possa essere trasformata in un NFT. Un NFT è un certificato, la cui attendibilità è derivata dalla stessa blockchain. Ma gli NFT, in sostanza, sembrano monetizzare qualcosa che prima d’oggi poteva non aver alcun valore – a differenza delle opere d’arte.
Il mercato degli NFT, ancor più del normale mercato delle criptovalute, è diventato subito una sorta di Far West, o meglio Wild Wild West, tanto che alcune opere sono state convertite in token senza che i loro creatori lo sapessero. Ma la cosa ancor più incredibile è che l’oggetto virtuale originale, la maggior parte delle volte, rimane del tutto accessibile online a chiunque. La licenza che accompagna le opere di crypto art, infatti, di base permette all’acquirente di mostrarle solo per uso personale (su un profilo social, in un videogioco o in un museo virtuale, per esempio) e di solito i diritti creativi e intellettuali rimangono agli artisti. Questo, per certi aspetti, significa che i buyers in realtà stanno semplicemente comprando il diritto di vantarsi della presunta proprietà di quell’oggetto virtuale. Il punto, come sembra emergere molto chiaramente dalle dichiarazioni di Chris Torres, l’ideatore della GIF del Nyan Cat, è tutto nell’appagamento dato dal sapersi gli unici possessori di un unico pezzo esistente, pur essendo paradossalmente quell’oggetto virtuale e fruibile visivamente da chiunque. Sembra un cortocircuito cognitivo, o un incubo generato dal tardo capitalismo, eppure è così, e centinaia di migliaia di persone – anche molto influenti – ci credono e lo nutrono.
Varie celebrità e influencer statunitensi, infatti, hanno subito iniziato a parlarne, come fosse una vera e propria moda del momento: da Matt Damon a Serena Williams. Jimmy Fallon, comico e presentatore televisivo, ha “incidentalmente” speso più di 200mila dollari per l’NFT della “Bored Ape”, che ha piazzato come foto profilo su Twitter. Gli NFT di altre scimmie sono stati rubati attraverso rapine digitali. Gucci, ispirato dal collezionismo di questo tipo, ha iniziato a vendere merce che esiste esclusivamente sotto forma di dati, creando un paio di sneakers per la app bielorussa Wanna da indossare nella realtà virtuale per farci le foto. Beeple – ovvero Mike Winkelmann, artista senza particolari competenze e dall’approccio totalmente naïf – ha invece venduto una sua opera all’asta come NFT per 69,3 milioni di dollari. Ma non dovrebbe stupire dato che Stephanie Matto – un’ex concorrente del reality 90 Day Fiancé e creatrice di contenuti per adulti – ha iniziato letteralmente a vendere le proprie scoregge in barattolo e quando, probabilmente a causa della dieta seguita per produrre tanto gas intestinale, ha avuto un attacco di cuore, per non vedere crollare la sua ormai avviata attività, invece dei barattoli ha iniziato a vendere i loro NFT, con la tagline: “Imagine the smell!”. Insomma, più che arte sembra una parodia volgare e distopica, in cui si vende aria fritta nella migliore delle ipotesi.
Messo così, il fenomeno degli NFT da un lato sembra l’ultima moda divertente, che permette ai milionari di distrarsi e all’uomo qualunque di tentare la sorte – e già qui ci sarebbe di cui discutere –; dall’altro può essere considerata, dai più ottimisti, come una democratizzazione del mondo dell’arte, che finalmente permette agli artisti di essere ripagati del lavoro che fanno (ma che per varie ed eventuali ragioni prima non veniva valutato), e senza servirsi di intermediari o di un sistema di riconoscimento e convalida dall’effettiva qualità artistica della propria produzione. Eppure non è tutto oro quel che luccica. Intanto, creare un NFT ha un prezzo, e questo prezzo è altamente volatile. Il processo di conio, infatti, ha un costo, che per forza di cose varia in base al prezzo operativo giornaliero dell’Ether. Vari marketplace, come Mintable o Rarible, moderano i contenuti che possono essere messi in vendita, altri, come OpenSea, no. Questo significa che non si deve essere approvati come artisti per vendere su quella piattaforma e che il marketplace è stracolmo di cianfrusaglie digitali che probabilmente nessuno comprerà mai e che pure per essere create hanno consumato (sprecato?) soldi e un’enorme quantità di energia. La “crypto art” (al pari dei Bitcoin) consuma un’enorme quantità di risorse energetiche. Questi due prodotti, infatti, si basano su processi informatici estremamente dispendiosi e inefficienti, che servono proprio a dare validità ai dati. Ethereum, il network a cui si affidano la maggior parte delle più importanti piattaforme di crypto art per effettuare le compravendite, e che si basa sulla criptovaluta Ether, è molto più efficace dei sistemi che estraggono bitcoin e sta cercando di ridurre del 99% i suoi consumi, perché il suo stesso fondatore – il russo Vitaliy Dmitrievič Buterin, detto Vitalik – lo ha definito come “un enorme spreco di risorse”. Ethereum – che conta il più alto numero di transazioni rispetto a tutte le altre criptovalute e al momento vale circa 10 miliardi di dollari – è una catena estremamente dispendiosa: una singola transazione su Ethereum consuma circa 200 kilowatt-ora (KWh) e così, secondo le stime, la blockchain avrebbe un consumo annuo di elettricità di circa 100 terawatt-ora (TWh), cifra vicina ai consumi annuali dell’intero Kazakistan o del Pakistan, per avere un metro di paragone. Per questo presto verrà lanciato Ethereum 2, che si propone di essere molto più efficiente e – per quanto possibile – sostenibile.
