Nel 1958, il sociologo e politico inglese Michael Young conia il termine “meritocrazia” con la pubblicazione di un saggio chiamato The rise of meritocracy. Si tratta di uno scritto distopico ambientato nel 2033, una sorta di “fanta-trattato” sociologico che descrive il funzionamento e i meccanismi dell’appena nato regime meritocratico, da poco insediatosi nel Regno Unito. Il popolo ha l’occasione di far parte di un sistema illuminato, strutturato attraverso una semplice equazione: quoziente intellettivo + sforzo = merito. È l’inizio di una nuova era, felice e giusta: a ogni individuo sarà assegnato un posto nella società in modo direttamente proporzionale al risultato dell’equazione. Chi è più intelligente degli altri e nella vita ha avuto i mezzi per affinare il proprio bagaglio culturale, merita di essere ricco e di appartenere ai vertici della scala sociale. In caso contrario, se l’equazione riporta un risultato basso, all’individuo spetterà un’occupazione più umile e la sua povertà non sarà più vista come un’ingiustizia, ma come espressione di un ordinamento scientifico giusto. Tutti meriteranno ciò che hanno, il ricco la ricchezza e il povero la povertà, e saranno felici dei loro posti assegnati.
La distopia di Young vuole far riflettere sull’apparente significato positivo del termine “meritocrazia”, mettendone in luce i suoi aspetti problematici. Che la politica abbia utilizzato questo concetto come sinonimo di uguaglianza è un dato di fatto, ma forse non si è accorta che, attualmente, un sistema come quello descritto da Young sarebbe piuttosto lontano dall’idea di giustizia sociale. Il talento e lo sforzo individuale hanno bisogno di mezzi economici per poter essere concretizzati, e chi ne è privo non ha uguali opportunità rispetto a chi ne disponde in abbondanza. Il successo è indissolubilmente legato anche alle facoltà economiche e l’idea che il merito sia sufficiente, più che un faro di giustizia sembra piuttosto un pozzo di incoerenza. La storia insegna che se sei ricco è molto più probabile che tu lo rimanga, mentre sei povero la lotta è lunga, faticosa e le possibilità di vincere sono poche. Siamo tutti uguali sulla carta, godiamo di pari diritti e pari libertà, tuttavia è innegabile che le disuguaglianze ci siano e si perpetuino di generazione in generazione. Le classi sociali non esistono più de iure, tuttavia sopravvivono de facto.
Nel 2016, i sociologi britannici Daniel Laurison e Sam Friedman pubblicano sull’American Sociologial Review uno studio sulla mobilità sociale nel Regno Unito. Lavorando su una grande quantità di dati, l’analisi si concentra su occupazioni normalmente considerate d’élite, cioè le più alte a livello manageriale e professionale, per comprendere quanto la classe di appartenenza influenzi la carriera lavorativa dell’individuo. È la prima ricerca su vasta scala che si focalizza sulle origini economiche e culturali dell’individuo e le dinamiche con cui si manifesta sono facilmente applicabili anche al di fuori dei suoi confini. Importante è comprenderne la sua applicabilità generale. I primi dati riguardano le differenze sociali che compongono chi riesce ad accedere ai cosiddetti top job – medicina, legge e finanza, in primis. Su un campione di 43.444 persone, il 26% ha origini familiari agiate, mentre solo il 9,5% proviene dalla working class. Inoltre, delle 63 occupazioni lavorative considerate “da gentleman”, alcune tendono a mantenere il privilegio di classe più di altre: l’ambito medico ad esempio, seguito da quello giuridico, finanziario e dei media sono i settori che più di tutti hanno un rapporto speciale con i discendenti di famiglie ricche.
Il problema non riguarda soltanto chi fatica a salire lungo una scala sociale sbilenca. Anche per quell’uno su mille che ce la fa le battaglie non finiscono e con molta probabilità dovrà presto fare i conti con un altro tipo di ingiustizia, il class pay gap. Si tratta della differenza, in termini di guadagno, tra individui che svolgono lo stesso lavoro ma possiedono origini sociali diverse. Il divario è causato da diversi fattori, come il tipo di istruzione, l’età, la nazionalità, il genere, il luogo di lavoro e la grandezza dell’azienda. Tuttavia, analizzando ogni variabile ed esaminando carriere pressoché identiche, il gap persiste: più di 11mila sterline in meno all’anno per chi lavora in ambito finanziario e proviene dalla working class; circa 9mila pound in meno per chi è occupato nei media o nel settore giuridico; più di 5mila sterline in meno per chi è medico. I dati sono ancora più preoccupanti se a un umile background si aggiungono altri fattori discriminatori, come l’essere donna. In questo caso il guadagno medio si riduce del 25% rispetto a quello di un uomo bianco e ricco in partenza – circa 14mila sterline in meno all’anno.
