Acclamati come angeli ed eroi quando ne avevamo bisogno, di medici e infermieri non frega più a nessuno
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Nella fase iniziale dell’epidemia, quella in cui gli italiani erano convinti di essere diventati buoni e che una presunta magnanimità avrebbe sistemato tutto, abbiamo ascoltato discorsi pieni di retorica in cui medici, infermieri e operatori socio-sanitari venivano definiti come eroi. Le categorie direttamente interessate però si sono smarcate in fretta da questo titolo altisonante: è il nostro lavoro, lo svolgiamo anche quando non ve ne accorgete. Con il passare dei mesi, a dimostrazione di quanto fossero vuoti questi discorsi, infatti, non c’è stata nessuna azione che andasse a riconoscere la loro importanza per il Paese, e quelli che chiamavamo eroi sono tornati nei ranghi dell’invisibilità.

Mai come in questo caso, mitizzare equivale a disumanizzare. L’eroismo di un medico o di un infermiere, per lo meno nell’immaginario collettivo, non risiede nelle sue competenze, bensì nel pathos del martirio, nella distorsione della stessa professione. Un medico è un angelo quando ha la faccia sporca di sangue o si dispera battendo i pugni contro il muro per la morte di un paziente; l’infermiere lo è se collassa su una sedia dopo dodici ore di lavoro bardato da tute, guanti, mascherine e lacrime di sofferenza. La loro immagine, enfatizzata dal popolo per conferirle sacralità, si frantuma quando viene intervistato il primario un po’ stronzo, quando il virologo di turno dice la sua in televisione, quando l’infermiera risponde con toni burberi alle insistenze dei visitatori all’ospedale: quando, senza giri di parole, escono dalla narrazione cinematografica e appaiono in tutta la loro umanità.

Durante la fase acuta dell’emergenza abbiamo creato questa immagine perché ne avevamo bisogno. La nostra vita dipendeva dalle loro mani – e tecnicamente è così sempre, anche al di fuori della crisi che abbiamo vissuto – e inoltre vi era un senso di compassione nei loro confronti indirettamente proporzionale alla gerarchia che rivestivano in ospedale. Questo meccanismo di pensiero ha portato tutte le categorie (dall’ultimo dei soccorritori al più rinomato luminare della medicina) a subire lo stesso destino: adesso sono condannati all’indifferenza quelli che stanno più in basso e all’odio i nomi grossi.

I primi a dimostrare questa ipocrisia sono stati i politici. Fin dai primi casi di contagi si sono premurati di inserire “gli eroi degli ospedali” in tutti i discorsi di ringraziamento, ma fuori dal politichese e dagli elogi fini a se stessi non hanno saputo garantire un’adeguata sicurezza per il loro lavoro. Il 17 marzo, in piena emergenza e dopo settimane di battaglie in corsia, la Federazione nazionale degli Ordini dei medici denunciava però l’inadeguatezza, e in certi casi addirittura l’assenza, di kit protettivi, chiedendo a gran voce l’estensione del tampone a tutto il personale sanitario, in una fase in cui per i politici c’erano corsie preferenziali – anche per casi asintomatici – mentre medici e infermieri avevano la strada sbarrata. Le proteste più veementi sono arrivate in Lombardia, regione che per settimane ha lasciato i medici di base allo sbaraglio, senza direttive precise e disposizioni a livello regionale, con gli operatori sanitari esposti al rischio senza le dovute protezioni. Un mese dopo, ad aprile, gli Ordini dei medici della Lombardia hanno scritto una lettera per denunciare “l’evidente assenza di strategie relative alla gestione del territorio”. Ma Fontana e Gallera durante le conferenze stampa ringraziavano i medici, come se fosse un modo per pulirsi la coscienza.

Durante l’emergenza sono stati arruolati diversi specializzandi, giovani medici che sono stati gettati in prima linea per fronteggiare il COVID, rendendo la loro laurea abilitante. Questo è capitato in una situazione straordinaria, ma non deve distogliere l’attenzione dall’iter farraginoso che gli specializzandi devono seguire: lo scorso anno, su quasi 20mila richieste, c’erano soltanto 9mila posti a concorso. L’ultimo Decreto Rilancio ha aumentato i posti disponibili a 12mila e 500, ma gli aspiranti sono circa 23mila. Il timore è che la richiesta di più borse di studio e specialisti negli ospedali cada ancora una volta nel vuoto, e per tale motivo gli specializzandi hanno protestato nelle piazze di diverse città. Come se non bastasse, hanno dovuto subire l’onta di essere additati come untori. È il caso di un recente articolo del Corriere della Sera che, parlando del mini focolaio esploso al Niguarda di Milano, ha posto l’attenzione sul “contagio iniziato tra gli specializzandi e poi diffuso tra medici e infermieri”, aggiungendo le parole di fonti anonime: “I ragazzi probabilmente stanno vivendo le prime settimane della Fase 2 con troppa leggerezza”. Queste accuse non solo non hanno trovato alcun riscontro, ma sono state smentite dal Niguarda stesso, che ha chiarito che non esiste alcun “caso specializzandi”. Nel Paese in cui vige la regola della ricerca del colpevole, era troppo facile accusare dei giovani sottopagati e senza contratto, e così è stato fatto.

