1500 italiani di seconda generazione rischiano la vita nelle Forze Armate. I razzisti che fanno? - THE VISION
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Quando Shakespeare scrisse Otello rese il protagonista nero – berbero, per la precisione – perché la tragedia si basava su una domanda eterna: cos’è l’identità? Cosa vuol dire essere un inglese, o un italiano? L’identità serve per comprendere la propria mortalità: non ero, sono, non sarò più. È un discorso difficile e spaventoso da affrontare, e per chi non è capace d’introspezione – o manca di coraggio – il meccanismo base per definirsi è quello di definire cosa non è; non sono ebreo, non sono tutsi, nero, cinese, omosessuale, terrone, albanese. Avere un nemico mi qualifica come il suo antagonista e dà un senso alla mia esistenza. Come nemici vanno bene anche onnivori, vegetariani, animalisti, ricchi, poveri, ignoranti, “élite culturali”, atei, cattolici, uomini, donne. In Italia adoriamo essere antagonisti, contrari, anti-tutto. Più odio e attacco un’altra persona o idea, più si rafforza la mia identità. 

Cos’è l’Italia? Cosa significa essere italiani?

Senza nemici, provare a rispondere è difficilissimo. Un “vero italiano” va alle sagre, sa a memoria i testi di Battisti, ha una cagnetta orrenda di nome Pina, sa uscire dal supermercato con tre caciotte sotto la giacca, mette il gel alla calvizie, tiene la camicia bianca aperta, le foto della cresima in salotto, la polo col colletto alzato, e sogna di andarsene dal sempiterno “paese di merda” per aprire un chiringuito a Malaga dove sfoggiare le frasi di Vasco tatuate. Ma fuori dai cliché, essere italiani è una filosofia. Un modo di affrontare la vita che abbiamo imparato dai nostri genitori e dai nostri concittadini; l’identità nazionale è un misto di bias, tradizioni, abitudini, conoscenze e regole non scritte create e modificate dalla nostra società nel corso dei secoli. Tutto si è modificato e lo fa di continuo. 

L’ultima edizione del Festival di Sanremo e la vittoria di Mahmood ha scatenato la rabbia di una parte del Paese, perché il cantante, nato a Milano, è di origini egiziane: eppure Mia Martini e Loredana Bertè avevano il padre greco, Malika Ayane marocchino, Claudio Cocciante è di madre francese, Ermal Meta è nato in Albania, Mudimbi ha origini congolesi. Da anni Kledi, che è albanese, danza nelle Tv italiane. Nonostante le polemiche strumentalizzate nella perenne propaganda elettorale dei partiti populisti, l’Italia non è (ancora) un Paese razzista, nei gusti musicali e in molti altri aspetti del suo tessuto sociale. Anche le forze armate riflettono una realtà lontana dai sogni xenofobi di alcuni politici. Il primo Corazziere di colore arrivato al Quirinale nel 2017 non è il primo italiano di origine straniera ad aver giurato fedeltà allo Stato italiano. Nelle nostre forze armate ce ne sono 1500, originari di tutto il mondo, come il Caporalmaggiore degli Alpini Vivian Peña, veterana di Kosovo e Afghanistan, o Gailson Silva Lopes, che in testa porta il basco amaranto della Folgore. Già nel 2010 l’Esercito ha messo in mostra questa realtà nel calendario Esercito senza confini, dimostrando quello che ha sempre fatto fin dai tempi della leva obbligatoria: mescolare persone di provenienza diversa, unendole in uno sforzo comune, per creare il cosiddetto spirito di corpo. Le persone si adattano, si mescolano e insieme creano qualcosa di nuovo. L’unità nazionale, per esempio. Quindi, perché un immigrato o un italiano di seconda generazione si mette sull’attenti davanti al presidente della Repubblica mentre i “veri italiani” lo ricoprono di insulti sui social?

Forse perché il corazziere ha trovato la propria identità, mentre i “veri italiani” l’hanno persa. Forse il sovranismo, il populismo, il razzismo in Italia – e in Europa – sono un effetto collaterale simile al lampadario che vibra per una scossa tellurica. Il vero terremoto è la nostra recente incapacità di riconoscerci come comunità senza un nemico. In meno di un secolo abbiamo perso ideologie, ideali e leader, abbiamo visto granitiche certezze diventare utopie di cui vergognarci. Ora ci restano i capipopolo che, legittimati dai loro like su Facebook, ci regalano il nostro nemico quotidiano. Il risultato è che da anni siamo un popolo sempre più ansioso, preda di patologie mentali come ansia e depressione, spaventato dal mondo che ci circonda.Siamo un popolo che si è perso. Citando il rapper Salmo, a furia di usare i nemici per definirci siamo finiti “lottando in un mare di odio affogati dai nostri rimorsi”. 

Non sappiamo più dire cos’è l’Italia o cosa significa essere italiani, con il risultato che gli immigrati  o gli italiani di seconda generazione hanno un desiderio di identità nazionale più forte e determinata della nostra. Noi siamo così assuefatti dal meccanismo mentale noi contro loro, talmente trincerati nelle nostre tifoserie da non coglierne più il lato tragicomico. I “buonisti” vogliono l’integrazione, ma rinnegano i concetti di patria, di italianità, di unità nazionale, di tradizione e di cultura. Quindi dovremmo integrarli a cosa? I “veri italiani” impediscono a uomini e donne in cerca di patria di averla, discriminandoli in base alla loro pelle e costringendoli a vivere in microcomunità isolate dove illegalità e crimine sono l’unica scelta.

L’ironia di tutto questo è che nella storia del nostro Paese i flussi migratori, i morti in mare, i crimini degli immigrati e dei razzisti occuperanno meno di un paragrafo tra cinquant’anni e meno di una riga tra cento. È inevitabile. Forse l’Italia è la sua capacità di inglobare altri popoli e culture e trasformarli in figli indolenti e insofferenti che fanno mille rivolte e nessuna rivoluzione, faide familiari e colpi di Stato nei giorni feriali, perché nel fine settimana vanno tutti a bere guardando il tramonto sul mare, borbottando che questo Paese è finito, e che bisogna cambiare tutto, affinché non cambi niente.

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