Anche quest’anno, nonostante tutto, gli studenti delle superiori affronteranno l’esame di maturità, la cui data di inizio è stata fissata per il 17 giugno, come ha annunciato, il 16 maggio, la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina. Queste date dovrebbero bastare a intuire il tempismo con cui il Miur ha chiesto, a più di 500mila ragazzi e ragazze, di prepararsi a sostenere un’interrogazione in presenza della durata di un’ora – in sostituzione delle tradizionali prove scritte.
Non c’è da stupirsi se gli studenti di tutta Italia stiano illustrando da mesi, attraverso il movimento “nomaturità2k20”, i motivi per cui questo esame “non s’ha da fare”. Uno di questi è la tempistica inaccettabile che ha accompagnato anzitutto l’obbligo della didattica a distanza, pervenuto solamente l’8 aprile, un mese dopo rispetto alla decisione di sospendere l’attività in aula per l’intero Paese, comunicata il 4 marzo. Sospensione che il governo ha continuato a reiterare con i decreti di marzo e aprile, dichiarando definitivamente concluse le lezioni in presenza – fino, si spera, a settembre – solamente durante la conferenza stampa in cui il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha illustrato le misure previste per la Fase 2, contenute nel Decreto Rilancio. Quel venerdì di fine aprile, il runner ha capito di poter correre ovunque oltre il perimetro della sua casa senza essere additato come untore dal vicino di turno affacciato alla finestra, e i lavoratori dei servizi essenziali hanno smesso di essere gli unici a recarsi fisicamente a lavoro. I maturandi, invece, si sono resi conto che gli studenti continuano a essere tra le categorie meno tutelate dal nostro governo e hanno dovuto attendere altre tre settimane per conoscere le inedite modalità di esame confezionate ad hoc dal ministero per la maturità 2020.
La buona notizia è che il Miur ha tentato di rendere l’esame più semplice, eliminando le prove scritte e sostituendole con un elaborato scelto dagli insegnanti di ciascuna scuola – con tracce diverse a seconda dell’indirizzo di studio – che è stato preparato individualmente a casa e inviato a una casella mail apposita. Per la prova orale, invece, verrà mantenuta l’interrogazione in presenza nelle aule scolastiche e sarà condotta – fatta eccezione per un presidente esterno – esclusivamente da commissari interni. L’esame dovrà svolgersi entro un tempo complessivo di circa un’ora, alla fine della quale verrà assegnato a ciascun allievo una valutazione unica. Il fatto che questa modalità di esame, annunciata – è il caso di ribadirlo – appena un mese prima e totalmente rivisitata rispetto agli anni precedenti possa essere considerata una buona notizia, se confrontata con gli effettivi punti critici della maturità di quest’anno, è tutto dire.
La cattiva notizia è che molti ragazzi, reduci da mesi di didattica a distanza improvvisata, che né loro né i professori erano minimamente pronti ad attivare, rischiano di arrivare impreparati al maxi-orale messo insieme dal Miur. Secondo l’Istat, Il 33,8% delle famiglie italiane non ha un pc o un tablet in casa, strumenti indispensabili per poter seguire le lezioni online. I più penalizzati sono i ragazzi del Sud, dove il 41,6% delle famiglie non possiede un computer e solo il 14,1% ha a disposizione almeno un dispositivo elettronico per ciascun componente del nucleo familiare. Inoltre, come fanno sapere gli studenti, non sono state adottate linee comuni da parte dei professori di tutta Italia, o addirittura all’interno degli stessi istituti: ciascuno ha utilizzato piattaforme differenti, come Zoom, e-learning o Skype, e non tutti hanno provveduto a organizzare delle video lezioni. Alcuni – soprattutto nel mese di marzo, quando ancora non era chiaro se sarebbe stato possibile rientrare a scuola – si sono limitati all’assegnamento di compiti per casa, mettendo a disposizione del materiale didattico che gli alunni sono stati costretti a studiare in maniera autonoma, da autodidatti, in una full immersion che ha occupato la quasi totalità del loro tempo in isolamento. In più, molti hanno denunciato la mancata comprensione di alcuni degli argomenti trattati durante le videolezioni, e una riduzione di quello che avrebbe dovuto essere il programma dell’anno, tutti fattori che hanno inevitabilmente compromesso la loro formazione.