Se la società meritocratica inventata da Young fosse vera, il class pay gap non esisterebbe: quella semplice equazione permetterebbe un posto nel mondo perfettamente commisurato al merito, con guadagni identici per chi ottiene lo stesso punteggio. Nel mondo reale però, oltre a questo gap si aggiungono altre dinamiche, meccanismi sottili e nascosti, pregiudizi impliciti e più insidiosi. È quello che sostengono sempre i sociologi Friedman e Laurison, nel loro studio The Class Ceiling: Why it Pays to be Privileged, che muove da un concetto che ormai dovrebbe essere ben noto, il glass ceiling – letteralmente, “soffitto di vetro”, una metafora utilizzata per descrivere situazioni lavorative in cui lo sviluppo della carriera è ostacolato da una serie di discriminazioni riferite soprattutto a donne e minoranze etniche. Friedman e Laurison parlano di class ceiling, “soffitto di classe”, ovvero il simbolo di tutti quegli ostacoli che l’individuo proveniente da un ceto sociale più basso incontra nella vita personale e professionale. La base teorica del loro studio è la teoria di Pierre Bourdieu sull’habitus, ovvero quell’insieme di norme, abitudini, schemi cognitivi e convinzioni che riguardano un determinato gruppo sociale, che ne è influenzato e contribuisce a perpetrare. In questo modo, le classi sociali alimentano implicitamente le diseguaglianze.
Partendo da queste considerazioni, Laurison e Friedman hanno condotto una serie di sondaggi riferiti a 175 persone appartenenti a quattro ambiti lavorativi d’élite: una compagnia televisiva, una società di contabilità, uno studio di architettura e il mondo dello spettacolo. The Bank of Mum and Dad, “La banca di mamma e papà”, è il primo punto sul quale si soffermano: poter attingere alle risorse economiche familiari significa avere accesso a un’istruzione prestigiosa, poter accettare di svolgere tirocini non retribuiti o stage sottopagati. È un cuscinetto finanziario di grande importanza in quanto dà sicurezza e permette di dedicare il tempo necessario alla costruzione del proprio futuro. Chi ne è privo parte svantaggiato perché è costretto a fare scelte diverse, dettate dalla necessità economica.
Un ulteriore approfondimento è dedicato alle cosiddette sponsorship, cioè quei sistemi informali di relazioni all’interno di un’azienda attraverso cui un impiegato riesce a garantirsi la simpatia e la protezione di chi sta più in alto di lui, aumentando le proprie possibilità di avanzamento professionale. Anche queste relazioni sono influenzate da una serie di norme sociali che contribuiscono a bloccare l’ascensore sociale. Alla base c’è il concetto dell’omofilia, ovvero la generale tendenza a creare rapporti con chi è più simile a noi – che nei contesti di lavoro spesso si traduce in una comune origine sociale. Quelli di sponsorship sono rapporti basati più che altro su simpatia reciproca e interessi condivisi, che difficilmente esisterebbero se le classi sociali di chi è coinvolto non fossero molto simili tra loro. Se i top jobs continuano a essere il bacino di raccolta di chi è già benestante di suo, è normale che un meccanismo del genere avvantaggi i privilegiati. Chi tende a essere escluso, infatti, ha origini più povere.
Il class ceiling è influenzato poi da una serie di codici comportamentali non scritti: come interagiamo con gli altri, con che accento parliamo, quale gestualità ci esprimiamo e che tipo di estetica rappresentiamo. Negli ambienti lavorativi d’élite prevale una studiata informalità che si concretizza in un generale senso di raffinatezza, inevitabilmente e culturalmente legato alle classi sociali più ricche. Le interviste di quanti provengono dalla working class, però, dimostrano quanto pesi lo stress generato dal non sentirsi adatti nel proprio posto di lavoro, dal vivere ogni giornata con l’ansia da prestazione e dal sentirsi costretti a fingere per allinearsi a un “atteggiamento dominante”. Sono meccanismi, questi, che in ultima analisi portano alla convinzione di non valere abbastanza per fare il salto verso l’alto, di non essere all’altezza per competere. È un condizionamento forte che finisce spesso in una triste auto-eliminazione: si rinuncia a salire la vetta perché si presagisce un fallimento certo.
Gli studi dimostrano che parlare ancora di merito senza intervenire sulle disuguaglianze sociali è vuota retorica. L’ideale individualista per cui il successo e il fallimento sono solo questioni di responsabilità personale si scontrano con la spicciola realtà. Di soluzioni facili non ne esistono, specialmente se il problema è così complesso, ma continuare a cantare la serenata della meritocrazia ci fa distrarre da un’effettiva presa di coscienza sulle dinamiche sociali. Sarebbe più concreto agire per una suddivisione più equa delle ricchezze e per la transizione verso sistemi di tassazione progressiva. Gioverebbero poi all’intero sistema lo sviluppo e il miglioramento di servizi pubblici universali e gratuiti, come l’educazione, la sanità e la protezione sociale.
Se quella descritta da Michael Young è una distopia, quella di una presa di coscienza collettiva sembra a tutti gli effetti un’utopia, ma senza un cambiamento che miri all’abbattimento delle disuguaglianze, parlare ancora di merito è come urlare nel deserto: inutile.