Domenica scorsa la Svizzera ha confermato con un referendum la legge sul matrimonio egualitario, approvata dal parlamento a dicembre del 2020. La legge, infatti, era stata contestata dai partiti conservatori che avevano raccolto le firme necessarie per sottoporla a un referendum confermativo, che ha avuto esito positivo con una larga maggioranza: due terzi degli elettori si sono espressi a favore del provvedimento, che diventerà effettivo il prossimo luglio. In questo modo la Svizzera è diventata il trentesimo Paese al mondo a permettere il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Dopo la decisione dei nostri vicini, l’Italia è diventata infatti l’unico Paese dell’Europa occidentale a non consentire il matrimonio egualitario. Nel nostro Paese sono regolate soltanto le unioni civili, introdotte dalla legge Cirinnà nel 2016. Con questo istituto giuridico, lo Stato riconosce le coppie formate da persone dello stesso sesso, ma con alcune differenze rispetto al matrimonio. Dal punto di vista economico non c’è niente di diverso: gli uniti civilmente possono chiedere la comunione o la separazione dei beni e possono godere dello stesso trattamento fiscale delle coppie sposate, oltre dei diritti di successione e della pensione di reversibilità in caso di morte del partner. Esistono però altre importanti differenze che, partendo da un piano simbolico, si ripercuotono su quello materiale rendendo i due istituti molto diversi.
Per le unioni civili, ad esempio, non vige il vincolo di fedeltà, una mancanza che sembra sottintendere che le relazioni omosessuali siano in qualche modo più promiscue o comunque diverse da quelle sposate, i cui capisaldi sono sempre stati – almeno in linea teorica – la monogamia e la fedeltà. L’assenza di questo vincolo equivale a dire che le unioni civili non possono, in sostanza, essere equiparate al matrimonio, un’istituzione nata per la trasmissione certa e patrilineare del patrimonio familiare in cui la paternità dei figli non deve mai essere dubbia. Anche se oggi il matrimonio ha perso in gran parte questo valore sociale, gli articoli del codice civile che lo regolano hanno per oggetto proprio aspetti come la fedeltà coniugale e il sostentamento dei figli. Nelle unioni civili, poi, manca anche l’obbligo di collaborazione tra i coniugi nell’interesse della famiglia e lo scioglimento è più semplice rispetto al matrimonio: non è infatti prevista la separazione e si passa direttamente al divorzio. Se questo può sembrare un vantaggio, in realtà si sottintende che le unioni tra persone dello stesso sesso siano meno “indissolubili” rispetto a quelle eterosessuali. A febbraio, il capogruppo della Lega del Consiglio Comunale di Livorno Massimo Ciacchini chiese un censimento delle unioni civili del territorio, per “avere contezza circa la stabilità di queste unioni”, come se volesse dimostrare che si tratta di relazioni meno durature così effimere da non meritare un riconoscimento formale.
Una delle differenze più importanti rispetto al matrimonio, però, riguarda quella la possibilità di adottare figli. Nonostante esistano almeno 7500 coppie formate da persone dello stesso sesso, di cui almeno 500 con figli – stando ai dati dell’ultimo censimento della popolazione italiana, che si riferisce ormai a dieci anni fa – l’Italia manca di una legislazione sulla genitorialità “arcobaleno”. L’unica possibilità per una persona che voglia adottare il figlio biologico del o della partner è infatti quella di rivolgersi al tribunale, iter che può avere esiti molto diversi a seconda dei casi. Lo stesso vale per la trascrizione dell’atto di nascita di figli nati all’estero, dove in molti si recano per usufruire della procreazione medicalmente assistita o della gestazione per altri, pratiche al momento non ammesse in Italia. L’assenza di una regolamentazione ha creato così quello che la Corte Costituzionale ha recentemente definito un “grave vuoto di tutela dell’interesse dei minori”, il cui riconoscimento è lasciato totalmente alla discrezionalità dei giudici.
Nonostante la situazione sia tanto complessa, ancora oggi sono in molti a sostenere che le unioni civili siano sufficienti e che le priorità della politica siano altre, secondo il solito adagio per cui c’è sempre qualcosa di più importante o urgente dei diritti civili. Già il difficile percorso politico e sociale che ha portato alle unioni civili nel 2016 fa sembrare quasi impossibile ottenere qualcosa di più per la comunità LGBTQ+ italiana, che negli ultimi mesi ha sperimentato la stessa opposizione per il ddl Zan, una legge che è davvero il minimo sindacale per un Paese democratico. Secondo il Rainbow Index di ILGA, l’organizzazione internazionale che coordina le varie associazioni arcobaleno nel mondo, in Italia viene rispettato solo il 22% dei diritti LGBTQ+. Degli undici punti elencati alla voce “famiglia” l’Italia è adempiente solo per quanto riguarda la registrazione delle unioni civili. Per fare un confronto: la Francia e la Germania ne hanno completati sei e la Spagna dieci.
Per gli italiani sembra esserci soprattutto una forte resistenza culturale, che si traduce in quell’inerzia del legislatore sottolineata anche dalla sentenza della Corte Costituzionale. Da un lato, infatti, c’è la profonda e radicata convinzione che l’unica sede dell’amore sia la famiglia “naturale” formata da un uomo e da una donna, e dall’altro l’idea che l’omosessualità sia qualcosa da cui i bambini vadano tenuti lontani. Abbiamo sentito fin troppe volte frasi come “ognuno può andare a letto con chi vuole, ma i bambini vanno lasciati fuori”. Queste affermazioni rivelano come in tanti siano ancora convinti che l’omosessualità sia qualcosa che riguarda soprattutto il sesso e non il sentimento o il desiderio di costruire una vita in comune, che può contemplare anche la possibilità di crescere dei figli. Secondo un sondaggio di Eurispes, il 59,5% degli italiani è favorevole al matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma solo il 42% anche alla possibilità di adottare bambini. Il problema è che se si è a favore del matrimonio egualitario si dovrebbe essere a favore di un’unione in tutto e per tutto uguale al matrimonio tra persone di sesso diverso, compresa la possibilità di creare una famiglia che sia riconosciuta come tale anche a livello giuridico. Parlare di “nozze gay” – come vengono spesso chiamate impropriamente le unioni civili – come se tutto si esaurisse nella celebrazione della relazione tra due persone, non basta a renderci uno stato che tutela i diritti delle persone LGBTQ+.
A livello sociale e culturale e per le persone coinvolte, l’unione è già un matrimonio: quello che manca è un pieno riconoscimento giuridico, che è ciò da cui si misura veramente il progresso civile e democratico di uno Stato. Ormai diversi studi confermano che non ci sono differenze tra i figli cresciuti da coppie eterosessuali e quelli cresciuti da coppie omosessuali e ciò che rende “famiglia” la famiglia sono l’amore, il sostegno e la cura. Principi sanciti anche dagli articoli del codice civile che regolano il matrimonio: stessi diritti e doveri, fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia e contributo ai bisogni materiali.
È ora che l’Italia riconosca il matrimonio egualitario, così come è ora che si doti di una legge contro l’omofobia: non basta un generico atteggiamento di tolleranza – che tra l’altro viene puntualmente smentito dalle dichiarazioni dei rappresentanti delle istituzioni – o retorica da rainbow washing, servono vere tutele capaci di cambiare sul serio la vita delle persone, oltre al volto retrogrado di questo Paese.