Fra 5 anni avremo 45mila medici meno del necessario. Ma i neolaureati sono costretti a emigrare.

In Italia il sistema sanitario nazionale ha, da sempre, i suoi alti e bassi: secondo la classifica Bloomberg Healthcare efficiency 2018, che analizza il rapporto tra spese e aspettativa di vita nei diversi Paesi, l’Italia si colloca al quarto posto nel mondo per efficienza e costi del sistema sanitario, superata solo da Spagna, Singapore e Hong Kong. Questo primato positivo è sempre più minacciato dai numerosi casi di malasanità, dalle aggressioni in aumento al personale medico nei reparti di pronto soccorso e dalle lunghe liste d’attesa per le prestazioni sanitarie specialistiche (nel 2018, il 36% degli utenti ha dovuto aspettare dai 60 ai 120 giorni per una visita). Negli ultimi anni è emersa una nuova criticità con la mancanza di medici: in tutto il Paese scarseggiano sia gli specialisti in ambito ospedaliero, sia di quelli che entrano nel sistema di medicina generale, comunemente noti come  medici di base.

Secondo la Federazione dei medici di medicina generale (Fimmg), e l’Associazione dei medici e dirigenti del Servizio sanitario nazionale (Anaao Assomed), tra 5 anni in Italia ci saranno 45mila medici in meno, che diventeranno oltre 80mila tra dieci anni, principalmente a causa dei pensionamenti. Per Anaao Assomed la causa va trovata nella mancanza di un turnover generazionale e nel cosiddetto “imbuto formativo”, che impedisce ai giovani medici di accedere alle scuole di specializzazione. Nonostante le polemiche che si ripresentano all’inizio di ogni anno accademico, la carenza di medici non è dovuta al numero chiuso previsto per le facoltà di medicina, ma a quello che impedisce ai medici appena laureati di proseguire gli studi e fare pratica.

Un report Anaao Assomed ha stimato che ogni anno si laureeranno circa 10mila nuovi medici, ma il numero di contratti per la formazione post laurea è di molto inferiore. Già adesso i giovani laureati sono costretti ad aspettare per più anni di fila l’ammissione alle scuole di specializzazione o a lasciare l’Italia per altri Paesi europei, in particolare Regno Unito, Germania, Svizzera e Francia. Per contrastare una situazione che spinge annualmente 1500 medici a lasciare l’Italia per non farvi più ritorno, con un danno stimato di 225 milioni di euro, la Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo) ha avviato in diverse città una campagna di sensibilizzazione dal titolo Offre l’Italia.

A questo punto bisogna fare una distinzione tra medici ospedalieri e medici di base, perché sono diverse le modalità di accesso alla formazione post laurea. Per quanto riguarda i medici di base, attualmente solo quelli laureati prima del 1995 possono esercitare la professione senza ulteriori titoli di studio, mentre per gli altri è necessario un diploma di formazione specifica in medicina generale, che prevede poi l’inserimento nelle graduatorie regionali. Non essendo una vera specializzazione, non è organizzata dalle università. Per accedervi è necessario superare un concorso bandito una volta all’anno dal ministero della Salute e organizzato dagli assessorati regionali.

Le regioni si occupano anche di gestire i corsi che durano tre anni, sono a numero chiuso e hanno un numero di posti che varia da regione a regione: sommandoli non sono comunque più di mille, mentre si contano 3mila medici di base che ogni anno vanno in pensione.  Secondo i dati Eurostat, In Italia ci sono 88,9 medici di base ogni 100mila abitanti, contro i 235 dell’Irlanda e i 168 della Germania. Il loro numero ridotto ha ripercussioni anche sul sovraffollamento nei pronto soccorso, dato che sempre più cittadini li scelgono al posto di recarsi negli ambulatori dei medici di base. Il 49% dei medici italiani, inoltre, ha più di 55 anni, mentre resta molto basso il numero dei medici di base laureati da meno di 6 anni: nel 2012 erano appena 69 in tutta Italia, meno dell’1% del totale.