Allo stesso tempo, i docenti delle nostre scuole presentano forti lacune nella formazione digitale. L’ultima relazione DESI, attraverso cui la Commissione Europea monitora la competitività digitale degli Stati membri dal 2015, indica che nel 2019 solo il 20% degli insegnanti in Italia ha effettuato corsi formativi in materia di alfabetizzazione digitale – promossi dal Miur nel “Piano nazionale di scuola digitale” – percentuale definita “un risultato modesto” rispetto ai report precedenti, lasciando intendere che il nostro Paese quattro anni fa – quando i maturandi frequentavano già il primo anno di scuole superiori – partisse da un livello ancora più basso in materia di competenze informatiche dei docenti. In più, i metodi di insegnamento tipicamente italiani erano già obsoleti tra i banchi, ignorando le ricerche che, da anni, invitano a un abbandono della didattica tradizionale in nome di modalità di apprendimento più innovative, tra cui una limitazione delle lezioni frontali, un incremento delle attività di gruppo e della formazione in laboratorio, l’utilizzo di nuove tecnologie e la formazione a distanza – tecniche considerate dagli studi sull’istruzione superiore che sarebbe ora di sperimentare anche negli istituti scolastici di ogni grado. Va da sé che il tentativo dei docenti di trasferire online le lezioni tradizionali, attraverso l’uso di strumenti digitali, a queste condizioni era da considerare un approccio fallimentare fin dal principio.
Alle problematiche già radicate nel nostro sistema scolastico si aggiungono quelle più strettamente collegate all’esame di maturità così come è stato strutturato quest’anno. Prime fra tutte, la conversione dei crediti finora accumulati durante il percorso di studi, relativo – come di consueto – all’ultimo triennio scolastico. Come si legge sul sito del ministero dell’Istruzione, è stato attribuito un peso maggiore nella determinazione del voto finale dell’Esame di Stato rispetto alla precedente normativa, elevando tale credito da quaranta punti su cento a sessanta punti su cento. Di questa conversione, alcuni studenti lamentano una ridotta possibilità di ambire a un voto alto o massimo durante il colloquio – problematica che, al contrario, non si presenta per chi ha già una media alta. Un altro punto che ha suscitato molta polemica è stato l’elaborato, giudicato incongruente dal Consiglio superiore della pubblica istruzione (CSPI), rispetto a quanto previsto dal decreto legge che dispone l’eliminazione delle prove scritte sostituendole con un unico colloquio. Secondo il CSPI, quello che si è scoperto essere un breve testo scritto sulle materie di indirizzo non valorizza sufficientemente tali discipline che, al contrario, avrebbero dovuto essere il principale oggetto d’esame. Inoltre, non si capisce la necessità di ri-discutere l’elaborato durante il colloquio in presenza: sarebbe stato preferibile – al fine di una più rigorosa verifica delle conoscenze – assegnare a ciascun candidato un argomento da presentare direttamente alla prova orale.
