
Ogni mattina sui social, un commentatore si sveglia, e sa che dovrà indignarsi per qualcosa se vorrà accaparrarsi qualche like. Ogni mattina sui social, quando le redazioni aprono e la cronaca langue, un giornalista si sveglia, e sa che dovrà esprimere un’opinione forzata pur di portare a casa lo stipendio. Ogni mattina sui social, non importa che tu sia un utente o un giornalista, l’importante è spararla grossa.
Stavolta l’oggetto del dibattere non è l’opulento matrimonio social dei Ferragnez, e nemmeno il profilo Instagram del figlio di Corona. L’argomento della settimana è di ben altra portata, e riguarda la vita umana e il modo in cui concepiamo la malattia. Il 22 settembre Nadia Toffa, Iena e personaggio televisivo che combatte da mesi contro un tumore al cervello, ha annunciato la pubblicazione del suo libro Fiorire d’inverno, il racconto della sua lotta contro la malattia. A scatenare le polemiche è stato il tweet con cui ha dato l’annuncio:
Ecco qui Ragazzi, in questo libro vi spiego come sono riuscita a trasformare quello tutti che tutti considerano una sfiga, il cancro, in un dono, un’occasione, una opportunità. pieno damore . Non ho mai sospeso la vita e come ci sono riuscita io ….buona giornata a tutti pic.twitter.com/41rpqoP01B
— Nadia Toffa (@NadiaToffa) September 22, 2018
Molti hanno interpretato il messaggio come “il cancro è un dono”, quando Toffa stava dicendo che lei, nella sua personale esperienza, l’ha trasformato in un’occasione per guardare la sua terribile sfortuna da un’altra prospettiva. È bastato davvero poco per accendere la miccia dei commentatori, che non hanno perso tempo nel ricordare a Toffa come ci si deve comportare con la malattia. Perché a quanto pare c’è un codice deontologico da seguire, delle norme specifiche, ci si deve attenere a un presunto galateo e – in definitiva – non si può affermare quel che si vuole sulla PROPRIA malattia. Certo, Toffa non ha avuto la prontezza di rispondere in modo educato, seminando botta e risposta discutibili, come quello contro l’università. Al commento sarcastico di una studentessa di medicina, ha risposto, testualmente: “L’università ti è servita poco alla cultura. Che peccato doldi dei tuoi genitori buttati nel cesso. Hanno puntato dul cavallo zoppo. Succede. Meritvsno di meglio ma non hanno colpe. Han fatto di tutto eh che i figli non ce li si sceglie.”
L’eloquio di Toffa è sgrammaticato, ma potrebbe essere l’effetto delle cure. In fondo si sta parlando di una persona ancora in convalescenza dopo una grave malattia. Ma questo sembra non fregare a nessuno, dato che partecipare al gioco del commentino cinico, magari per strappare qualche magro sorriso, è una tentazione troppo forte. Il campione di questo gioco è stato Filippo Facci – già noto per altri commenti al vetriolo, tanto da poter “vantare” anche una sospensione dall’ordine dei giornalisti. “Pure il libro,” ha sentenziato dalle colonne di Libero, “siamo alla spettacolarizzazione del tumore e alla sua trasformazione in core-businnes di un’ attività pseudo-giornalistica: avremmo voluto non tornarci più sopra, sul penoso ‘caso Nadia Toffa’, ma la banalizzazione dei malati che questa signorina sta perpetuando è più importante di lei e della sua egolatria.” Il signor Facci sembra dimenticarsi che la condivisione e la positività sono elementi fondamentali nella lotta contro il tumore. Nessuno vuole affermare che basti “pensare positivo” per superare una malattia che necessita di un’infinità di cure. Allo stesso tempo, non vedo perché qualcuno debba mettere bocca sui modi in cui un malato affronta il proprio male.

