All’Università degli studi di Palermo è stato presentato a luglio il progetto Pass accademico delle qualifiche dei rifugiati, strumento che permette ricostruire le qualifiche e il percorso di studi di chi è in possesso della protezione, anche nei casi di documentazione frammentaria o del tutto assente. L’iniziativa è stata promossa dal Coordinamento nazionale sulla valutazione delle qualifiche dei rifugiati (Cnvqr), istituzione che fa a sua volta parte di un progetto internazionale a cui aderiscono Armenia, Canada, Francia, Germania, Grecia, Italia, Olanda, Norvegia e Regno Unito, con l’obiettivo di valutare i titoli di studio dei rifugiati.
L’attuale dibattito sui migranti si riduce a un pro o contro privo di basi solide per costruire un dialogo costruttivo sull’attuale “crisi migratoria”. A chi sostiene che la chiusura totale dei porti e i respingimenti in mare siano l’unica soluzione, si contrappone chi porta avanti un ragionamento basato sulle parole “accoglienza” e “salvare” e su esortazioni come “restiamo umani”. Spesso si finisce per parlare dei migranti come di semplici numeri o, nei casi peggiori, come di pacchi da rimbalzare da uno Stato a un altro. L’iniziativa dell’ateneo di Palermo ha dimostrato che esiste un modo diverso per parlare di queste persone, mettendo al centro le loro voci. Spesso ci dimentichiamo che i migranti hanno una vita, aspirazioni, formazione e un’identità e non sono solo i detenuti di un campo in Libia e i naufraghi di una barcone in mezzo al Mediterraneo. Nella nostra narrazione finiscono per diventare esclusivamente parassiti o “cuccioli” da salvare, con tutto il paternalismo che ne deriva e l’assenza di una visione che li descriva come nostri pari.
L’ipocrisia del ministro dell’Interno Matteo Salvini è evidente nel momento in cui pretende che l’Europa si mobiliti per gestire l’immigrazione, ma senza supportare una collaborazione tra Stati. Dopo aver affossato con il supporto del M5S la riforma del regolamento di Dublino, che avrebbe garantito l’obbligo di un’equa redistribuzione e condivisione delle responsabilità nella gestione dei flussi migratori, si è allineato alle posizioni dei Paesi del blocco di Visegrad. In risposta alla politica di chiusura e xenofobia di questi Paesi, l’opinione pubblica fa l’errore di attivarsi solo in occasione dell’ennesimo caso mediatico relativo all’azione delle Ong. Anche se salvare vite in mare è un’azione tutelata dal diritto internazionale e marittimo, oltre che dalla coscienza, l’interesse dei media non deve spegnersi una volta che i migranti sono sbarcati in porto. Informare e aggiornare sulle loro condizioni in mare o nei campi detenzione in Libia è importante, ma non si può continuare a ridurre l’intera riflessione sui flussi migratori a concetti come “umanità” o “salvataggi”.
Dopo il caso della capitana Carola Rackete, i 42 migranti portati in salvo a Lampedusa sembrano essere diventati fantasmi. È ovvio che Rackete abbia catalizzato l’attenzione della stampa, a maggior ragione dopo i numerosi attacchi misogini e sessisti, ma non possiamo dimenticare che la questione migranti non è stata risolta e si ripresenterà identica nei prossimi giorni. Questo circolo vizioso disumanizzante per i migranti stessi – che sono persone con una vita, ambizioni, opinioni, pensieri, carriera scolastica, universitaria e lavorativa – può essere interrotto cercando di affrontare la questione con oggettività. Il progetto dell’Università di Palermo dovrebbe far riflettere proprio sulle qualifiche dei nuovi arrivati, che nella maggior parte dei casi il nostro Paese non riesce a valorizzare, abbandonandoli in balia del caporalato e dello sfruttamento.
Nonostante la convinzione che gli immigrati “facciano i lavori che gli italiani non vogliono più fare” perché non sufficientemente formati, il rapporto Ocse 2017 ha messo in luce che “Gli immigrati lavoratori con diploma di terzo livello [ossia laureati] costituiscono in media più di un terzo della forza lavoro immigrata dei Paesi Ocse”. Spesso gli immigrati, regolari o meno, svolgono lavori non qualificati perché le lauree ottenute nei Paesi di origine non sono riconosciute dall’ordinamento italiano, con il risultato che il 51,7% degli stranieri residenti in Italia è troppo qualificato per il lavoro che svolge.