La situazione è ancora più complicata per i medici ospedalieri, dato che prima di esercitare la professione sono tenuti a frequentare una scuola di specializzazione, che può durare dai tre ai cinque anni, a seconda dell’indirizzo scelto. Per essere ammesso alla specializzazione, un medico deve vincere un concorso nazionale indetto dal ministero dell’Istruzione e ottenere una borsa di studio. Solo una volta ottenuta la specializzazione, può partecipare ai concorsi per essere assunto negli ospedali. In Italia le scuole di specializzazione gestite dalle Università sono molte, ma non tutte sono all’altezza del loro compito, per la scarsità di docenti oppure perché non hanno i requisiti minimi di qualità scientifica richiesti dalla legge in termini di pubblicazioni. Nei casi più gravi le strutture non hanno servizi adeguati per l’insegnamento: alcune scuole di specializzazione in medicina d’urgenza vengono attivate in ospedali dove non è presente il reparto di pronto soccorso, rendendo di fatto impossibile la pratica.

Come per i medici di base, resta quindi il problema dei numeri:  secondo i dati del ministero dell’Istruzione, nell’anno accademico 2017/18 i posti disponibili nelle scuole di specializzazione erano 6.934, mentre quest’anno dovrebbero arrivare a 8mila. Per la Cisl medici, però, ne servirebbero almeno 11mila per evitare o almeno ridurre l’imbuto formativo e assicurare il giusto numero di medici per il funzionamento del servizio sanitario. In alcune regioni la carenza di medici raggiunge le migliaia di unità: la Sicilia nel 2025 avrà 2.251 dottori in meno, il Piemonte 2.004, la Lombardia 1.921, la Toscana 1.793 e la Puglia 1.686.

Per alcune regioni la penuria di medici è un’emergenza già in corso, tanto che si stanno cercando nuove soluzioni per far fronte al problema: la regione Veneto ha approvato a marzo una delibera che autorizza le aziende sanitarie a stipulare contratti a tempo determinato con medici in pensione per colmare le carenze di personale. La stessa formula è stata scelta in Molise, dove si valuta anche l’impiego di medici militari. Sempre in Veneto, seguendo l’esempio dell’ospedale di Treviso, si sta pensando di assumere medici stranieri, normalmente esclusi dai concorsi pubblici perché privi della cittadinanza italiana. In Toscana, invece, dove mancano 147 dirigenti medici di medicina d’urgenza, la Regione ha approvato una misura straordinaria che permette di assumere, con contratti a tempo determinato, medici neolaureati, e quindi privi di specializzazione, nei reparti di pronto soccorso. Il segretario nazionale del sindacato Anaao Assomed si è detto preoccupato che un precedente del genere possa portare a una nuova forma di sanità low cost, in cui i rischi sono tutti a carico del lavoratore.

Per alcuni direttori di scuole di specializzazione, affidare il lavoro in pronto soccorso a neolaureati è “sconcertante”, per via della loro scarsa competenza, impossibile da acquisire mentre si lavora avendo a che fare con decisioni immediate che possono avere un grave impatto sui pazienti. Il presidente della commissione sanità in Regione Toscana, Stefano Scaramelli ha sostenuto che “Un’emergenza, come quella della carenza di organico sia di personale medico che infermieristico va affrontata come tale. É necessario quindi che venga considerata una priorità e bisogna agire velocemente, senza ricorrere a procedure troppo lunghe”.

L’emergenza che stanno affrontando diverse amministrazioni regionali è dovuta anche al tetto di spesa per il personale sanitario imposto alle Regioni con la legge finanziaria del 2007, che ha limitato le nuove assunzioni. Il blocco è stato abolito con il Decreto Calabria, approvato lo scorso 30 maggio per far ripartire le assunzioni nella sanità. Un’altra criticità che dovrà risolvere il governo nell’immediato futuro è il calo del numero di medici disposti a lavorare nella medicina d’urgenza, sia per i turni massacranti che per gli stipendi, più bassi rispetto alla media europea.

Il sindacato ha già proposto delle soluzioni, ma la maggior parte prevedono tempi lunghi di attuazione: attivare nuovi concorsi per l’assunzione a tempo indeterminato, sbloccando gli impedimenti economici e legislativi, o incrementare i contratti di formazione post laurea richiede tempo a causa di diversi vincoli burocratici. La via più facilmente percorribile nel breve periodo sembra essere quella seguita in Toscana con l’assunzione di neolaureati, a patto che, come richiede il sindacato, venga previsto un contratto di formazione/lavoro che porti i giovani medici ad acquisire il titolo di specialista. Solo così sarà possibile ringiovanire l’ambiente medico e intervenire in una situazione che nei prossimi anni rischia di diventare una vera emergenza per un Paese dove l’età media della popolazione (con i problemi di salute che seguono) continua ad aumentare.

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