Nell’ultimo anno, la lotta alla violenza di genere in Europa ha subìto una preoccupante battuta d’arresto. Nonostante in Italia questo rallentamento sia passato più in sordina rispetto a Paesi come Turchia e Polonia – la prima ritirata dalla Convenzione di Istanbul, la seconda intenzionata a farlo – nemmeno nel nostro Paese sono mancate scelte od omissioni decisamente poco in linea con i princìpi sanciti nell’accordo.
Sembra che il Governo fatichi a comprendere che le disuguaglianze di genere possono sfociare in esiti drammatici, che contrastarle rappresenta una priorità, e che per farlo è necessario investirvi tempo e risorse. In questo contesto poco incoraggiante, però, lo scorso gennaio l’Italia sembra aver raggiunto un’importante consapevolezza, diventando il primo Stato europeo a ratificare la Convenzione sull’eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro approvata dall’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) nel 2019. Almeno in questo caso, le Istituzioni hanno capito che la questione non può più essere rimandata.
Secondo l’ultimo rapporto Istat, quasi un milione e mezzo di donne fra i 15 e i 65 anni ha subìto molestie fisiche o ricatti sessuali sul luogo di lavoro. Gli episodi hanno coinvolto, con cadenza regolare, sia le candidate in fase di assunzione sia le lavoratrici dipendenti: per le prime la posta in gioco era l’ottenimento della posizione a cui aspiravano, per le seconde il mantenimento del posto di lavoro o un eventuale avanzamento di carriera. Il fatto che ricatti e molestie verbali vengano denunciate ancora meno di quelle fisiche – oltre l’80% delle vittime sceglie di rimanere in silenzio – rende la prevalenza del fenomeno gravemente sottostimata. Anche quando non manca la consapevolezza rispetto alla gravità dell’episodio, infatti, la possibilità di denunciare viene spesso esclusa, principalmente a causa della mancanza di fiducia riposta dalle lavoratrici nel sistema della giustizia. Nella maggior parte dei casi, l’unica via di uscita per le vittime rimane lasciare il lavoro o rinunciare alla carriera, pregiudicando così la propria indipendenza economica.
In un ambiente di lavoro oppressivo, la violenza psicologica funge spesso da sfondo per il successivo sviluppo di abusi fisici o sessuali. La continuità fra le varie forme di soprusi che possono svilupparsi nel contesto lavorativo è stata evidenziata dalla stessa ILO, che nel 2016 ha definito molestie e violenza come “Parte di un continuum di comportamenti e pratiche inaccettabili che includono aspetti fisici, psicologici e sessuali”: porre la vittima in una condizione di soggezione, annientarne l’autostima e manipolarne i sentimenti per poi abusarne rappresenta, d’altra parte, un modus operandi non certo nuovo nell’ambito della violenza di genere, anche al di fuori del mondo del lavoro.
Nei casi di violenza psicologica più estrema si parla di mobbing (dall’inglese to mob, assalire), termine riferito a un insieme di condotte aggressive o discriminatorie messe in atto da superiori (mobbing verticale) o colleghi (mobbing orizzontale) ai danni di una persona a cui si è legati da un rapporto di lavoro, costringendola a una subordinazione psicologica così insostenibile da indurla, in molti casi, a licenziarsi. Può tradursi in critiche o accuse immotivate, provvedimenti disciplinari ingiustificati, rifiuto di concedere permessi o esclusione dalle riunioni. Quando lo stesso fenomeno si verifica senza soluzione di continuità, si parla di straining (da strain, mettere sotto pressione). Lo straining è una forma attenuata di mobbing, più subdula e ancora meno riconoscibile perché gli abusi sporadici vengono più facilmente interpretati come “errori” isolati piuttosto che come il sintomo di un meccanismo perverso. Ciò aumenta la probabilità che chi li subisce scelga la strada della sopportazione piuttosto che la denuncia, contribuisce a rafforzare la disparità di potere fra le persone coinvolte e annienta progressivamente la capacità di autodeterminazione delle vittime.
Le conseguenze dell’abuso psicologico sul luogo di lavoro possono essere così debilitanti che, nel 2000, l’INAIL ha riconosciuto il mobbing come malattia professionale. A livello individuale, lo stress scaturito da pressioni e umiliazioni può sfociare in disturbi di natura psichica – come ansia, depressione, alterazioni del sonno, disturbo post-traumatico da stress o, nei casi più gravi, pensieri suicidi – o fisica, quali mal di testa, affaticamento cronico o disturbi cardio-vascolari. Meno intuitivo, ma altrettanto evidente, è l’impatto del malessere delle vittime sulla produttività aziendale: come evidenziato dall’ILO, i danni per l’azienda riguardano assenteismo e un maggior ricambio del personale (con il conseguente aumento delle spese di reclutamento e formazione), ma anche il danneggiamento della propria reputazione, calo della motivazione dei dipendenti e un generale abbassamento delle prestazioni.
