A fine agosto 2019, due donne trans italiane sono state trattenute all’aeroporto di Sharm El Sheik a causa dei loro documenti d’identità non ancora rettificati. Le foto corrispondevano al loro aspetto, ma i nomi no. Non è la prima volta che delle donne trans italiane incontrano problemi non solo burocratici negli aeroporti egiziani, e in particolare a Sharm El Sheik nell’ultimo anno questi casi si sono intensificati.
Nel dare la notizia la maggior parte dei giornali italiani ha riportato i nomi anagrafici con la formula “deadname/nome d’elezione/cognome”. Alcuni poi hanno rettificato ma solo in un secondo momento. Il cosiddetto “deadname” rappresenta all’interno della comunità il vecchio nome anagrafico, ormai un nome che non corrisponde più all’identità della persona transessuale. Parlare di deadname, infatti, è proprio un modo per sottolineare lo stato di abbandono di quel nome particolare. Da questa vicenda emergono tre diversi ordini di problemi: quello burocratico e legale, quello della corretta narrazione giornalistica e quello della conseguente integrazione sociale.
In Italia è permesso cambiare i documenti tramite una procedura legislativa. Non grazie all’unica legge, la 164 del 1982, che permette il cambio anagrafico solamente in seguito alla riassegnazione chirurgica dei genitali, ma in seguito a una sentenza della Corte di Cassazione (sentenza n. 15138/2015) e dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 221/2015) che prevede la rettifica dei documenti anche senza riassegnazione chirurgica dei genitali. Una rettifica che modifica i documenti sin dall’estratto di nascita, per cui tutte le informazioni anagrafiche vengono riconvertite al sesso opposto (in questo ambito non esiste una distinzione tra sesso e genere) a partire dal codice fiscale, intorno a cui ruotano i rapporti del cittadino con la pubblica amministrazione e l’accesso ai relativi servizi, ma anche quelli con gli enti privati per la gestione delle utenze e dei servizi bancari.
La sentenza ha un grande valore non solo simbolico poiché istituzionalizza sul piano giuridico la disgiunzione tra genitali e genere. La procedura per rettificare i documenti con nome e genere scelto è piuttosto lunga e per portarla a termine sono necessari almeno due anni. In allegato alla richiesta, da presentare al giudice per essere approvata, bisogna presentare una relazione medica che attesti la cosiddetta disforia di genere – che è il nome con cui viene prima formalizzata e poi indicata in ambito psichiatrico l’esperienza trans. E per fare tutto ciò bisogna ovviamente essere assistiti da un legale. Nel frattempo, si continuano a subire discriminazioni di ogni genere, dalla comune ricerca di un lavoro, al viaggiare tranquillamente in Paesi che hanno una gestione della popolazione LGBTQ+, residente e non, problematica, ma anche soltanto alle poste o in qualsiasi occasione in cui sia necessario mostrare i documenti e verificare una corrispondenza tra il nome e l’immagine presente su quelli e ciò che si è.
Per quanto riguarda poi le convenzioni linguistiche: per quanto ad alcune persone cisgender – nate con il genere di appartenenza coerente con il sesso assegnato alla nascita – possa apparire ininfluente, nel percorso di autodeterminazione di una persona trans l’essere nominata pubblicamente con il proprio nome e non con il deadname è piuttosto importante. Costituisce, infatti, una sorta di tutela e al contempo il riconoscimento e il rispetto (seppur esclusivamente formale) del genere scelto dalla persona stessa. Quando nel giornalismo viene citato il deadname, per soddisfare il gusto del gossip o per semplice mancanza di attenzione nei confronti del problema, l’autodeterminazione della persona trans viene esplicitamente calpestata, reiterando la divulgazione di un particolare anagrafico che generalmente non si desidera rendere pubblico e che può portare a ulteriori discriminazioni. Inoltre, data la sentenza della Cassazione già citata, per chi ha eseguito la rettifica, questa scelta rischia di compromettere il rispetto della privacy. Per chi invece non ha optato per questo percorso, la pratica più corretta, se proprio si vuole, è quella di citare semplicemente l’iniziale puntata del deadname.
Qualche settimana dopo l’episodio di Sharm El Sheik, L’Espresso ha pubblicato un articolo dal titolo “Sono transessuale e mi prostituisco: per donne come me cercare lavoro è una farsa”. Ancora una volta, il pezzo vuole essere una denuncia, ma fa l’errore di perpetrare uno stereotipo discriminante che è quello dell’accostamento obbligatorio tra esperienza trans e prostituzione. È vero che questo è stato in molti casi un dato di fatto importante nella storia del movimento trans italiano e non va dimenticato, proprio perché le donne trans che hanno portato nei primi anni Ottanta alla legge 164 (del 1982) erano in gran parte sex worker, ma negli anni le cose sono cambiate e scindere questo collegamento è importante, proprio perché contribuisce ad ampliare l’orizzonte in cui le donne e gli uomini transessuali possono integrarsi senza subire discriminazioni derivanti da luoghi comuni e narrazioni tossiche.
