Le mestruazioni, insieme alla gravidanza, rappresentano una di quelle caratteristiche che segnano l’incontrovertibile confine fisiologico tra uomo e donna, anche se molte donne ne farebbero volentieri a meno e agli uomini non sembra interessare più di tanto come ci sentiamo, se non per fare battute trite sul nostro essere intrattabili in “quei giorni” – come vengono chiamate di solito le mestruazioni nelle pubblicità.
Il ciclo mestruale per le donne rappresenta un costante stravolgimento ormonale, e quindi emotivo, psicologico e fisico, che non si esaurisce esclusivamente nei giorni effettivi delle perdite, ma che le accompagna per tutto il mese, per tutto l’anno, per gran parte della loro vita. A noi donne non basta dover fare i conti con tutto quello che ne deriva – gli sbalzi d’umore, l’emicrania, i brufoli, la stanchezza, il dolore al seno, il mal di schiena, i dolori addominali, il nervosismo o la sonnolenza – dobbiamo anche far finta di stare bene e imbottirci di antidolorifici per mostrarci produttive ed efficienti come se niente fosse, e come se non bastasse, poi, siamo costrette anche a versare una tassa allo Stato per questo. Compriamo infatti a un prezzo maggiorato quelli che dovrebbero essere a tutti gli effetti beni di prima necessità, assorbenti e tamponi, che come i pannolini per neonati vengono tassati come fossero beni di lusso, ovvero al 22% – a differenza di francobolli da collezione e rosmarino, per fare uno dei tanti esempi, che sono invece tassati al 10%. Poter fare sempre la ruota in effetti ha il suo prezzo.
Le mestruazioni teoricamente arrivano ogni mese, dal momento dello sviluppo alla menopausa, per una media di circa quarant’anni della propria esistenza, durano dai tre ai cinque giorni, e per una questione igienica sarebbe bene che ci si cambiasse l’assorbente più di una volta al giorno, diciamo quattro. Anche senza essere laureati in matematica è facile immaginare che non si sta parlando di cifre da poco. All’anno spendiamo circa 23 euro di Iva, e potrà sembrare una cifra irrisoria, ma ad esempio i giocatori non devono pagarla per scommettere durante le partite di calcio.
I prezzi degli assorbenti sono abbastanza variabili, ma una confezione da 14 pezzi costa tra i 4 e i 5 euro, per non fare riferimento agli assorbenti in cotone, più costosi, che le donne a cui quelli in fibre sintetiche fanno sviluppare irritazioni sono costrette a usare. Viene sempre raccomandato dai medici di indossare intimo di cotone per evitare lo sviluppo di batteri, ma poi gli assorbenti che si indossano durante il ciclo – e quindi in un momento ancora più delicato delle condizioni della flora batterica genitale – sono per la maggior parte sintetici.
Eppure non possiamo proprio farne a meno: in primo luogo potrebbe non essere molto igienico, e in secondo se lo facessimo alla società non farebbe esattamente piacere. Basti pensare a tutte le polemiche suscitate dalla scelta di Kiran Gandhi, ricercatrice dell’Università di Harvard, di correre la maratona di Londra senza assorbente, o la foto pubblicata su Instagram da Rupi Kaur con i pantaloni del pigiama sporchi di sangue. In queste azioni non c’è niente di originale: il “free bleeding” nacque già negli anni Settanta, cavalcando il movimento femminista, anche per denunciare il rischio da sindrome di shock tossico causata dai batteri che si sviluppano facilmente nei tamponi vaginali e che a volte può essere fatale. Eppure, questo genere di immagini colpisce ancora profondamente l’opinione pubblica. Il sangue mestruale, infatti, anche nella nostra cultura apparentemente liberale, è ancora legato a rigidissimi tabù e percepito come sporco e impuro, addirittura dalle stesse donne, che hanno interiorizzato questo stigma sociale.
Ancora in molte culture le donne vengono considerate intoccabili durante i giorni del sanguinamento e sono escluse dalle dinamiche quotidiane, non sempre per loro libera scelta, e anche nell’Occidente – che si considera tanto evoluto e civilizzato – molti più uomini di quanto si potrebbe ragionevolmente pensare si rifiutano di avere rapporti sessuali con le loro compagne durante il mestruo. Molte ragazze e donne vivono questa normale caratteristica del loro corpo come qualcosa di cui vergognarsi, perché hanno ereditato questo sentimento dalle loro madri e dal contesto culturale in cui sono cresciute. Così ancora oggi in pubblico, ma anche tra sole donne, spesso le mestruazioni non sono nemmeno nominate, ma spesso si fa ricorso alla vasta gamma di perifrasi che ben conosciamo. Eppure il nostro sangue non è blu come vorrebbe l’advertisment, ma resta rosso e a volte anche marrone, e quello che pensa il mondo di questa cosa dovrebbe essere l’ultimo dei nostri problemi visto che moltissime donne hanno enormi problemi legati al ciclo, problemi che pensano di non poter risolvere, anche a causa dell’oscurantismo che aleggia intorno al fenomeno.
A noi donne, insomma, è richiesto di essere come gli uomini, ma quando facciamo notare che dovremmo avere anche dei diritti legati al nostro genere non ci vengono riconosciuti e semplicemente ci vengono suggerite soluzioni rocambolesche, retrograde, difficilmente realizzabili o comunque più impegnative e dispendiose in termini di tempo e denaro, in particolare da quei colleghi che quando hanno il raffreddore di solito si sentono morire.
