È curioso che il termine “neoliberismo”, negli ultimi tempi tanto usato, sia diventato così popolare proprio quando chi si occupa di neoliberismo sta discutendo di una sua eventuale fine. Sarebbe bello poter dire che è come quando capisci il senso di un film negli ultimi cinque minuti, ma purtroppo bisogna ammettere che questo film sta andando avanti da almeno quarant’anni, e a mio parere si è ancora ben lontani dalla conclusione. Il neoliberismo è infatti un’ideologia politica e una teoria economica nata negli anni Ottanta, che ha definito e tuttora definisce gli sviluppi del capitalismo. È un’ideologia subdola e pervasiva, perché riesce a presentarsi come anti-ideologica, e condiziona non solo l’andamento dei mercati, ma invade anche le nostre vite private, influenzando il nostro modo di pensare, lavorare, vivere.
Come tutte le teorie che si rispettino, anche il neoliberismo ha il suo ideologo di riferimento, Friedrich Von Hayek, Premio Nobel per l’economia nel 1974 e autore, tra gli altri, del saggio La società libera (1960). Secondo Von Hayek, la società si regge solo e unicamente sull’azione individuale. Ogni persona infatti agisce perseguendo un proprio fine e ogni tentativo di dirigere o limitare le sue azioni, come pretende di fare l’economia pianificata, è destinato al fallimento. La società si mantiene assieme per una sorta di eterogenesi dei fini, secondo un ordine che, a parere di Von Hayek, non è il risultato di una progettazione umana, ma si autogenera spontaneamente. Ne consegue che un controllo dall’alto, come quello incarnato dallo Stato, non è necessario. Ovviamente non si tratta di anarchia: quest’ordine è infatti regolato dalla proprietà privata che, oltre a essere il fondamento della civiltà, è anche una sorta di argine morale, “la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con l’assenza di conflitti”, scrive Von Hayek.
Racconta la leggenda che Margaret Thatcher, in una delle sue prime riunioni come leader dei Tory britannici nel 1975, tirò fuori dalla borsetta una copia de La società libera per poi scagliarla sul tavolo dicendo: “Questo è tutto quello in cui crediamo”. La prima ministra britannica, assieme al presidente statunitense Ronald Reagan, incarna infatti pienamente lo spirito del neoliberismo: privatizzazioni, deregolamentazione e tagli alla spesa pubblica sul versante economico, conservatorismo su quello politico. Una dottrina come questa si fonda sull’iniziativa privata e sul progressivo indebolimento del controllo dello Stato, come nell’utopia (o forse sarebbe meglio dire distopia) di Von Hayek, un laissez-faire portato alle estreme conseguenze dove ognuno è artefice del proprio destino, e quindi anche del proprio fallimento. Come scrive George Monbiot sul Guardian, “Il neoliberismo considera la competizione la caratteristica distintiva delle relazioni umane. Ridefinisce i cittadini come consumatori, le cui scelte democratiche si esercitano tramite l’acquisto e la vendita, un processo che premia il merito e punisce l’inefficienza. Sostiene l’idea che ‘il mercato’ apporti dei benefici che non potrebbero mai essere raggiunti con la pianificazione”.
Il neoliberismo nacque con la crisi delle socialdemocrazie progressiste che si ispiravano in linea di massima ai principi socialisti e alle teorie di John Maynard Keynes e che si basavano sul riformismo economico e sulla necessità dell’intervento pubblico, in particolare per la creazione di un welfare state. Le socialdemocrazie vacillarono a livello mondiale alla metà degli anni Settanta, in seguito alla crisi del petrolio del 1973, quando i prezzi del greggio aumentarono improvvisamente con la guerra del Kippur, che vide Siria ed Egitto contro Israele. La crisi economica fu l’occasione perfetta per i governi Thatcher e Reagan per dimostrare il fallimento delle politiche di nazionalizzazione e affermare la necessità dell’impresa privata. Alla guida dell’esecutivo britannico dal 1979 al 1990, Thatcher privatizzò la compagnia aerea nazionale e le principali aziende di telecomunicazioni, energia e acciaio del Paese, ma soprattutto varò il cosiddetto “Big Bang Act” che deregolamentò completamente la borsa inglese, aprendo la strada alle future speculazioni finanziarie. Questi profondi cambiamenti risollevarono i conti dello Stato ma non furono privi di vittime collaterali: il thatcherismo distrusse la classe lavoratrice inglese, annientò i sindacati e inasprì le disuguaglianze sociali.
