L’ex-sindaca di Milano Letizia Maria Brichetto Arnaboldi vedova Moratti, nome del salotto buono oltre che top manager e politica di lungo corso, è entrata al Pirellone come sostituta dell’ex-assessore regionale al Welfare Giulio Gallera (Forza Italia), che ha lasciato il posto dopo i reiterati errori commessi nella gestione dell’epidemia di Covid-19. Moratti, della stessa area politica di Gallera, si inserisce nella giunta anche come vice-governatrice della Lombardia, in lizza per succedere al presidente Attilio Fontana (Lega Nord) alle prossime elezioni Regionali. Se la posta non fosse così alta, Letizia Moratti avrebbe probabilmente declinato l’invito come già era successo con Silvio Berlusconi negli ultimi dieci anni. Dietro il suo ritorno in campo in questa crisi si intravede una nuova, faraonica, campagna elettorale nel 2023, come quelle per Palazzo Marino nel 2006 e nel 2011, finanziate dal marito e petroliere Gianmarco Moratti con le esorbitanti cifre di più di 6 milioni e poi di 11,6 milioni di euro. Da manager prestata alla politica, Moratti ha trascorso anni a ridimensionare gli organici e disporre spending review, anche nel settore dell’istruzione; ciononostante con i soldi pubblici non ha mai badato a spese per i compensi della sua pletora di collaboratori. Questa prassi dei due pesi e delle due misure le è costata la condanna per danno erariale della Corte dei conti, in primo grado nel 2009 e anche in secondo nel 2016. Una condanna a risarcire con 591mila euro il Comune di Milano, confermata in via definitiva dalle Sezioni Unite civili della Cassazione nel dicembre 2018.
I giudici contabili motivano la sentenza del 2016 con la “grave colpevolezza” di Letizia Moratti e della sua giunta, “ravvisabile in uno scriteriato agire, improntato ad assoluto disinteresse dell’interesse pubblico alla legalità e alla economicità dell’espletamento della funzione di indirizzo politico-amministrativo spettante all’organo di vertice comunale”. Moratti in passato, tra le altre cose, è stata presidente della Rai, poi ministra dell’Istruzione e autrice della contestata riforma – poi consolidata da Gelmini – che nel 2003 ha orientato anche la scuola italiana verso il modello aziendale del conseguimento degli utili e della selezione degli studenti a seconda delle loro possibilità, con tagli agli investimenti alle strutture e ai fondi per i collaboratori per migliaia di unità e la modifica del concetto di obbligo scolastico come “diritto-dovere”. E a settantuno anni, nonostante i recenti trascorsi giudiziari, viene reintegrata in gran spolvero come amministratrice di punta della regione più popolosa, produttiva e ricca d’Italia, la sua Lombardia – addirittura all’assessorato al momento più sensibile che controlla la sanità regionale. A Moratti è stato infatti assegnato il ruolo di risanarla, traghettando gli oltre 10 milioni di cittadini lombardi fuori dal tunnel del Covid-19. E ci si chiede quanto questa scelta sia opportuna, al di là del curriculum di Moratti, in mesi così delicati in cui, dopo il disastroso operato di Gallera, non dovrebbero più essere ammessi errori. Dopo i ritardi dei tamponi e dei test sierologici della prima ondata, inconcepibili per i mezzi sanitari a disposizione nella regione, durante la seconda ondata gli stessi ritardi hanno contraddistinto la campagna dei vaccini antinfluenzali, rimasta bloccata in autunno a causa di bandi regionali male-organizzati e si ripetono ancora adesso con la somministrazione dei vaccini contro il Covid-19. Considerato anche che il governatore Fontana è al momento indagato per la fornitura di camici bianchi alla Regione Lombardia (su donazione o con business, lo appurerà la procura) dall’azienda del cognato Andrea Dini, il rimpasto in giunta con un’ex-amministratrice condannata in via definitiva dall’organo di controllo sulla legittimità degli atti nelle pubbliche amministrazioni non sembra segnare un cambio di passo per la Lombardia.
L’affaire delle consulenze d’oro risale all’ingresso di Letizia Moratti a Palazzo Marino, con l’assunzione tra il 2006 e il 2007 di una sessantina di persone di sua fiducia, 11 delle quali, secondo quanto ha ricostruito la Corte dei conti, con incarichi a soggetti esterni non laureati – senza cioè i requisiti richiesti, ovvero illegittimi – per un totale di quasi un 1 milione e 900mila euro di retribuzioni. Oltre a questo, sono stati rilevati come incongrui i doppi stipendi degli allora neo-direttore generale e neo-capo di gabinetto, nonché l’emolumento annuo (217mila euro) di una neo-dirigente e l’assunzione, indebita per la Corte dei conti, di alcuni addetti dell’ufficio stampa comunale (uno staff arrivato a ben 20 dipendenti) per un altro milione di euro. Su queste spese la magistratura contabile ha chiesto indietro più di 1 milione e 82mila euro a 22 amministratori coimputati tra cui Letizia Moratti; l’allora vicesindaco Riccardo De Corato e vari assessori e dirigenti della giunta. Moratti, in particolare, è stata sanzionata per sei “illeciti conferimenti di incarichi dirigenziali” e altre sei “non consentite nomine di addetti all’ufficio stampa comunale”. La concomitante inchiesta per abuso d’ufficio della magistratura ordinaria su tali incarichi fu archiviata nel 2010 per l’assenza, si è valutato, di comportamenti penalmente rilevanti seppur, scrivono i giudici, “censurabili sotto diversi profili”: lo spoil-system nell’avvicendamento tra la vecchia giunta Albertini e la nuova di Moratti non sarebbe stato mirato ad avvantaggiare economicamente i neo-entrati, “lo scopo prevalente era creare un rapporto fiduciario tra la direzione politica e il dirigente amministrativo”. Resta fermo, tuttavia, anche per la procura di Milano, l’illecito amministrativo nella violazione dell’articolo 110 del Testo unico degli Enti locali, che per i contratti ai dirigenti esterni fissa un tetto del 5% sul totale dell’organico. Con Moratti a Palazzo Marino, invece, i consulenti esterni sfioravano il 25% del totale.