Nadia Toffa è un personaggio pubblico, inevitabilmente esposto sul piano mediatico: avrebbe potuto sparire e curare il proprio male in privato, o al contrario tenere un video-blog per ogni giorno di chemio. Non c’è una maniera “giusta” di affrontare un’esperienza così traumatica. Si parla di “spettacolarizzazione del tumore”, in realtà non possiamo sapere quali dinamiche ci siano dietro questa sovraesposizione di Toffa. Non possiamo sapere se la malata abbia deciso di lucrare sul proprio male o se abbia deciso di portare un esempio di positività a chi come lei versa in questa grave condizione. Data la possibilità di andare in tv, non vedo perché non avrebbe dovuto provare a fornire un esempio di combattività a chi sta male. La questione è che non ci devono interessare le ragioni, né tantomeno l’esito del suo comportamento: non abbiamo il diritto di sindacare sulle scelte di una persona malata, se queste non fanno del male a nessuno, perché pertengono al bene più prezioso che abbiamo, ovvero la vita.
Anche perché c’è chi non si è limitato al solo commento indignato. L’irriducibile cinismo del web non ha risparmiato nemmeno il caso Toffa, e sui social c’è stato un fiorire di meme dal gusto più che discutibile. Ci si chiede se tra tutti questi artisti contemporanei del commento ci siano gli stessi che, all’indomani del terremoto di Amatrice, si indignavano per la pacchiana copertina di Charlie Hebdo sulla questione.
Non vogliamo trasformare Toffa in un’eroina, non ci interessa. Il nodo è proprio questo: non dobbiamo denigrare una persona per come si comporta riguardo il suo privato, allo stesso modo non dobbiamo tesserne le lodi come se fosse la portavoce di tutti i malati del mondo. Toffa ha deciso di fornire la propria versione, lo ha fatto probabilmente con armi troppo ingenue, o travisando la possibilità di raccontare se stessa, ma sta combattendo, e questa è comunque una bella notizia – a meno che non si aspetti con ansia la morte di qualcuno, così da inventarsi qualche nuovo post acchiappa like in stile “Ci mancherai guerriera.” Che poi Toffa non è la prima ad aver deciso di esorcizzare la malattia con le proprie armi. Nel 2012 l’esperto di design e robotica Salvatore Iaconesi ha scoperto di avere un tumore al cervello. Ha lanciato La Cura, un progetto open source a metà strada tra il racconto e la performance. In questo spazio Iaconesi ha raccontato la sua lotta contro il cancro e ha dato la possibilità a chiunque di raccontare la propria. La sua idea era proprio di lanciare un network a livello globale, attraverso lo strumento della rete. In questo modo, i malati avrebbero potuto combattere la solitudine della propria condizione, e allo stesso tempo la società avrebbe potuto avvicinarsi a loro. Il progetto è diventato un libro, per testimoniare la possibilità di costruire un ponte tra il malato e chi gli sta intorno.

Iaconesi ha utilizzato la rete in maniera proficua, scoperchiando il vaso di Pandora della propria battaglia. Nadia Toffa cerca di fare lo stesso, magari in un modo non particolarmente acuto, ma comunque seguendo il proprio istinto e le proprie capacità. Lo ha ribadito lei stessa: “Imparate a non giudicare e fatevi un giro negli ospedali o a casa dei malati oncologici. Non c’è un funerale in corso perché le persone sono ancora vive e sono felici di esserlo e così le persone che li assistono ovviamente, con dolore e strazio ma con resilienza.” È pur vero che non bisogna credere che la sola forza di volontà basti a superare mali del genere, perché in ogni caso ci vogliono cure mediche e tutti dovrebbero essere indirizzati verso di esse. Allo stesso tempo, per superare momenti così difficili, focalizzarsi sulla propria interiorità è un aspetto importante della cura. Se la tecnologia ci dà la possibilità di condividere in maniera così ampia, cerchiamo di sfruttarla al meglio, magari senza l’ansia da social. Perché alla fine, l’unica vera solitudine è quella di chi, nel buio della propria cameretta, ogni mattina si sveglia, e sa che sui social dovrà indignarsi per qualcosa se vorrà accaparrarsi qualche like.
