Lo scorso 16 luglio il premier Giuseppe Conte, commentando i nuovi accordi sull’accoglienza dei migranti, ha parlato di vittoria politica: i 450 migranti sbarcati a Pozzallo verranno infatti “smistati” tra altri Paesi europei. Il verbo “smistare” denota come il discorso pubblico consideri ormai gli sbarchi unicamente come un problema. Se da una parte si sprecano i commenti razzisti, dall’altra si paragonano i migranti a pacchi da collocare, una disputa che riduce queste persone a cifre, oggetto di rimostranze fra governi europei. Ci sono dunque due tipi di razzismo: uno più esplicito, che li vede come causa di tutti i mali; uno implicito, e in alcuni casi inconscio, che li riduce a generica massa umana.
Una variante cinica del razzismo implicito è concepire chi arriva dal mare come una risorsa da sfruttare. Lo straniero che giunge sul territorio italiano deve integrarsi nella società lavorando, nello specifico occupandosi delle attività più umili, quelle che l’italiano rifiuta di fare. E poi c’è il problema della natalità: se gli italiani non fanno figli, l’unico modo per garantire il ricambio generazionale nel mercato del lavoro è affidarsi ai migranti. Di questa idea è Tito Boeri, il presidente dell’Inps che più volte si è espresso sul futuro del sistema pensionistico italiano. Nel 2017 Boeri ha spiegato che “gli immigrati regolari versano ogni anno otto miliardi in contributi sociali e ne ricevono tre in termini di pensioni e altre prestazioni sociali, con un saldo netto di circa cinque miliardi per le casse dell’Inps.” Gli immigrati regolari versano nelle casse statali quindi molto più di quello che ricevono.
È probabile che a pagare le pensioni degli anziani leghisti che partecipano al raduno di Pontida siano proprio loro. Tuttavia Boeri si è spinto più in là, assicurando che i lavoratori stranieri regolarizzati con le sanatorie non riducono le opportunità di impiego dei colleghi italiani, se non in minima parte: “Le analisi evidenziano che la probabilità di separarsi da un’impresa per i colleghi degli emersi è pari al 42%, e se il numero di emersi cresce tale probabilità aumenta solo dell’1%. L’effetto di spiazzamento è dunque molto piccolo e riguarda unicamente i lavoratori con qualifiche basse. Non ci sono invece effetti per i lavoratori più qualificati, né in termini di opportunità di impiego né di salario.” Boeri ricorda infatti che i migranti che entrano nel mercato del lavoro italiano “sono per la maggior parte dei casi a bassa qualifica.” Le parole del presidente dell’Inps possono essere interpretate come una rassicurazione sull’immobilismo della società italiana, un stagnazione che vedrà perpetuarsi, oltre alle differenze di classe, anche disparità razziali.
Nella relazione dell’Inps per il 2018 Boeri ha posto di nuovo l’accento sulla necessità di avere un’immigrazione regolare che, al contrario di quella irregolare, garantisca un flusso di cassa sicuro per l’Inps. Boeri ha usato esplicitamente le parole “abbiamo bisogno di queste persone”, al di là di qualsiasi ideale progressista qui si afferma una morale cinica: lo Stato italiano deve mettere a sistema i migranti.
In sostanza Boeri parla a nome di quel pezzo di establishment che vede nei migranti manodopera a basso costo, e fa il paio con le dichiarazioni del gioviale Oscar Farinetti, che promette lavoro per italiani e stranieri, ben sapendo che potrà pagarli senza remore il minimo sindacale. Seguendo una tale visione padronale dell’economia, si giunge a una conclusione spietata in merito al ruolo dei lavoratori immigrati: sono loro gli unici che, spinti dal bisogno estremo, hanno il coraggio di sporcarsi le mani per compiti al limite del disumano. Secondo questa logica, appaiano come risibili le rivendicazioni in merito ai salario minimo a cui questi lavoratori possono aspirare.
Gli immigrati sono considerati dei tappabuchi, lavoratori di serie B perché sostituibili e non percepiti come possibili portatori di professionalità e intelligenze in grado di rendere più competitiva l’economia italiana. In questa narrazione, inoltre, il problema della loro giusta retribuzione non si pone, non sono visti come membri di una classe sociale in una lotta legittima per appropriarsi di una quota maggiore del reddito nazionale.
A un certo livello del ragionamento il razzismo implicito ed esplicito si ricongiungono: il razzista “buono” sottintende che, in fondo, quei pochi euro che prende il raccoglitore di pomodori o l’operario della logistica sono un salario, se non proprio giusto, vicino al valore effettivo che il lavoratore ha in quella filiera. L’unico accorgimento che si dovrebbe adottare è legalizzare i migranti in maniera che le casse pubbliche possano beneficiare dello sfruttamento di questi lavoratori. Dall’altra parte il razzista “cattivo”, sentendo la parola “risorse”, si imbufalisce e si lava la coscienza dando dello schiavista e dello sfruttatore all’illuminato che parla di accoglienza. Questo è il falso argomento che, ad esempio, utilizza Diego Fusaro quando si dice contro l’immigrazione perché fornisce “nuovi schiavi”.In questo schematismo ci dimentichiamo che parliamo di persone capaci di intraprendere un viaggio disperato per cambiare il corso della propria vita, dunque non sono soggetti inermi, ma uomini e donne in grado di modificare la propria storia e, secondo le proprie possibilità, autodeterminarsi. Sorpresa: i migranti sono in grado di costituirsi come soggetto politico: lo abbiamo visto con la morte di Soumalya Sacko e, nel settore della logistica, con la vicenda di Abdel Salam, schiacciato da un Tir mentre manifestava. In entrambi i casi, quelli che molti considerano delle scimmie e per tanti altri sono da trattare alla stregua di pacchi, hanno fatto sentire la propria voce, e hanno scioperato in maniera coesa, molto più compatta di tanti segmenti di lavoratori italiani. Al razzista “cattivo” dà fastidio che il suo nemico abbia una testa pensante, al razzista “buono” che un giorno possano essere fuori controllo: in entrambi i casi si nega la soggettività politica dei migranti.
Non serve che gli stranieri ci paghino le pensioni, ragionare in questi termini significa non guardare oltre lo stato di cose attuali. Per contrastare un immobilismo economico che interessa tutti i lavoratori, al di là del colore della pelle o della nazionalità, occorre che si costituiscano nuovi soggetti politici in grado di di rimettere in moto la dinamica, spesso frammentata, della contestazione. La classe lavoratrice ha bisogno di nuove voci che rappresentino i reali rapporti di forza all’interno del mercato del lavoro. Il primo passo per riconoscere ai migranti un valore politico è smettere di guardarli come fossero un problema e smettere di misurare tutto secondo la retorica della vittima. Solo in questo modo possiamo sperare che gli stranieri diventino un soggetto politico attivo in grado di contestare un sistema che riduce i lavoratori a risorse interscambiabili.