Un’assessora con questi trascorsi, in altri Paesi sarebbe semplicemente “unfit”, inadatta a governare, tanto più se chiamata in sostituzione di Gallera. Invece, in Italia, la sua missione è ridare lustro e credibilità al centrodestra lombardo. Un mandato del genere richiederebbe tra l’altro anche una certa attitudine alla ricucitura dei rapporti e alla conciliazione tra le parti: dote per la quale Moratti, anche all’interno della sua stessa area politica, finora non ha brillato, arrivando a uscire nel 2012 dal Pdl (oggi Forza Italia) dopo vari dissidi e a mostrare interesse per Futuro e Libertà (Fli) di Gianfranco Fini. I repulisti hanno sempre contraddistinto il suo operato: negli anni Novanta licenziò in tronco anche l’allora direttore generale Raffaele Minicucci; al Comune di Milano decine di dirigenti sono stati licenziati o spinti al prepensionamento, per far posto alle schiere di super-consulenti; e pur con l’esclusione di condotte di mobbing, anche la Corte dei conti, nella condanna parziale di primo grado del 2009, ha precisato come “una tale forma di indiscriminato ricorso al conferimento intuitu personae di incarichi a soggetti non appartenenti ai ruoli dirigenziali dell’ente locale metta in discussione l’identità del corpo dirigenziale interno, mortificando le professionalità in esso presenti”. Da sindaca Moratti fu anche richiamata in Consiglio comunale dal suo stesso partito (Pdl) per aver ignorato un centinaio di interrogazioni del consigliere dell’opposizione Pierfrancesco Majorino e per il suo assenteismo nell’assemblea, e nel 2008 fece rumore per il “siluramento” di Vittorio Sgarbi dall’assessorato alla Cultura.
Nella corsa per il secondo mandato spiccò poi per la diffamazione nel 2011 di Giuliano Pisapia, durante l’unico confronto diretto contro l’avversario di centrosinistra: Moratti lo tacciò infatti del “furto di un furgone”, reato a suo dire poi “amnistiato”. In realtà, Pisapia – che batté poi Letizia Moratti – nonostante una campagna elettorale molto meno dispendiosa, di circa 1 milione e 600mila euro – rese pubblica la sentenza di molti anni addietro sulla sua assoluzione in secondo grado per “non aver commesso il fatto”. Passata quindi all’opposizione, l’ex-sindaca dichiarò che sarebbe rimasta “cinque anni in Consiglio comunale per spirito di servizio alla città e ai milanesi”, ma già nel gennaio 2012 rassegnò le dimissioni per dedicarsi ancora di più – come scrisse nella lettera d’addio a Palazzo Marino – “a un’intensa attività nel sociale”, alludendo al suo noto attivismo – anche economico, con 286 milioni di euro di sovvenzioni – nella controversa comunità di San Patrignano. Oltre alla beneficenza, ai progetti ambientali e per l’Africa curati in questi anni, lasciata la politica Moratti è tornata in realtà anche a ricoprire ruoli chiave di management nel mondo dell’imprenditoria e della finanza: dal 2016 e fino al 2020 in veste di presidente del consiglio di gestione di Ubi Banca e tra il 2019 e il 2020 anche a capo del consiglio d’amministrazione dello stesso gruppo. Dal 2018, inoltre, Moratti siede nel cda della multinazionale del settore chimico e farmaceutico Bracco, proprietà della sua grande alleata nella corsa per l’assegnazione di Expo 2015 a Milano, nonché colonna di Assolombarda, Diana Bracco. Proprio l’incarico di Moratti nel gruppo Bracco – che in Lombardia, con circa 3600 dipendenti e 1,5 miliardi di euro di fatturato, conta anche 24 ambulatori privati del Centro diagnostico italiano (Cdi), alcuni dei quali convenzionati con il Sistema sanitario nazionale – è un altro neo che, senza un passo indietro, potrebbe porre Moratti in conflitto di interessi come assessora al Welfare.
Oltre a un curriculum di esperienze manageriali e politiche di rilievo, l’integrità e la trasparenza dovrebbero essere prerequisiti per la nomina ai vertici di un’amministrazione pubblica, tanto più quando, come stavolta, si deve ristrutturare la sanità così compromessa di una regione. Eppure Letizia Moratti non li ha: la scarsa trasparenza nella selezione dei collaboratori è uno dei rilievi a lei mossi dalla magistratura sia ordinaria che contabile riguardo ai suoi comportamenti “gravi e colposi”. Ritenersi e mostrarsi come uno di quei volti dell’alta società della cosiddetta “Milano con il cuore in mano”, parte dell’élite di imprenditori ricordati in un libro dalla stessa Camera di Commercio cittadina, che prima fa i miliardi e poi tanta beneficenza, non basta. Moratti non è l’assessore giusto per invertire rotta dalle storture della gestione di Gallera, Fontana e in generale di un sistema di potere basato sulla vasta commistione degli interessi tra pubblico e privato, del quale la stessa Moratti per storia personale è una delle personalità più emblematiche. Più che un rinnovamento della giunta, allora, il suo arrivo appare come una sorta di restaurazione.