Per parlare di quanto successo negli ultimi dieci giorni a Moria è necessario ripulire il discorso da certi equivoci in cui si rischia di incappare a causa delle disonestà lessicali alle quali la politica ci ha abituati. Quando si discute di immigrazione, il burocratese è ormai l’unico strumento per salvarci dalla riprovazione che ci meritiamo. Prima dell’8 ottobre 2015 Moria era un villaggio dell’isola greca di Lesbo, situato vicino alla città capoluogo di Mitilene. Da quel giorno, in mezzo a quella che è ormai passata agli annali come “emergenza migratoria”, Moria diventa l’hotspot designato dal governo greco per “l’accoglienza e l’identificazione” dei migranti.
Lesbo è separata dalla Turchia da un braccio di mare di appena dieci chilometri, ed è proprio dalla cosiddetta rotta balcanica (Turchia-Grecia-Balcani) che arriva la gran parte dei migranti “accolti” in Grecia, ed è lì che sbarcano circa metà dei migranti che poi si fermano nella penisola ellenica. Si tratta soprattutto di siriani, afghani, iracheni, pakistani. Il 40% sono bambini. Il numero di quelli che avrebbero diritto all’asilo è impossibile da calcolare con esattezza a causa dell’inefficienza del sistema di “accoglienza” e “identificazione” adottato dal governo greco tra Lesbo, Kara Tepe, Skala Sikamineas e Molyvos/Oxy, un’inefficienza certificata da tutte le Ong e istituzioni internazionali (Unhcr in testa).
Tornando alle disonestà lessicali. Il “centro di accoglienze e identificazione” di Moria è stato costruito per “accogliere” circa 3mila migranti. All’8 settembre, giorno dell’incendio che ha distrutto il campo, a Moria vivevano intorno alle 20mila persone. Ci si chiede allora quanta accoglienza e identificazione si possano fare in tali condizioni di sovraffollamento. Questa parola, sovraffollamento, è importante per capire la storia di Moria dalla costruzione alla distruzione. Nel dibattito pubblico italiano (e non solo) è associata spesso a un altro luogo in cui le violazioni dei diritti umani e delle libertà individuali sono quotidianità note e ignorate da tutti: il carcere. “Benvenuti in prigione” c’è – c’era? – scritto su un muro di cemento all’ingresso del campo di Moria. Ma c’è prigione e prigione. Luca Fontana, coordinatore a Lesbo di Medici senza Frontiere, ha detto di “non aver mai visto il livello di sofferenza che ved[e] qui ogni giorno”. Jean Ziegler, consigliere del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, ha visto a Lesbo “la ricostruzione di un campo di concentramento sul suolo europeo”. “Freedom of movement” si legge (si leggeva?) all’esterno di una delle centinaia di baracche tutte uguali che fanno il corpo della prigione di Moria, un “Arbeit macht frei” (“Il lavoro rende liberi”) che spero sia sopravvissuto alle fiamme, piantato nel suolo a ricordarci quello che è stato anche quando magari tutto questo non sarà più.
Il burocratese delle conferenze stampa, delle dichiarazioni ai media, dei documenti ufficiali è il doppio guanciale sul quale facciamo riposare la nostra coscienza sporca, il ventaglio che faticosamente agitiamo per allontanare dalla nostra mente la consapevolezza che il “centro di accoglienza e identificazione” di Moria (come tutte le strutture analoghe sparse per il mondo) sia una prigione a cielo aperto, come da descrizione di Human Rights Watch.
Ma come sappiamo le parole sono importanti. Attorno alla struttura originaria del campo di Moria, quella pensata per contenere – parola più adatta di “accogliere” a descrivere lo scopo del campo – 3mila persone, è sorta una baraccopoli in cui migliaia di persone riempiono le loro giornate esclusivamente grazie all’istinto di sopravvivenza, con lo sforzo di arrivare al giorno dopo per ricominciare da capo un altro giro di angoscia esistenziale e sollievo momentaneo. A questa baraccopoli è stato dato il nome di “giungla di Moria” e, come in tutte le giungle, anche in questa l’unico diritto conosciuto è quello alla sopraffazione che il più forte esercita sul più debole. Stupri, pestaggi, accoltellamenti, prostituzione, tossicodipendenza, omicidi e suicidi sono diretta conseguenza di un luogo che costringe ciascun essere umano a ridursi al grado zero di sé, l’unico che può assicurargli un qualche tipo di sopravvivenza. In un luogo in cui c’è un bagno ogni 70 persone, una doccia (senza sapone) ogni 500 e una casa ogni 17 nuclei familiari, anche l’espletamento delle funzioni corporali, la cura quotidiana dell’igiene personale e il mantenimento delle relazioni sociali sono il premio che giunge alla fine di una battaglia in cui tutti gli altri sono carnefici. Quelli che rifiutano questo ritorno allo stato di natura, questa guerra di tutti contro tutti, vivono senza dormire: per la paura e perché bisogna stare sempre pronti a difendersi e perché l’occasione buona per scappare potrebbe arrivare in qualsiasi momento. Nessuna mente, nessuno spirito può resistere a lungo in queste condizioni: ancora Luca Fontana di Msf racconta di bambini di 10 anni che tentano il suicidio.
Tutto intorno a Moria c’erano recinzioni e filo spinato, destinato a strapparsi da un momento all’altro: è successo l’8 settembre: un gigantesco incendio ha praticamente distrutto il campo, lasciando più di 12mila persone senza neanche quel tetto malandato e pericolante che avevano la testa, costringendole a dormire lungo la strada che passa accanto ai resti carbonizzati di Moria. La polizia greca ha arrestato cinque persone con l’accusa d’incendio doloso: i sospettati avrebbero appiccato il fuoco per protestare contro le ulteriori misure di contenimento e limitazioni della mobilità loro imposte a causa dell’emergenza Covid-19.