Alle battaglie contro la cosiddetta “tampon tax” alcuni obiettano che potremmo sempre usare le pezze di cotone come facevano le nostre nonne, che non siamo realmente costrette a usare gli assorbenti. Per fortuna i tempi sono cambiati e oggi in commercio si trovano prodotti dalle caratteristiche tecniche e igieniche abbastanza sviluppate da allontanarli sufficientemente dall’archetipo dello straccio, come ad esempio assorbenti, pannolini e coppette assorbilatte in tessuto con filtri in carbone e con fantasie fancy. A differenza di quello che una mentalità tradizionalista potrebbe credere però hanno prezzi tutt’altro che indifferenti. I prodotti “alternativi” infatti si sono evoluti e si fanno pagare. Pannolini di stoffa e coppette mestruali, non essendo usa e getta limitano la spesa ricorrente, ma comunque a un certo punto vanno sostituite. E tuttavia questo genere di prodotti – a giudicare dal target a cui fanno esplicitamente riferimento – viene utilizzato soprattutto da chi compie una scelta etica ed ecosostenibile, e non tanto per motivi di risparmio. L’investimento iniziale infatti è più alto, anche se poi rientra nel tempo. In ogni caso, però, anche queste alternative restano soggette all’Iva al 22%. Potrebbe essere interessante una campagna di sensibilizzazione che oltre alla gioia del pianeta, a cui palesemente gran parte del genere umano è purtroppo insensibile, miri anche al fattore del risparmio, a cui probabilmente la maggior parte delle persone è più attenta, per incentivare anche le persone non direttamente coinvolte dal problema ecologico a sfruttare questi prodotti.
Il problema fondamentale è che in questo Paese ormai c’è la tendenza a etichettare come choosy qualunque “minoranza” che avanzi delle richieste in merito ai diritti di base ampiamente riconosciuti nel resto del mondo civilizzato – se per minoranza si intende chiunque non sia un maschio bianco cisgender e sopra i quaranta, come ad esempio donne, omosessuali, e studenti. Una direttiva del Consiglio Europeo del 2006 ad esempio ha stabilito che “I prodotti di protezione per l’igiene femminile possono essere assoggettati alle aliquote ridotte”, eppure in Italia non è cambiato niente, nonostante le discussioni in materia.
La Francia ha ridotto l’imposta al 5.5%, così come l’Inghilterra, l’Olanda e il Belgio al 6%. Il Kenya, nel 2004, ha varato una serie di misure per non tassare gli assorbenti e renderli disponibili gratuitamente alle studentesse, provvedimento che ha preso anche la Svezia in agosto di quest’anno. L’Irlanda, il Canada, e recentemente l’India (dove precedentemente era al 12%), invece, hanno addirittura abolito la tampon tax. In India, ad esempio, solo il 12% delle donne riesce ad acquistare assorbenti, e le altre utilizzano metodi alternativi, fra cui foglie di banano, sacchetti, sabbia e segatura, altre usano pezzi di stoffa e stracci – che, se non puliti adeguatamente, possono aumentare il rischio di infezioni, e questo è molto probabile che accada in un Paese in cui non è sempre facile trovare acqua e soprattutto acqua non contaminata. Tutte comunque, durante il ciclo mestruale, vengono isolate e viste come una minaccia all’equilibrio sociale. Nell’ultimo anno sono nati alcuni movimenti di protesta fra cui quello, guidato dalla parlamentare, Sushmita Dev, a cui hanno preso parte scrittrici e attrici di Bollywood, contraddistinto dall’hasthtag #lahukalagaan (tassa sul sangue), che ha fatto diventare virale il problema dell’accessibilità ai prodotti per l’igiene femminile, primo fra tutti l’assorbente. In Europa per fortuna non abbiamo problemi paragonabili a quelli che hanno le donne in certi Paesi cosiddetti in via di sviluppo dove spesso le bambine quando iniziano ad avere le mestruazioni smettono di andare a scuola, qui lottiamo per il congedo mestruale e per riprenderci il diritto di non essere uomini, di ascoltare il nostro corpo e seguire i nostri cicli naturali, mentre in India, così come in Africa, stanno ancora cercando di emanciparsi da tutto ciò che questo comporta. È un processo. D’altronde Baudrillard, ne La società dei consumi, diceva già nel ‘70 che quando le fasce sociali più basse avrebbero iniziato a mangiare carne tutti i giorni, ad abusare della carne, i nobili sarebbero già stati tutti vegani.
Detto questo, gli assorbenti e i pannolini incidono brutalmente sul nostro ecosistema e, tasse o non tasse, sarebbe meglio optare per altre soluzioni. Oggi si stima che una donna nell’arco della sua vita ne utilizzi almeno 12mila. Solo in Europa 90 milioni di donne ne consumano 24 miliardi all’anno, 2.6 miliardi per quanto riguarda l’Italia, che vanno ad aumentare la mole enorme di rifiuti indifferenziati che non si possono riciclare. Nel nostro Paese produciamo ogni anno 700mila tonnellate di prodotti assorbenti monouso per la persona – pannolini per bambini, pannoloni, assorbenti e tamponi interni – che secondo i dati ISPRA 2013 rappresentano il 2,5% dei rifiuti solidi urbani.
Diciamo che se è vero che il sistema dimostra di non prendersi sostanzialmente cura delle donne, è anche vero che in questo caso le donne rischiano di essere affette dalla la cosiddetta sindrome NIMBY (Not In My Back Yard). Il nostro ecosistema finora ha fatto le spese della nostra “emancipazione” dal ciclo. Forse, visto che ormai se ne presenta la possibilità, sarebbe il momento di sfruttare questa battaglia sociale, che da molti viene considerata frivola e marginale, non solo per preservare il nostro stipendio – che ricordiamo è ancora inferiore, a parità di posizione lavorativa, a quello degli uomini – ma per pensare anche al bene comune.