La questione che ha destato maggiore scalpore, però, è proprio lo svolgimento del colloquio in presenza, per cui il comitato tecnico-scientifico, insieme con il Miur e i sindacati di categoria, ha firmato un protocollo d’intesa contenente le misure di sicurezza per operatori e studenti volte a contrastare la diffusione dell’epidemia di COVID-19 – tra cui, per esempio, il mantenimento della distanza di due metri tra il candidato e ogni componente della commissione. Sono stati i docenti a esprimere maggiore dissenso nei confronti della prova orale. Questo perché, dati OCSE alla mano, in Italia gli insegnanti hanno in media 49 anni e il 48% dei maestri e professori italiani ha più di 50 anni, a causa di un sistema che fatica a mandarli in pensione e lasciare il posto a chi è più giovane di loro. Non è sorprendente dunque che, sempre secondo l’OCSE, solo il 47% degli insegnanti italiani faccia utilizzare “frequentemente” o “sempre” strumenti digitali per progetti e lavori in classe. Così come non sorprende che, con un virus ancora in circolazione che colpisce gli over 50 per il 72% dei casi – fascia di età che registra anche i maggiori eccessi di mortalità – già dal mese scorso risultavano scoperte circa 2mila commissioni. Dopo un mese, e a due settimane scarse dagli esami, la carenza si è ridotta al 9%, quasi 1.200 poltrone. A mancare, sono i cosiddetti “lavoratori fragili”, che il Decreto Rilancio definisce “maggiormente esposti a rischio di contagio, in ragione dell’età o della condizione di rischio derivante da immunodepressione, anche da patologia COVID-19, o da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o comunque da comorbilità che possono caratterizzare una maggiore rischiosità”. Per questo, la ministra Azzolina ha previsto due soluzioni: la prima, è quella disposta dall’ordinanza ministeriale concernente gli esami di Stato nel secondo ciclo di istruzione, con cui il presidente potrà disporre “la partecipazione degli interessati in videoconferenza o altra modalità telematica sincrona” – gli studenti potrebbero quindi scoprire di dover interloquire, in parte, con dei computer. La seconda, più recente, è quella di permettere anche a ricercatori e docenti universitari di partecipare agli Esami di Stato a tempo determinato.
Delle alternative sono state previste anche per gli studenti con disabilità, già penalizzati da un sistema incapace di garantire loro livelli di accessibilità e continuità didattica accettabili, le cui problematiche sono state accentuate dall’attivazione della didattica a distanza. Per loro, il consiglio di classe potrà scegliere, in base alle specificità del PEI (Piano educativo individualizzato) se esonerare lo studente dalla prova in presenza, stabilendo la modalità in videoconferenza come alternativa, o permettergli di svolgere l’esame in aula accompagnato da un assistente.
Il problema di questo Paese è che gli studenti, come giustamente puntualizzano i fondatori di “nomaturità2k20”, non vengono mai trattati da interlocutori in qualsivoglia discussione li riguardi, dai metodi di studio, al sistema dei voti, fino agli esami che sono tenuti a sostenere. Questo è il motivo per cui molti ragazzi si sono mobilitati, attraverso scioperi della didattica a distanza e petizioni, per far sì che il governo annullasse l’esame di Stato per il 2020. La soluzione, secondo i ragazzi, sarebbe dovuta essere una valutazione alternativa, da effettuare, per esempio, calcolando la media dei tre anni e moltiplicandola per 10, con un massimo di 10 punti bonus per raggiungere anche la lode – un metodo molto simile è stato adottato dal Regno Unito e dall’Olanda, che hanno infatti annullato i loro esami finali.
L’altro problema, fondamentale, riguarda il significato che viene attribuito all’adolescenza, un periodo della vita ancora sottovalutato, per troppo tempo considerato un semplice momento di transizione tra l’infanzia e l’età adulta, mentre invece è un importante trampolino di lancio, come lo definisce lo psicoterapeauta Grahm Music in Nurturing Natures. L’adolescenza è un momento particolare nell’evoluzione di ciascun individuo, in cui si viene colpiti da un turbinio di dubbi e riflessioni sulla propria identità e sul proprio futuro, che ci porta a definire chi siamo e chi vogliamo diventare. L’esame di maturità ha sempre rappresentato nell’immaginario comune la soglia tra questa fase e l’età adulta. Magari si poteva sfruttare questa condizione particolare per rivedere le nostre credenze e riconoscere che forse sopravvalutiamo l’importanza degli esami e dei voti. Poteva essere l’occasione per riflettere su alcuni punti centrali della nostra pedagogia, che continua a rifarsi a visioni sorpassate che non fanno che ampliare il divario sociale. A essere incolpati di eventuali negligenze però non dovrebbero essere i ragazzi, abbandonati a loro stessi e in balia del sistema, ma la persona che ha definito l’Esame di Stato “un momento importantissimo” che sarebbe ingiusto “togliere agli studenti”, senza però considerare lo stato psicologico degli allievi e le condizioni di disparità in cui molti di essi si trovano, che rendono assurdo qualsiasi pensiero a sostegno della meritocrazia, e questa persona purtroppo è proprio la nostra ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina.