Lo scorso 28 aprile, nello stabilimento ex Ilva di Taranto, si è verificato un incidente che ha posto a serio rischio la vita dei lavoratori. Durante la fase di colata un’onda di acciaio incandescente ha investito tutta la linea coprendo il coperchio della lingottiera. Fino a qualche minuto prima gli operatori si trovavano in quel punto esatto per il cambio di un tubo; poi un boato li ha messi in fuga e così nessuno è rimasto coinvolto. “Questa tipologia di evento incidentale si è verificata diverse volte anche in passato, ogni volta i lavoratori escono incolumi per pura fortuna e ogni volta puntualmente denunciamo l’accaduto”, ha spiegato Francesco Rizzo, coordinatore provinciale del sindacato Usb. In effetti, lo stabilimento tarantino compare costantemente sulle pagine della cronaca locale e nazionale. L’8 aprile, la rottura delle funi di una gru ha causato la caduta di un rotolo di lamiera d’acciaio che per pura coincidenza non ha colpito nessun operaio. A marzo, la struttura adoperata al sollevamento di un tombino metallico ha ceduto, cadendo sul piede di un operaio a cui è stato amputato un dito. A febbraio un altro addetto è rimasto ustionato, dopo essere stato investito da un getto di acqua bollente.
Quelli provenienti dall’ex Ilva di Taranto, oggi in mano al colosso siderurgico ArcelorMittal, sono numeri preoccupanti. Non si tratta però di un caso isolato, quanto piuttosto della punta di un iceberg. Come sottolinea l’osservatorio statistico dei consulenti del lavoro, che ha elaborato gli open data dell’Inail relativi al 2018, 641mila lavoratori sono stati vittima di un incidente in Italia durante l’anno passato. Nell’84,6% dei casi gli incidenti si sono verificati durante l’attività lavorativa, mentre nel 15,4% lungo il tragitto di ritorno verso casa. I morti sono stati 1.133, di cui 786 avvenuti durante l’attività lavorativa. Si tratta di un aumento sostanziale rispetto al 2017, pari al 10,1%. Anche le denunce di infortuni sono aumentate: 5.828 dossier in più, per un incremento di quasi l’1% rispetto all’anno prima. I primi mesi del 2019 sembrano confermare il trend del 2018. Secondo le elaborazioni di Wired, nei primi 59 giorni dell’anno si sono contati già 82 morti sul lavoro in Italia e 86mila incidenti. Solo lo scorso 24 aprile, invece, sono state ben quattro le morti bianche registrate.
“In Italia si continua a morire come si moriva 50 anni fa”, ha denunciato Maurizio Landini, segretario generale della Cgil. “Come 50 anni fa evidentemente il diritto alla salute sui luoghi di lavoro non è considerato elemento indispensabile di tutta la fase produttiva”. I numeri degli ultimi mesi offrono la fotografia di un Paese dove non solo i livelli della sicurezza sul lavoro non migliorano, ma sembrano addirittura peggiorare. Questo è anche e soprattutto conseguenza di una normativa insufficiente. Nel 2008 è stato introdotto il testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro che, tra le altre cose, rafforza il contrasto al lavoro nero prevedendo importanti sanzioni per lo svolgimento di attività lavorativa in mancanza dei presidi previsti, anche se un rapporto del Cnel ha sottolineato come il tasso di questo tipo di irregolarità nelle aziende sia aumentato di oltre il 3% nel 2018. Se gli interventi propositivi sul tema erano già di per sé insufficienti in passato, l’attuale governo sembra aver scelto di tralasciare ulteriormente la questione, in nome degli interessi elettorali.
A inizio aprile il ministro del Lavoro Luigi Di Maio ha annunciato un taglio fino al 30% delle imposte sul lavoro pagate dagli imprenditori, finanziato con una sforbiciata di circa mezzo miliardo alle risorse che servono a incentivare gli imprenditori a migliorare la sicurezza sul posto di lavoro. La Cassazione ha sottolineato come la nuova legge ridurrà le possibilità per i lavoratori di ottenere rimborsi in caso di infortunio. Come spiega il Post, “Il taglio di cui parla il leader del Movimento 5 Stelle riguarda i premi Inail, un’imposta pagata in parte dal datore di lavoro e in parte dal lavoratore che serve a finanziare l’assicurazione per malattia professionale dei lavoratori e i rimborsi in caso di infortunio. La novità principale della revisione è il taglio dell’importo che dovrà essere pagato dagli imprenditori”. Dunque, mentre oltre mille persone sono morte sul lavoro nel 2018, il governo interviene riducendo le già scarse tutele a disposizione dei lavoratori dipendenti. E proteggendo quei datori di lavoro spesso responsabili diretti degli incidenti nelle loro aziende, con i loro scarsi investimenti in sicurezza.
