C’è bisogno di empatizzare con il leader massimo. Di specchiarsi in lui, di rivedere nei suoi gesti e atteggiamenti quelli di tutti. Più il leader è umano, dunque, meglio è, perché si è tutti umani, tranne i benpensanti, buonisti e magari di sinistra, che quando parlano non si capisce nemmeno cosa dicano – e se si capisce, comunque, stanno dicendo qualche cazzata.
Così quando Matteo Salvini a mezzanotte e mezza comunica al mondo la propria emozione per una dura giornata conclusa guardando la finale di Amici, diventa quasi naturale immaginare che sì, lui è proprio come noi, lui sa cosa proviamo, lui ci rappresenta. Lui è l’uomo che ci può difendere da tutto ciò che ci soffoca o che ci spaventa. Se sono i migranti non facciamoli entrare, se sono quelli in giacca che mangiano crauti in Europa, allora usciamo noi dall’Europa – magari chiedendo prima una mano con quei migranti.
Della capacità di comunicazione via social di Matteo Salvini si è già discusso abbondantemente. È senza alcun dubbio lui il personaggio che meglio degli altri ha capito come rendere ogni sua dichiarazione per post più incisiva possibile. Ma quanto successo fra il 10 e il 12 giugno ha evidenziato, una volta per tutte, la svolta nella comunicazione del Salvini “leader per la salvezza dell’Italia”. E contestualmente ha dimostrato tutta l’inconsistenza e la vacuità dell’idea grillina di democrazia.
Mentre il leader della Lega, ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio (seguendo l’ordine che utilizza nella sua bio di Twitter e Facebook) era sul divano a guardare Amici, si stava concludendo probabilmente quella che ricorderà come la sua due giorni del cuore. Tutto aveva avuto inizio domenica 10 giugno, proprio nella giornata in cui si erano svolte le elezioni amministrative – sì in teoria c’era il silenzio elettorale, ma non importa, tanto nessuno si accorge che si tratta una mossa per guadagnare consenso. Nella mattinata Salvini aveva lanciato due bombe social: la prima utile a preparare il terreno, identificando i nemici (regola vuole che siano il più possibile generici, tanto per non sbagliare) e il salvatore (questo invece è bene che sia identificato nel migliore dei modi, perché l’obiettivo è il suo, non quello del ministero, del governo e neanche del partito: è il suo).
Da oggi anche l’Italia comincia a dire NO al traffico di esseri umani, NO al business dell’immigrazione clandestina. Il mio obiettivo è garantire una vita serena a questi ragazzi in Africa e ai nostri figli in Italia. pic.twitter.com/3nLN7d4khC
— Matteo Salvini (@matteosalvinimi) 10 giugno 2018
La seconda bomba era stata lanciata poi per dare un’immagine forte e decisa dell’uomo solo al comando, al grido di #chiudiamoiporti. La mossa definitiva, quella su cui gli schieramenti si sarebbero divisi in pro e contro. La creazione di questa dicotomia si è rivelata fondamentale: i pro si sono infatti concentrati nella difesa a spada tratta della linea del leader maximo, cui sono stati diretti tutti gli attacchi dei contro, pronti a farsi in quattro per denunciare soprattutto i modi, più che l’infondatezza, di quanto sostenuto dal leader. E così è stato del tutto inutile provare, per quei pochi che hanno tentato, a diffondere dati e regolamenti che dimostrassero che non esiste nessuna invasione, che è un nostro obbligo far sbarcare quella nave. Tutto completamente inutile. Così, quando nella mattinata dell’11 giugno Salvini ha postato il suo VITTORIA (scritto in capslock e con punto esclamativo) ha potuto permettersi di dire che la Spagna si era arresa all’iniziativa italiana e che “alzare la voce paga”. Una situazione talmente paradossale che la mossa spagnola di permettere lo sbarco della nave Aquarius a Valencia, dettata probabilmente in buona parte da opportunismo politico (era infatti il primo atto europeo del nuovo governo Sanchez, il migliore dei biglietti da visita possibili sia per l’opinione pubblica interna che esterna), è diventata spunto per una roboante dichiarazione di vittoria, altrettanto politica, del ministro dell’Interno italiano.
Il Ministero della cultura popolare è stato uno dei dicasteri su cui il fascismo ha basato la propria esistenza. Oltre a propagandare la cultura fascista, i suoi compiti erano quello di alimentare il mito di Mussolini superuomo e di effettuare un costante e capillare controllo interno ed esterno su qualsiasi pubblicazione. E l’impressione, del tutto personale e sicuramente dettata dal pessimismo catastrofista tipico delle mie origini siciliane, è che il campo su cui si svolge il dibattito politico sia ormai irrimediabilmente influenzato da dinamiche analoghe a quelle del fu Minculpop. Gli account di Salvini sembrano trarre linfa continua proprio dal modello basato sul culto del comandante in capo, duro con i nemici, ma così “uno di noi” da scegliere di rilassarsi, come l’uomo medio, davanti alle trasmissioni di intrattenimento in compagnia di una moglie fedele. Il crescente apprezzamento nei confronti di Salvini e della Lega, ribadito anche dai risultati della tornata di elezioni amministrative, dimostra quanto questa strategia funzioni.