È un po’ questo il vezzo principale della politica italiana: accorgersi dei problemi quando la casa è già in fiamme. L’esempio principale è l’aumento dei posti in terapia intensiva a livello nazionale soltanto in seguito all’emergenza COVID. Prima erano 5.579, adesso 9.284, per un incremento del 79%. Uno sforzo importante, che però fa aumentare il rammarico per i tagli alla Sanità dei decenni passati, mentre altre nazioni europee seguivano la direzione opposta. La Germania poteva già contare infatti su 28mila terapie intensive, più di cinque volte quelle che noi avevamo fino a qualche mese fa, e circa il triplo di quelle che abbiamo adesso. Il successo teutonico nell’affrontare il COVID dunque non è dipeso dalla qualità dei loro medici, ma delle loro strutture. Noi, al contrario, possiamo sfoggiare eccellenze nel campo della medicina, ma inserite in strutture fatiscenti e schiacciate da una burocrazia sanitaria che pone l’Italia a un livello nettamente inferiore. I medici non se ne fanno niente dei complimenti dei politici, quando poi sono costretti a lavorare con dispositivi scadenti, poche mascherine o ritardi enormi per i tamponi.

Per gli infermieri la situazione è ancora più allarmante. Negli scorsi giorni sono scesi nelle piazze di tutta Italia per il trattamento che hanno ricevuto durante e dopo l’epidemia. Nonostante le promesse dei politici, l’intera categoria continua a trovarsi in una condizione economicamente inferiore rispetto agli standard europei, cioè un livello di retribuzione più basso del 40% sulla media continentale. Gli infermieri chiedono inoltre che venga rinnovato il contratto – scaduto nel dicembre 2018 – e che vengano riconosciuti i loro diritti fuori dalla politica dei bonus, quella attuata al momento dalle singole regioni, in modo più o meno generoso. D’altronde chiedono che vengano riconosciute semplicemente le loro competenze, la professionalità, e non un eroismo dipinto da chi si nutre di parole e spot elettorali. Il cambiamento deve tradursi in un’azione sistemica, non in un bonus o in qualunque altro contentino.

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha provato a lanciare un segnale forte qualche giorno fa, insignendo dell’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica diversi cittadini che si sono distinti nella lotta contro il virus, e tra questi spiccano anche medici e infermieri. Ma la stessa nota del Quirinale spiega che le menzioni “vogliono simbolicamente rappresentare l’impegno corale nel nome della solidarietà”, e l’impegno è quello di trasformare un titolo simbolico in un riconoscimento effettivo dei meriti per la professione svolta, ovvero stipendi adeguati, strutture migliori dove lavorare e prospettive più rosee. Perché un giovane laureato chiede un contratto, non il certificato di supereroe.

Siamo il Paese dalla memoria corta, quindi è facile prevedere il solito stallo all’italiana, con i contratti dei lavoratori non rinnovati e gli specializzandi lasciati nel loro limbo. I medici servono soltanto al momento del bisogno, come quando sono stati richiamati anziani già in pensione o assunti ragazzi per mettere una toppa alla voragine dell’emergenza. Abbiamo già dimenticato un dramma che non è stato nemmeno sconfitto del tutto: lo notiamo per i politici che scendono in piazza togliendosi la mascherina e senza rispettare le distanze, oppure per i negazionisti che considerano il virus un’invenzione, sputando sopra il sacrificio di chi ha perso la propria vita per salvare quelle degli altri. Alterniamo retorica e cinismo, beatificazione e pubblico ludibrio, e tutto nel giro di poche settimane. Se malauguratamente dovesse arrivare la seconda ondata in autunno, all’improvviso medici e infermieri tornerebbero necessari, santi d’Ippocrate da venerare per la propria salvezza. In caso contrario, l’eroismo si sgonfierebbe fino ad assumere i contorni della totale indifferenza, e nessuno scatterebbe fotografie in bianco e nero alle infermiere stremate.

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