Durante un’intervista al podcast Ladies Like Us, il rapper T.I. ha raccontato che ogni anno accompagna la figlia dal ginecologo per controllare se abbia avuto rapporti sessuali. La notizia è stata molto commentata dai media americani e da diverse personalità pubbliche che hanno condannato la decisione di T.I., bollandola come una pratica retrograda e irrispettosa, anche se in realtà negli Stati Uniti quella del “virginity testing” è una pratica diffusa. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani e l’Organizzazione mondiale della sanità, il virginity testing non solo non ha alcuna base scientifica, ma è anche una violazione dei diritti umani che rinforza la disuguaglianza di genere.
Comunemente si associa la cosiddetta verginità alla presenza dell’imene intatto. L’imene è una membrana molto elastica che, di solito, si trova all’apertura del canale vaginale, la cui funzione fisiologica è ancora poco chiara agli scienziati. Spesso (ma non sempre), l’imene si lacera parzialmente durante il primo rapporto sessuale vaginale, a volte sanguinando e a volte no. Questa variabilità si spiega col fatto che non tutti gli imeni sono uguali, né integri dalla nascita: la membrana può infatti presentare molti piccoli fori (in questo caso si parla di imene cribriforme o microperforato) o due aperture verticali (imene septato). Inoltre, alcune donne nascono senza, oppure ce l’hanno così piccolo da non coprire l’apertura del canale vaginale, per cui di fatto non avviene alcuna rottura. Anzi, se l’imene è completamente integro si parla di imene imperforato, una condizione congenita che causa problemi perché impedisce la fuoriuscita del flusso mestruale e che va risolta con la chirurgia. Quindi, controllare l’integrità di un imene è un modo scientificamente inaccurato per verificare se una donna è ancora vergine, proprio perché non c’è alcun modo di capire se vi sia stato un atto sessuale osservando questa membrana. Come hanno raccontato le autrici de Il libro della vagina Nina Brochmann e Ellen Støkken Dahl nella Ted Talk The Virginity Fraud, un’osservazione dell’imene condotta su 36 donne incinte in Norvegia ha rilevato un imene intatto in ben 34 di esse.
Ma al di là della lacerazione dell’imene (e del conseguente sanguinamento, che in epoche non troppo lontane era la prova schiacciante della purezza della donna durante la prima notte di nozze) è il concetto stesso di “verginità” a essere problematico.
In quasi tutte le culture, la verginità femminile è un valore intoccabile. Nel cattolicesimo, una delle figure più venerate è quella di Maria, alla quale, secondo un dogma stabilito nel 553, durante il secondo Concilio di Costantinopoli, è stata attribuita la verginità perpetua. Non solo Maria è nata vergine, ma lo è stata anche durante e dopo il parto di Gesù. Questa credenza si è rafforzata nel 1854 con un secondo dogma introdotto da papa Pio IX, quello dell’Immacolata concezione, secondo cui la Madonna sarebbe nata senza peccato originale. In questo modo la madre di Cristo incarna la purezza ideale, ovviamente irraggiungibile. Anche in altre religioni la verginità della donna è inviolabile: la religione islamica (che condivide con quella cattolica il dogma della verginità mariana), nonostante non prescriva l’astinenza per le donne, promette come premio ai martiri 72 vergini in paradiso. L’ebraismo, invece, è più tollerante nei confronti della sessualità: pur non prevedendo la castità delle donne, nell’Antico Testamento la verginità è considerata una condizione imprescindibile per il matrimonio. Ovviamente tutte queste regole vanno contestualizzate dal punto di vista storico, ma anche se la religione è meno pervasiva nella società moderna, ciò non significa che i modelli che prescrive siano superati o ignorati, e questa aspirazione a un’impossibile “verginità perpetua” è per molte ragazze motivo di grande ansia.
