Chi è poco familiare con la politica mediorientale forse non avrà mai sentito il nome Mohammed bin Salman, né tantomeno l’acronimo MbS, con cui spesso viene chiamato, per amore della sintesi, sulla maggior parte delle testate internazionali. Molto probabilmente, però, dopo la notte del 4 novembre, il principe ereditario saudita avrà quantomeno guadagnato qualche posizione nella scala di notorietà dei politici del Golfo.
Nominato principe ereditario il 21 giugno 2017, 32enne, Mohammed bin Salman è il responsabile di quella che è già stata ribattezzata da molti commentatori la “Notte dei Lunghi Coltelli” saudita (o una nuova “Mani Pulite”, per il Corriere della Sera). La manovra ha infatti visto l’incarcerazione di circa 200 individui, tra cui 11 principi della famiglia reale Saud e 38 ministri (in carica o emeriti), con il conseguente congelamento di circa 1700 conti bancari, stando alle cifre riportate dal Washington Post. Il principe avrebbe addotto come motivazione principale la lotta alla corruzione, scopo per cui è stato formato un comitato apposito poche ore prima che iniziassero gli arresti, tramite decreto reale. E in parte è vero, in Arabia Saudita è ormai pratica consolidata proteggere le iniziative economiche legate alla famiglia reale dalla competizione estera. Si stima che il 18-25% degli appalti nazionali vengano dirottati nelle mani di ufficiali governativi. Quindi, sì, la corruzione è endemica, e non ci voleva né un comunicato ufficiale, né un comitato ad hoc per capirlo.
Il problema è che sebbene questa sia la giustificazione addotta, non è la motivazione che ha spinto MbS a iniziare una delle operazioni epurative più significative nella recente storia saudita. Il principe ereditario, il cui ritratto è stato ormai tracciato in maniera più che eloquente da svariati analisti, sarebbe un uomo spregiudicato, dall’ambizione illimitata e con pochi scrupoli morali. Un esempio? In quanto Ministro della difesa – ruolo che ricopre dal 2015 – è stato il principale promotore della Guerra in Yemen, conflitto che ha molta meno copertura mediatica di quanto meriterebbe, visto che al momento rappresenta la più grande emergenza umanitaria mondiale. La lotta alla corruzione, in realtà, sarebbe l’ennesimo pretesto addotto per giustificare una scalata personale al potere, che ha portato MbS a emarginare i numerosi altri membri della famiglia reale, il clero – principale legittimazione al potere degli Al Saud – e i maggiori attori economici del Paese.
Non sembrerà più quindi così innocente la decisione di arrestare, tra i tanti, il magnate Alwaleed bin Talal, uno degli uomini più ricchi al mondo, azionista di Twitter, Apple e Citigroup, per citare alcuni esempi. O Waleed Al-Ibrahim, proprietario di MBC e di Al-Arabiya. Così come non è possibile comprendere del tutto la crisi diplomatica con il Qatar del giugno 2017, fermandosi alla motivazione ufficiale addotta dalla Casa Reale Saudita – un atteggiamento troppo indulgente nei confronti dell’Iran – e credendo che il controllo dell’emittente Al Jazeera sia stato un fattore marginale. MbS ha iniziato da tempo la sua lotta per l’egemonia del Golfo, e il pilastro fondamentale di quell’egemonia è rappresentato dal controllo dei media.
Ma c’è un altro aspetto di cui tenere conto nelle defenestrazioni dello scorso 4 novembre. Il congelamento di 1700 conti bancari significa molte più risorse per uno Stato, la cui economia – principalmente tenuta in piedi dalle rendite petrolifere – si vede ora minacciata da un calo generale dei prezzi del greggio dovuto, , tra i vari fattori, alla rivoluzione dello shale oil americano. Va detto, in realtà, che subito dopo la manovra il costo del petrolio è di nuovo aumentato in modo significativo. La Camera di Commercio di Riyadh ha però stimato che, se si riuscissero a recuperare tutti gli introiti persi per corruzione, fino a 800 miliardi di dollari andrebbero a riempire le casse dello Stato. E un Paese che sta cercando di supplire alla propria “dipendenza da petrolio”, come l’ha definita lo stesso MbS, deve saper attirare investimenti esteri. Cosa può rassicurare allora un investitore estero più di una lotta senza quartiere alla corruzione?
Peccato però che nel portare avanti questa lotta tutte le tutele tipiche di uno Stato di diritto siano state momentaneamente sospese (non che la situazione di partenza fosse spiccatamente garantista), e che l’arbitrarietà degli arresti non sia un particolare indicatore di un sistema politico sano – una variabile abbastanza importante per decidere dove investire il proprio capitale. Peraltro agli arrestati, in fermo al Ritz Carlton e in altri hotel di lusso della città, è stato chiesto di cedere fino al 70% dei propri beni in cambio della libertà, e fino a 17 tra loro hanno richiesto assistenza medica per gli abusi di cui sarebbero state vittime durante la detenzione.
C’è da dire che una campagna contro la corruzione molto simile, fatta partire lo scorso ottobre da Xi Jinping in Cina, ha effettivamente migliorato la situazione. E forse una delle conseguenze di questo repulisti saudita sarà effettivamente quello di far diminuire le pratiche economiche illecite nello Stato, almeno in parte. Ma si tratterà solo di un effetto collaterale. Il principale risultato di quanto sta avvenendo in queste settimane a Riyadh è che MbS è a tutti gli effetti diventato l’uomo più potente del golfo, togliendo di mezzo ogni potenziale rivale politico. Logica che peraltro ha guidato la decisione di permettere finalmente alle donne saudite di guidare un’automobile, o di togliere la facoltà di arresto alla polizia religiosa. Si sta cercando di contenere il potere religioso, storicamente forza politica cruciale nel Paese, coprendo il tutto con una patina di pseudo-progressismo.
Le politiche aggressive di Mohammed bin Salman non sarebbero state possibili, però, senza l’endorsement degli Stati Uniti, un alleato fondamentale. Trump ha – ovviamente – twittato la propria approvazione alle varie defenestrazioni, mentre Jared Kushner sarebbe in rapporti molto amichevoli con il principe ereditario. Insomma, le relazioni tra i due Paesi, tradizionalmente solide, sono più forti che mai. Il che non può che tradursi in una legittimazione ancora maggiore delle politiche egemoniche di MbS.
In tutto questo, chi è il buono, chi è il cattivo della vicenda? Nessuno. Citando Zack Beauchamp, corrispondente estero per Vox, “Il Governo saudita è un’istituzione fondamentalmente corrotta. Da una parte c’è un cosiddetto ‘riformatore’ [MbS], la cui idea di aiutare le donne consiste nel lasciarle finalmente guidare; […] dall’altra un gruppo di plutocrati corrotti, che il primo ha mandato in prigione [il Ritz Carlton]. Sono corrotti, anche se la corruzione è stata un pretesto. […] Poi c’è l’establishment religioso, convinto che il XIX secolo sia troppo avanti e che dovremmo tornare all’VIII. Questi sono i personaggi. E sembrano tutti abbastanza in pace con l’idea di bombardare migliaia di persone in Yemen”. Viene da chiedersi come potrà innestarsi in tutto ciò l’Islam moderato tanto promosso da Mohammed bin Salman.