Proprio come per le criptovalute, è difficile valutare l’effettivo valore d’uso degli NFT. Al pari delle più demenziali startup nate in seno alla Silicon Valley e alle truffe multilivello (sempre in voga), oggi appaiono più come investimenti speculativi attraverso cui pochissimi privilegiati riescono a ottenere denaro da qualcosa che però non ha alcuna impronta sulla realtà o beneficio sociale. La maggior parte degli NFT, infatti, resta inutile spazzatura, una spesa sotto diversi punti di vista che non è nemmeno in grado di far guadagnare qualcosa. La democrazia, in questo caso, appare più che mai insostenibile da un punto di vista di risorse planetarie. Eppure, il sistema attuale, nutrito per decenni, ha fatto sì che a nessuno interessi compiere scelte etiche se anche solo si intravvede la microscopica possibilità di un enorme guadagno. La nascita e la fama degli NFT riflettono un mondo in cui qualsiasi cosa può essere monetizzata, anche se non ha alcun valore intrinseco. Gli investitori stanno cercando di ampliare i propri orizzonti di investimento verso una sorta di gioco da bambini, dove chiunque – a patto che lo faccia per primo – può gridare “MIO”, o “DIBS” come Barney Stinson in How I Met Your Mother, che guarda caso lavora proprio nella finanza. Un modo per pretendere e rivendicare la proprietà di qualcosa, qualsiasi cosa, prima di un altro. Stiamo andando incontro a una finanziarizzazione del mondo, sempre più imponente, perché qualsiasi cosa può essere trasformata in un token, in qualcosa che chiunque può vendere e comprare.
Come sappiamo, il Covid, che ha rappresentato un momento di profonda crisi per milioni di lavoratori (in particolare nelle fasce medio-basse della popolazione), per altri è stato un acceleratore esponenziale di patrimonio. In questa cornice, il boom degli NFT sembra coincidere proprio con un periodo di profonda crisi collettiva che ha fatto emergere ancora più brutalmente le disparità sociali. Spinte dalla pubblicità che ne hanno fatto i vip, molte persone si sono avvicinate a questo strumento al limite del nonsense quasi come fosse una roulette, una puntata al black jack. Al tempo stesso gli hedge fund – pronti a fagocitare tutto – fanno ormai il bello e il cattivo tempo dell’andamento delle borse di tutto il mondo, con ampissime oscillazioni, del tutto imprevedibili, del mercato azionario almeno in teoria più stabile e razionale.
Gli eventi degli ultimi due decenni avrebbero dovuto rappresentare un’occasione per ripensare dalle fondamenta il sistema finanziario globale – così come dei singoli Paesi – e quello degli Stati Uniti in particolare, perché ben più deregolamentato di altri. Il divario tra finanza ed economia reale, invece, appare sempre più incolmabile, e questo fa sì che gli effetti positivi del mercato finanziario non ricadano mai davvero sulla qualità della vita della popolazione. I paracaduti sociali previsti dai governi di molte democrazie mature, invece, appaiono in tutta la loro inadeguatezza e gli ultra-ricchi restano sottotassati e hanno carta bianca per trarre il maggior profitto dai propri patrimoni, calpestando i più deboli e la legislazione degli Stati stessi in cui operano, rinforzando di minuto in minuto il loro status, evidentemente ormai irraggiungibile e senza limiti, perché nessuno degli organi che potrebbero metterli si prende la responsabilità di farlo.