L’altro piano di azione del Minculpop era il controllo. Una pratica che oggi vede il miglior esponente nel Movimento 5 Stelle. Un caso, in particolare, ha contribuito a mostrare l’assurdità del meccanismo di controllo interno al partito: il sindaco Cinque Stelle di Livorno, Filippo Nogarin, è riuscito prima a dirsi pronto, tramite un post su Facebook, ad aprire il porto della città alla nave Aquarius, e poi, nel giro di poche ore, a cancellare il post. Come se non fosse tutto già abbastanza preoccupante, Nogarin ha rilasciato un’intervista in cui ha motivato la propria scelta come volta a “evitare di creare casi diplomatici e mettere in difficoltà il governo.” Che è esattamente il motivo per cui nasce la censura politica, non creare problemi a chi comanda. Ma ormai siamo così instupiditi che dopo questa risposta ci viene naturale ribattere che “se è per questo allora ok, Noga, bella lì.”
E invece no, dovremmo renderci conto del fatto che si tratta di una situazione drammatica, soprattutto perché la volontà di “non dare fastidio” è stata messa nero su bianco: non solo nel famigerato regolamento interno al Movimento, ma anche nel contratto di governo.
A gennaio 2017 Beppe Grillo aveva annunciato sul suo blog che i deputati, i senatori e i parlamentari europei del Movimento 5 Stelle non avrebbero potuto più fare alcuna comunicazione pubblica che non fosse precedentemente concordata con lo staff addetto alla comunicazione di partito. “Altrimenti,” aveva motivato e minacciato Grillo, si rischia di cadere nelle trappole giornalistiche o di danneggiare l’immagine del MoVimento 5 Stelle con uscite goffe e maldestre. Chi danneggia l’immagine del MoVimento 5 Stelle può incorrere nelle sanzioni definite dal Regolamento: richiami e sospensioni. Non si fanno sconti a nessuno.”
Le cose nell’ultimo anno e mezzo non sono cambiate, anzi. Oggi abbiamo il contratto di governo. Si è parlato, purtroppo poco, dell’intenzione di reintrodurre il vincolo di mandato – la cui storia parlamentare va di pari passo con quella dell’affrancamento dell’Italia dal fascismo. A pagina 35 del documento si può leggere “Occorre introdurre forme di vincolo di mandato per i parlamentari, per contrastare il sempre crescente fenomeno del trasformismo.” Questa volontà assume note ancora più cupe se considerata contestualmente a un altro passaggio del contratto, che si apre con il paragrafo dedicato alla Cooperazione tra le due forze politiche: all’undicesima riga di pagina 6 si legge che le due parti si impegnano “a non mettere in minoranza l’altra parte in questioni che per essa sono di fondamentale importanza.” Si tratta quindi di un vincolo di fiducia, che, unito alla volontà di reintrodurre il vincolo di mandato e al controllo univoco della comunicazione con l’esterno, conferisce a questo governo la caratteristica tipica dei totalitarismi: l’ostilità verso la libertà d’espressione.
Alle conferenze stampa si preferiscono i proclami ufficiali tramite diretta Facebook, in cui ai giornalisti è impossibile fare alcuna domanda. Vengono licenziati direttori di quotidiani perché si rifiutano di andarci piano con il governo (e senza che l’editore si senta in obbligo di smentire questa tesi). Si decide di tener fuori un giornalista da un evento organizzato dall’associazione Rousseau perché autore di un libro che sottolinea i risvolti poco trasparenti del Movimento. Si continuano ad aggiornare le blacklist di giornalisti avversi e si acconsente a fare comparsate in tv solo se ospiti di giornalisti amici e senza contraddittorio.
La cosa più sconfortante è che tutto questo succeda nel quasi totale silenzio di chi dovrebbe denunciare. E lasciamo stare voci come Travaglio, che è diventato l’Emilio Fede a Cinque Stelle e che il giorno dopo la vicenda Aquarius ha evitato di parlarne, facendo piuttosto un bell’editoriale sulle amministrative, perché era di vitale importanza dire che non è vero che il Movimento ha perso. Il problema sta in un Ordine dei Giornalisti che non proferisce parola sui continui attacchi alla categoria, presa di mira da anni; sta dentro un Parlamento in cui il regolamento del M5S viene accettato come se non fosse in palese conflitto con i regolamenti interni alle due Camere. E sì, sta anche in una Presidenza della Repubblica che, nonostante gli sforzi, non ha potuto dire nulla riguardo il nauseabondo olezzo di incostituzionalità del contratto; un contratto in cui si parla anche di un “Comitato di conciliazione” che, si legge, verrà convocato nel caso in cui le divergenze fra le parti contraenti persistano, e di cui nulla si sa in merito alla composizione e al funzionamento, perché entrambi “Sono demandat[i] ad un accordo tra le parti.” Ma tranquilli, il Comitato “adotterà le opportune decisioni con riferimento alla realizzazione e al completamento delle opere pubbliche di rilievo nazionale non espressamente menzionate nel presente contratto.”
Il problema è che sta succedendo tutto molto in fretta e che, quando arriverà l’ennesimo hashtag a uso bomba, rimarremo a bocca aperta, senza capire nemmeno da che parte sia arrivato.