Politiche simili furono adottate anche dal presidente americano Reagan, in carica dal 1981 al 1989, e dalla sua “Reaganomics” ispirata alle teorie di Milton Friedman. Non bisogna poi dimenticare, nel novero delle imprese del neoliberismo, la dittatura di Pinochet in Cile dopo il golpe dell’11 settembre 1973 con la complicità della presidenza Nixon. A Santiago i “Chicago Boys” di Friedman, mentre i militari soffocavano nel sangue ogni forma di opposizione al regime, si occuparono della progressiva privatizzazione tutti i servizi essenziali, accendendo un conflitto sociale che ancora oggi è in corso. Non deve stupire la storia cilena: il neoliberismo ha infatti un impianto fortemente antidemocratico. Friedrich Von Hayek considerava infatti la democrazia rappresentativa un ostacolo alla realizzazione del singolo, se non proprio antitetica all’esercizio della proprietà privata. E infatti l’economista fu un fervido sostenitore della dittatura di Pinochet: “Nell’era moderna ci sono stati molti esempi di governi autoritari in cui la libertà personale era più al sicuro che nella democrazia”. Forse le 40mila vittime del regime cileno non la penserebbero allo stesso modo.
Sono in molti a pensare che il neoliberismo sia stato solo una parentesi degli anni Ottanta e Novanta – positiva o negativa a seconda delle opinioni. In realtà, se è vero che questi furono i due decenni in cui la dottrina economica venne applicata nel modo più scrupoloso, non si può dire che la stagione neoliberista si sia conclusa definitivamente. Anzi, da un certo punto di vista oggi ne viviamo le conseguenze più drammatiche. Anche i partiti di sinistra, con la “terza via” di Tony Blair e Bill Clinton, hanno adottato una prospettiva più indulgente verso le imprese private e antistatalista, complicata da quella che è cominciata come una tragedia e poi si è trasformata in una farsa, come titola un celebre pamphlet di Slavoj Žižek: la crisi economica. L’ideologia neoliberista del primato dell’individuo e del mercato sembrerebbe inconciliabile con uno stato di crisi permanente come quello in cui viviamo oggi. Eppure è proprio la commistione di questi due aspetti ad aver creato una società profondamente divisa e classista, dove tutti sembrano accettare che l’1% più ricco del mondo detenga più del doppio della ricchezza netta posseduta da 6,9 miliardi di persone. La “dottrina dello shock”, come la chiama Naomi Klein, è il perfetto assist per il neoliberismo: la crisi che segue un disastro è la scusa ideale per imporre politiche impopolari che avvantaggiano pochi a discapito di molti. Una visione disumana, ma che in molti giustificano nel nome dell’economia.
“Non esiste la società. Esistono solo gli individui”, diceva Margaret Thatcher con una massima celebre e in un certo senso profetica. Oggi la dimensione collettiva è venuta sempre meno, proiettandoci in un’apparente dimensione di autosufficienza che ci impedisce non solo di creare solidarietà con gli altri, ma persino di sentirne il bisogno. Ci sentiamo sempre più soli, e lo siamo. E il paradosso è che l’insistenza sulla realizzazione individuale di cui si fregia l’ideologia neoliberista non ci ha trasformati, come promesso, in esseri liberi e di successo, ma ha finito per illuderci con la promessa che un giorno lo saremo, se ci impegneremo a sufficienza. D’altronde, nelle intenzioni di Von Hayek, la tanto celebrata “libertà individuale” è quella della classe dominante. La narrativa della positività, della felicità a tutti i costi e della meritocrazia sono funzionali a questo sistema, che ha creato una forma più sofisticata dell’alienazione, che ci ha trasformati da “soggetti d’obbedienza” a “soggetti di prestazione”, come scrive il filosofo coreano Byung-chul Han: “Con l’incremento della produttività il paradigma della regolamentazione viene rimpiazzato dal paradigma della prestazione, ossia dallo schema positivo del poter-fare […]. La positività del poter-fare è molto più efficace della negatività del dovere. Così, l’inconscio sociale passa dal dovere al poter-fare”.
Se oggi siamo ancora qui a parlare di neoliberismo, infatti, è perché questa è diventata l’ideologia dominante del nostro tempo, nonostante da anni si parli di “fine delle ideologie” o di “società post-ideologica”. Pur presentandosi come una semplice dottrina economica in favore dell’autodeterminazione del singolo, il neoliberismo è profondamente ideologico perché, come scrive Žižek, “L’ideologia non nasconde o distorce una realtà soggiacente […], ma piuttosto è la realtà stessa che non può essere riprodotta senza mistificazione ideologica”. Di un’ideologia quindi non ci si libera tanto facilmente, a maggior ragione se, concentrati come siamo su noi stessi, non siamo nemmeno in grado di riconoscerla come tale.