Nel contesto lavorativo non è escluso che gli uomini possano subire umiliazioni o ingiustizie, né che le donne possano adottare condotte violente o persecutorie nei confronti dei sottoposti. I dati, però, parlano chiaro: l’autore di violenza è un uomo e la vittima una donna in quasi la totalità delle molestie fisiche o dei ricatti sessuali, e dinamiche simili si ripetono anche nei casi di mobbing o violenza psicologica. Il fatto stesso di essere donne rappresenta una variabile determinante nello sviluppo delle dinamiche violente, soprattutto quando il comportamento delle vittime non rispecchia quello definito dallo stereotipo del loro genere di appartenenza. Una lavoratrice ambiziosa o assertiva viene automaticamente percepita come insubordinata, ribelle, distante dalla passività che dovrebbe caratterizzare il suo ruolo. La molestia, sia essa fisica, verbale o psicologica, diventa così uno strumento utile a datori di lavoro o colleghi per ricordare alle lavoratrici che non è quello il comportamento che la società ha previsto per loro.
Nel 2018, uno studio della National Academy of Sciences ha dimostrato che le molestie sessuali sul luogo di lavoro sono più frequenti negli ambienti a prevalenza maschile dominati da una cultura “machista”: la radice del problema, quindi, non risiede nella difficoltà degli uomini a contenere la propria libido, bensì in un maschilismo latente dal quale possono scaturire abusi e violenze di natura apparentemente diversa. In questi contesti, infatti, l’oppressione verbale e psicologica delle donne rappresenta lo status quo e anche eventuali molestie fisiche e sessuali vengono più facilmente giustificate, dimenticate, o interpretate come banali incidenti di percorso. Secondo gli esperti, questi atteggiamenti nascondono il desiderio degli uomini di proteggere il proprio sex-role spillover, ovvero quel bagaglio di qualità tipicamente mascoline, come forza, aggressività o competitività, integrate nel contesto lavorativo e mantenute in vita grazie alla svalutazione altrui. Ribadire a sottoposte o colleghe la propria superiorità di genere, soprattutto se questa è assente sul piano gerarchico (come nel caso del mobbing orizzontale), risulta così funzionale a mantenere intatta la propria stereotipica identità e il privilegio che la accompagna.
Contribuisce al mantenimento di queste dinamiche anche l’idea, ancora profondamente radicata, che nella vita di una lavoratrice maternità e carriera non possano coesistere. Questa convinzione emerge non solo nella scarsità di politiche a tutela della maternità, ma anche nelle caratteristiche demografiche delle lavoratrici più a rischio di violenza. Una ricerca condotta dall’Università di Pavia ha dimostrato che la fascia di età più colpita dalla cosiddetta “sindrome da mobbing” è quella compresa fra i 34 e i 45 anni, periodo in cui è più probabile che le donne rimangano incinte o usufruiscano di part-time o agevolazioni contrattuali per potersi occupare della famiglia. Nella maggior parte dei casi, gli episodi di mobbing hanno inizio una volta che la lavoratrice è rientrata dalla maternità, quando non è raro venga isolata, dequalificata o umiliata a causa dei presunti disagi derivati dalla sua assenza. Se vuoi essere madre e perseguire allo stesso tempo i tuoi obiettivi professionali, insomma, devi essere pronta a pagarne il prezzo.
È evidente che gli abusi quotidianamente perpetrati ai danni delle lavoratrici si inseriscono in un contesto più ampio, fatto di stereotipi e squilibri di potere intrinsecamente radicati in ogni sovrastruttura della nostra società e che possono manifestarsi in forme diverse anche all’interno del mondo del lavoro. Non è possibile scindere, per esempio, la violenza di genere da concetti come il gender pay gap, la mancanza di un congedo di paternità o quel famoso fenomeno per cui, nelle gerarchie professionali, le lavoratrici si fermano sistematicamente a un passo dai ruoli apicali senza raggiungerli mai, a differenza di quanto avviene per i colleghi maschi. Sebbene possano apparire diversi, tutti questi fenomeni si fondano sul princìpio per cui, nel 2021, ambire a una carriera lavorativa è ancora uno sfizio di cui le donne potrebbero fare a meno.
La questione è complessa, ma è necessario coglierne le diverse sfaccettature per poter agire di conseguenza. La ratifica dell’ennesima Convenzione è una notizia positiva, ma è destinata a rimanere una formalità se non sarà accompagnata da provvedimenti in grado di concretizzarne i princìpi al più presto. Limitarsi a punire gli episodi di violenza senza approfondire le ragioni per cui si sono verificati significa curare il sintomo mantenendo inalterata la causa. Oltre a garantire alle vittime la tutela che meritano, quindi, è necessario ripartire dall’educazione, mettere in discussione i propri pregiudizi e smantellare una volta per tutte il modello culturale tossico e discriminatorio che ha consentito a queste dinamiche di sopravvivere fino a oggi.