Un altro scoglio incontrato dai migranti che vogliono trasferirsi in Europa è l’ottenimento di un visto, che nella maggior parte dei casi non viene concesso, andando a incrementare i canali di immigrazione illegale. Secondo il rapporto 2019 in materia di visti sui Paesi dell’area Schengen, nel 2018 è stato negato il 35% delle richieste, in particolare se provenienti da Paesi africani come Nigeria, Algeria, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Eritrea, Ghana. Ha fatto scalpore anche il record negativo di visti per motivi di studio negati agli studenti di Ghana e Togo, rifiutati nel 95% dei casi. Questi dati dimostrano l’ipocrisia di chi si nasconde dietro a mantra come “gli immigrati regolari vanno bene”, dato che una burocrazia lenta e arbitraria nega di fatto questa opportunità, spesso senza motivazioni valide e per cui è difficile far ricorso, specie se si proviene da Paesi in via di sviluppo.
Noi europei abbiamo passaporti di serie A per la mobilità internazionale, ma questo non vale per un grande numero di Paesi. Come dimostra il Passport Index, i passaporti europei garantiscono una facilità nel viaggiare eguagliata solo da Stati Uniti e Emirati Arabi Uniti (primi in classifica con il punteggio di 173). Non è così per le nazioni africane: nel ranking del Passport Index la Nigeria, ad esempio, ha un punteggio di mobilità pari a 48, contro il 167 dell’Italia. Questo è dovuto ai legami diplomatici e commerciali che un Paese intrattiene con i suoi partner internazionali, motivo per cui è ancora più evidente la necessità di iniziare a pensare agli Stati africani come interlocutori sullo stesso piano di quelli occidentali, con cui intrecciare rapporti e stipulare accordi che favoriscano una mobilità internazionale legale e sicura.
Questo cambio di prospettiva può essere favorito anche dai progetti e le riforme messi in cantiere negli ultimi anni dall’Unione africana: uno di questi è il passaporto pan-africano, che semplificherebbe gli spostamenti interni al continente. Infatti, al contrario di quanto ripetono quotidianamente alcuni politici, non è vero che “tutta l’Africa viene in Italia”, dato che la maggior parte dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana si sposta in altri Stati del continente. Lo fanno con molte difficoltà, dato che il 51% dei cittadini africani deve richiedere il visto per spostarsi tra i diversi Paesi africani. Per questo una misura rivoluzionaria come il passaporto pan-africano deve essere supportato anche dall’Europa con piani economici che privilegino gli investimenti nel mercato interno del continente. Questo è quello che l’Unione Africana sta già cercando di fare con il progetto African Continental Free Trade Area, con l’obiettivo di creare un’area comune di scambio, favorire la produzione locale e ridistribuire i guadagni che al momento sono quasi un monopolio di multinazionali estere e Paesi terzi. Questo è il primo passo di un progetto che richiederà in futuro anche una redistribuzione della ricchezza e maggiori investimenti nel welfare, a patto che i leader africani riescano a trovare un modo per collaborare su questi progetti.
I Paesi Europei si attaccano l’un l’altro, criticando chi ha accolto meno migranti o lodando chi ne ha ospitati di più, dimenticando che l’ipocrisia sta proprio nel fatto che la discussione non cambia di una virgola il loro approccio alla gestione dei flussi migratori. L’Europa rimane una fortezza pronta a dare lezioni di morale sui salvataggi e su nuove modifiche ai regolamenti in materia di immigrazione, senza saper trovare un approccio comune, che potrebbe avere un buon punto di partenza proprio nella liberalizzazione dei visti lavorativi.
Se si vuole contrastare la retorica xenofoba e nazionalista alimentata dalla gestione dell’immigrazione serve un’analisi più profonda e che vada al di là del “restiamo umani”. Restare umani è scontato, ma troppo spesso ci si lascia influenzare da quelle tragiche immagini sui barconi, pensando che le persone a bordo non potranno mai essere altro che “disperati”, con un cortocircuito che finisce per estendersi a tutto il loro continente di origine. Che queste persone vadano salvate quando si trovano in mare è ovvio, ma la questione non può chiudersi al momento del loro sbarco in un porto sicuro. L’Africa continua a essere considerata un continente di serie B da cui arrivano ora parassiti, ora disperati da salvare, ma mai persone che vogliono realizzarsi e che meritano di essere descritte nella loro complessità di esseri umani. I primi che dovremmo considerare “umani” sono loro. Viaggiare è impossibile se non si è nati nel Paese giusto, e questo è il primo su cui intervenire se vogliamo davvero provare a costruire un mondo equo, che non sia più diviso tra Paesi di serie A e Paesi di serie B.