La risposta dell’Unione europea non si è fatta attendere, come sempre piena di quelle buone intenzioni con le quali abbiamo lastricato la strada sulla quale ogni giorno camminano (e muoiono) centinaia di migranti. Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione, la presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, ha parlato di umanità e solidarietà, di un futuro prossimo in cui le istituzioni europee gestiranno i flussi migratori insieme agli Stati e di un futuro prossimo in cui il famigerato trattato di Dublino sarà modificato e superato. Le proposte della Commissione saranno presentate il 23 settembre e il 24 si terrà la riunione del Consiglio Europeo, la riunione dei capi di Governo e di Stato. In che cosa consista questa proposta di riforma di Von der Leyen a oggi non è dato sapere, ma ci sono degli indizi nelle parole di Ylva Johansson: davanti al Parlamento, la commissaria agli affari interni ha ribadito la necessità di un “sistema di asilo comune europeo”, un obbligo che costringa gli Stati membri a superare egoismi e meschinità, convenienze politiche e opportunità elettorali. Il discorso di Johansson ha trovato un ampio consenso nell’assemblea continentale: Popolari, Socialisti, Liberali, Verdi, Sinistra si sono mostrati uniti nella inevitabile condanna del “campo” come luogo e metodo di gestione dei flussi migratori, si sono detti convinti della ormai manifesta necessità di superare il trattato di Dublino.
A smorzare l’entusiasmo ci sono però i precedenti: in passato il Consiglio dell’Unione europea ha sempre respinto i tentativi di modifica del trattato avanzati da Commissione e Parlamento, rafforzando ogni volta la convinzione che una perenne “emergenza migranti” sia un pezzo troppo importante delle agende politiche di alcuni partiti e di certi governi, un tema troppo utile alla propaganda di nazionalisti e sovranisti di tutta Europa, per essere trattato come un’evidente questione continentale che può essere superata solo con un’ovvia soluzione collettiva: il rafforzamento (quando non proprio la creazione) di programmi e istituzioni sovranazionali tramite i quali dividere l’onere della prima accoglienza e condividere quello dell’integrazione.
Purtroppo, la pochezza delle proposte politiche abbozzate dagli Stati in risposta all’incendio di Moria lascia intuire, e temere, che alla fine tutto resti come prima. Dopo la distruzione del campo, 10 Paesi membri si sono impegnati ad accogliere soltanto 400 minori non accompagnati, la Germania da sola ne accoglierà un centinaio insieme a 1500 adulti. In Grecia ne resteranno circa 11mila, ai quali il governo ha già proposto il ricollocamento in un altro campo, quello di Kara Tepe, distante appena 2.5 chilometri da Mitilene: molti sopravvissuti all’incendio di Moria hanno già fatto sapere alle autorità locali che preferiscono una vita di notti sotto le stelle che un altro minuto nell’ennesimo “centro di accoglienza e identificazione”, solo 1500 migranti hanno accettato il trasferimento. È questo ciò che si intende per solidarietà tra gli Stati europei, questi fiacchi atti di solidarietà nei quali ci siamo ridotti a sperare ogni volta che a una nave con a bordo migranti salvati da un naufragio viene negato un porto sicuro in cui sbarcare, ogni volta che un “centro d’accoglienza” brucia? Questi sono automatismi inceppati ancora prima di entrare in funzione, come quelli dell’accordo di Malta, grottesca parodia di quella che dovrebbe essere una politica migratoria europea. Troppo a lungo i migranti arrivati in Europa hanno dovuto fare affidamento sulla tolleranza, interessata o forzata, di alcuni Stati. Troppe volte i tentativi di cambiamento si sono fermati davanti alle minacce di ducetti e reucci dell’Est forti solo delle astruse regole che governano le istituzioni continentali – in particolare quella dell’unanimità, conditio sine qua non delle “conclusioni” del Consiglio Europeo. Troppo spesso gli Stati membri hanno impedito la riforma, gelosi di una sovranità nazionale sulle politiche migratorie che ha portato solo empi accordi con le inesistenti guardie costiere di inesistenti Stati africani e ricchi bonifici a favore di autocrati con la passione per la dittatura e il sogno inconfessabile del genocidio. Così come tutti sanno dove sta il problema, tutti sanno dove sta la soluzione: il problema è l’esistenza del trattato di Dublino, la soluzione è il suo superamento. Nonostante sia stato modificato nel 2003 e nel 2013, la sostanza del trattato resta quel criterio del primo ingresso stabilito nel 1990, quando a firmare a nome dell’Italia c’era il governo Andreotti VI.
I requisiti per entrare nell’Unione europea sono fondamentalmente tre: bisogna essere uno Stato europeo, bisogna rispettare i principi di libertà, di democrazia, di rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché dello Stato di diritto, e, infine, l’economia del Paese richiedente deve rispettare i cosiddetti criteri di Copenaghen. È arrivato il momento di aggiungere un quarto requisito: la partecipazione obbligatoria a una politica migratoria dell’Unione fondata anch’essa sul rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sulla solidarietà di cui troppo spesso si è parlato nascondendosi dietro il filo spinato e le recinzioni, canzonando gli immaginifici muri altrui tra Messico e Stati Uniti e dimenticando le sempre più numerose e molto più vicine barriere che separano l’Europa. Questo quarto requisito potremmo chiamarlo requisito di Moria, e chi non vi si adegua dovrebbe accomodarsi fuori dalla porta blu con le dodici stelle dorate sopra.