Purtroppo questa analogia è vecchia di secoli ed è tuttora ben radicata nell’immaginario comune, nonostante la realtà sia cambiata, basti pensare ai “femminielli” napoletani, e alla più recente figura del viados, il “travestito brasiliano” che, nata negli anni, Ottanta si è rapidamente affiancata a quella del vu cumprà come esotizzazione disumanizzante. Proprio per questo oggi è così importante fare attenzione alle parole che si usano e non si può giustificare una scelta dettata dalla noncuranza nei confronti dell’argomento. Il titolo dell’articolo però non lascia dubbi sul valore morale del sex work, indipendentemente da quello che poi affermerà o disconfermerà la ragazza intervistata, difficilmente sarebbe stato pubblicato un articolo dal titolo “Sono transessuale e faccio la rider/volantinaggio/qualsiasi lavoro a cottimo”. Nulla evoca la discriminazione subita in quanto persona laureata che si trova a prostituirsi perché non valutata in base alle proprie competenze. Anche l’uso di “transessuale” è una scelta d’impatto, dato che è un termine che viene dalla psichiatria e quindi da un pensiero fortemente patologizzante e, nonostante sia stato utilizzato per anni anche dalle stesse persone trans, ormai è giusto sapere che non si usa più. Sarebbe più corretto, infatti, usare il termine ombrello “trans”, che include le molteplici ed emergenti identità, e soprattutto abbandona il riferimento etimologico al “sesso”, indicando semplicemente la transizione con le sue molte possibilità. Il genere, infatti, è stato a lungo erroneamente legato agli organi genitali, altro concetto in via di superamento. L’identità trans è culturalmente e storicamente dinamica e in evoluzione, quello che era certo e consolidato cento anni fa è stato stravolto negli ultimi cinquanta, venti, dieci, o anche solo cinque anni. Oltretutto “transessuale” viene usato come sostantivo e non come aggettivo, modalità che accentua unicamente il pregiudizio e la confusione. Il modo corretto è “la” trans nel caso di persona che ha scelto il genere femminile ed era nata con genere assegnato maschile e “il” trans viceversa.
Tutto l’articolo ruota poi unicamente intorno all’esperienza dell’intervistata, senza porre il problema in una cornice più ampia, con più racconti che comprendano, per esempio, i dati della disoccupazione della fascia d’età della protagonista. Si è preferita una narrazione vittimista e senza speranze, che denuncia, sì, ma allo stesso tempo non lascia via di scampo. Questo articolo è l’ennesimo esempio della concezione univoca e stantia che si ha in Italia delle persone trans: vittime del sistema, isolate, senza lavoro, senza prospettive e spesso psichiatrizzate. La narrazione dei corpi sbagliati, in cerca di espiazione attraverso il dolore come processo necessario di catarsi per la rinascita e la relativa tollerabilità sociale. È una visione sicuramente non del tutto erronea, ma non è l’unica e si ferma sulla superficie di una visione fortemente emotiva.
La vita delle persone trans, nella maggior parte dei casi, non è semplice, non per il gusto della tragedia ma per l’enorme fatica che devono sopportare per riuscire a vivere e a inserirsi in una società che per lo più non è disposta a contemplarne l’esistenza, se non discriminandole o vittimizzandole. Negli ultimi tempi poi si sta facendo largo un nuovo tipo di narrazione positiva, antitetica a questa ma per certi versi altrettanto tossica: quella della persona trans di successo, che “nonostante tutto” ce l’ha fatta. In genere sono persone del mondo dello spettacolo e della moda. Una modella che diventa testimonial, un’attrice che per la prima volta finisce sulla copertina di una rivista, un’altra attrice (e imprenditrice) che conduce un dibattito presidenziale. Chi è riuscito a ritagliarsi un posto nello showbiz, per fortuna o privilegi, può sperare di arrivare sempre più in alto (anche grazie a un passing eccellente, cioè meno trans sembri più hai probabilità di successo). Probabilmente questo è un passaggio inevitabile, ma resta ininfluente, perché come accade per le donne cisgender, non fa che discriminare ancora di più chi non rientra in quei canoni di bellezza e “integrazione”, ovvero normalizzazione eteropatriarcale binaria (un mondo rassicurante fatto di maschi e femmine belli, sani, ricchi e possibilmente etero).
Tra i vari fallimenti e successi ci sarebbero anche narrazioni normalizzanti, come Storie di genere, il programma condotto da Sabrina Ferilli, che nell’eliminare trasgressioni e pruderie, appiattisce però tutto a storie di drammi familiari, di gente comune. A quanto pare, l’unico modo non sessualizzante o denigratorio di parlare di persone trans sembra essere il dolore che provano e che infliggono alle loro famiglie. Purtroppo è noto che viviamo nell’epoca della “tv del dolore” e che la spettacolarizzazione sia la base dell’attuale intrattenimento e non si può nemmeno negare che il tentativo di far empatizzare le persone con la persona trans attraverso la pornografia della sofferenza sia comunque un modo più apprezzabile della spettacolarizzazione del “freak”. Eppure abbiamo il diritto di pretendere qualcosa di meglio, soprattutto nel mondo di quella che dovrebbe essere l’informazione mediatica e non la tv spazzatura. È tempo di superare questi vecchi paradigmi e accogliere la fluidità di questi tempi, adeguando anche il nostro linguaggio, in modo da narrarne la complessità, le possibilità ed eventualmente i problemi concreti, invece che appiattire tutto per ignoranza o mancanza di attenzione.