Quello della sicurezza sul lavoro e delle morti bianche è un problema italiano che affonda le sue radici in una normativa volutamente deficitaria. Se c’è da trovare un simbolo del problema, però, questo è probabilmente lo stabilimento dell’ex Ilva di Taranto. Gli incidenti delle ultime settimane, che in alcuni casi non hanno avuto conseguenze sulle persone e in altri hanno causato feriti, raccontano solo una piccola parte della tragedia: lo stabilimento è infatti la rappresentazione plastica dell’assurda dicotomia – purtroppo tipicamente italiana – fra diritto alla salute e diritto al lavoro. Taranto è oggi la capitale italiana delle vittime del lavoro, tanto di quelle degli incidenti diretti, quanto delle morti indirette, causate cioè dalle esalazioni tossiche dell’impianto siderurgico in mano ad ArcelorMittal. Così, se dal 2012 al 2018 sono morti 7 operai impiegati nello stabilimento, – l’ultimo è stato Angelo Fuggiano, dipendente 28enne di una ditta appaltatrice dell’ex Ilva, colpito nel maggio dello scorso anno da un pesante cavo in acciaio – tra il 2004 e il 2010 sono morte 11.550 persone nelle zone limitrofe alla fabbrica, la metà per malattie cardiovascolari o respiratorie. Il rapporto I tumori in provincia di Taranto del 2017 sottolinea invece che dal 2006 al 2012 nel territorio tarantino sono stati registrati 21.313 nuovi casi di cancro. Questi numeri riguardano la popolazione locale nel suo complesso, ma l’incidenza aumenta ovviamente tra i lavoratori dello stabilimento, quotidianamente a stretto contatto con le esalazioni tossiche e spesso residenti nei dintorni della fabbrica. “Tra i lavoratori impiegati nello stabilimento ex Ilva è stato registrato un aumento del 500% di casi di cancro rispetto alla media della popolazione generale della città non impiegata nello stabilimento”, sottolinea Mario Pierro sul Manifesto.
Come avvenuto a livello nazionale, dove il governo ha ridotto le già deficitarie norme sulla sicurezza del lavoro, anche nel caso dell’ex Ilva si può parlare di promesse tradite. Soprattutto da parte del M5S, che per anni ha assicurato la chiusura dello stabilimento e la sua riconversione, tanto da ottenere quasi il 50% dei consensi nel capoluogo alle elezioni del 4 marzo 2018. Invece, nel settembre scorso, Di Maio ha firmato l’accordo con i nuovi proprietari, . Tutto rimane come prima, mentre in città si continua a morire. Nel corso degli ultimi anni le scuole del quartiere Tamburi sono state chiuse più volte durante i giorni particolarmente ventosi per l’alta concentrazione di polveri sottili nell’aria, mentre l’associazione Peacelink ha denunciato che le emissioni inquinanti sarebbero aumentate con la nuova proprietà, nonostante le promesse di Di Maio di ridurle del 20%. Il peggioramento delle emissioni è stato confermato anche da Arpa Puglia e Ispra, mentre nelle ultime settimane si sono moltiplicate le segnalazioni per le fuoriuscite di fumo nero dall’altoforno 4 dello stabilimento.
Le istituzioni ignorano l’emergenza e si fanno vedere solo durante la campagna elettorale, mentre la questione della sicurezza sul lavoro e ambientale, tanto a Taranto quanto nel resto d’Italia, continua a essere sottovalutata. Non stupisce che l’Italia superi la media europea di morti sul lavoro, a causa di un sistema produttivo che separa i concetti di lavoro e salute. Questi due elementi dovrebbero invece essere considerati due facce indivisibili della stessa medaglia. L’attuale precarizzazione del lavoro è un elemento chiave per spiegare questa tragedia nazionale, con la disponibilità da parte di migliaia di persone ad accettare turni massacranti e a sacrificare la propria sicurezza pur di non restare disoccupate. I lavoratori rinunciano, o sono spinti a farlo, ai loro diritti e alle loro tutele pur di mantenere o assicurarsi un posto di lavoro. Le aziende, soprattutto quelle più piccole, cercano di risparmiare il più possibile sui costi del lavoro per poter sopravvivere in un contesto di competizione senza regole. La salute dei lavoratori e la loro sicurezza sono diventate le prime voci di bilancio da sacrificare in nome di una maggiore produttività.
Le morti bianche non sono un soltanto dramma italiano, ma un’emergenza globale. Aumentare i controlli, predisporre nuove normative sulla sicurezza forse non è sufficiente per eliminare il problema, ma è un primo passaggio necessario. Invece la politica interviene sempre meno sul tema, finendo per agevolare solo chi vuole sacrificare la sicurezza in nome del profitto. Nove anni fa, un segnale preoccupante sull’opinione dei politici sulla salute dei lavoratori erano state le dichiarazioni dell’ex ministro Giulio Tremonti, secondo cui “Dobbiamo rinunciare a una quantità di regole inutili. Robe come la 626 [l’allora decreto sulla sicurezza nei luoghi di lavoro] sono un lusso che non possiamo permetterci”. Oggi è il governo giallo-verde a sacrificare la salute e la vita dei lavoratori per il solo interesse economico.