Per un certo periodo, ho gestito una pagina Instagram di educazione sessuale per adolescenti, Blush, e sono rimasta davvero colpita dalla quantità di messaggi che ricevevo da ragazze terrorizzate di essersi rotte l’imene “per sbaglio”, durante la masturbazione, per una caduta o facendo sport (tutti casi in cui la lacerazione può effettivamente avvenire). Nonostante le mie rassicurazioni sul fatto che l’importanza attribuita all’imene fosse esagerata, molte di loro non si rassegnavano al fatto di “non essere più vergini”. “Come lo spiegherò al mio ragazzo?” e “Se lo scopre mia madre mi uccide” erano le preoccupazioni più diffuse. Non riuscivo in alcun modo a convincerle che essere “vergini” non dipende dalla presenza di una membrana, ma dall’aver compiuto o non aver compiuto determinate esperienze sessuali. Il problema è che quello della verginità è soprattutto un mito, una costruzione sociale caratterizzata da una pressione esagerata per entrambi i sessi: agli uomini viene richiesto di perderla il prima possibile, mentre le donne dovrebbero mantenerla idealmente sempre (perché anche la castità coniugale è, in fondo, una sorta di verginità).
La stessa espressione “perdita della verginità” è negativa e stigmatizzante, perché implica che la condizione di partenza sia migliore, e che in seguito il valore di una persona non sia più lo stesso. Il mito della verginità è dannoso e va abbattuto, e per farlo non si può prescindere da una domanda fondamentale: che cos’è un atto sessuale? La verginità viene considerata una sorta di rito di passaggio per cui si transita da una condizione di purezza e ingenuità a una di maturità e corruzione. Questo passaggio può avvenire soltanto in un modo: attraverso la penetrazione. Ma una tale concezione di rapporto sessuale svilisce tutte quelle forme di sessualità che non includono necessariamente questa pratica. Nel 1978, l’autrice femminista Andrea Dworkin scrisse un libro molto discusso, Intercourse, in cui criticava l’“obbligatorietà” del sesso penetrativo. Se non c’è penetrazione, nella concezione comune, allora non c’è stato nemmeno un vero rapporto sessuale. La nostra idea di “perdita della verginità” in effetti coincide con questa credenza: se una donna ha compiuto qualsiasi atto sessuale che non sia il sesso vaginale, allora è ancora vergine. La rottura dell’imene (che, come si è detto, non è esattamente una rottura) segnerebbe una svolta irreversibile nella vita di una giovane donna. Hannah Gadbsy, stand-up comedian lesbica, nel suo spettacolo Nanette si presenta così: “Ci sono solo due opzioni per una bambina quando cresce: vergine o troia. E io non entro perfettamente in nessuna delle due categorie. Vergine o troia? Cioè, a livello tecnico, direi vergine”.
L’idea del sesso penetrativo come unica forma di maturità sessuale rientra perfettamente nell’assetto eteronormativo della nostra società, per cui qualsiasi espressione che devia dalla norma eterosessuale viene ignorata, stigmatizzata o perseguita. Si attribuisce enorme importanza alla penetrazione vaginale connessa alla perdita della verginità, mentre sembra che altre pratiche sessuali non siano poi così determinanti per la crescita di una persona. Questa enfasi sulla penetrazione, inoltre, mette la donna e la sua capacità di autodeterminazione in secondo piano: solo un pene, e quindi un uomo, può renderla sessualmente attiva? Non può farlo lei stessa, un’altra donna, una persona trans o non binaria? Il mito della verginità spesso tende a negare il desiderio femminile, perché la vergine non fa pensieri impuri ed è innocente per antonomasia. Anche quando una donna diventa adulta, questo mito si ripropone in continuazione (e non è un caso se gli interventi di ricostruzione dell’imene sono sempre più diffusi), ad esempio colpevolizzando una vita sessuale giudicata troppo intensa o anormale, oppure troppo precoce.
Con questo non intendo che il primo rapporto sessuale non sia un momento importante, ma è necessario alleggerire il carico di aspettative che porta con sé e, soprattutto, privarlo di quella “obbligatorietà” di cui parlava Andrea Dworkin. Anziché enfatizzare il momento in sé e per sé, sarebbe più importante assicurarsi che avvenga nelle giuste condizioni: con consapevolezza, rispetto di sé e del proprio partner, protezione, con determinazione, ma soprattutto consenso. Uno studio condotto tra 331 studenti universitari ha scoperto che coloro che hanno avuto una prima esperienza sessuale positiva, cioè caratterizzata da intimità e rispetto, a distanza di anni hanno una vita sessuale più soddisfacente rispetto a chi l’ha vissuta in modo più traumatico. La “prima volta” è importante, ma lo sono anche la seconda, la decima o la centesima. Questa è l’unica maturità sessuale di cui dovrebbe importarci.
Questo articolo è stato pubblicato la prima volta il 15 novembre 2019.