La maternità, intesa come tema di rilevanza sociale, e concentrando la disamina del problema dal dopoguerra in poi, quando la cultura di sinistra ha emancipato la donna dalle politiche nataliste che contraddistinsero l’Italia fascista, senza però elaborare un nuovo modo di coniugare il tema della genitorialità, è rimasta appannaggio della cultura di destra.
“La maternità sta alla donna come la guerra sta all’uomo”, era scritto sulle facciate delle case di campagna e sulle copertine dei quaderni che le “piccole italiane” usavano a scuola. La politica demografica di epoca fascista era sostenuta da un sistema di welfare incentrato sulla figura evocativa della “mamma”: incurante di ogni suo bisogno personale, biologicamente inferiore all’uomo, devota al marito e sacrificata alla crescita dei figli. Il fascismo seppe capitalizzare in maniera sistematica la maternità e di conseguenza la figura della donna veniva utilizzata come mezzo per rafforzare il patriarcato, costringendo le italiane all’unico scopo della procreazione. Le donne prolifiche infatti erano premiate: nel 1939 venne coniata la “Medaglia d’onore per le madri di famiglie numerose”, conosciuta con il nomignolo ancora meno dignitoso di “Medaglia della coniglia”. Questo premio e il relativo attestato venivano concesse dallo Stato alle madri di famiglie costituite da almeno sette figli viventi, oppure caduti in guerra o per la causa nazionale.
Quanto l’eredità del pensiero fascista sia andata ben oltre il regime, diventando un vero e proprio tarlo nella cultura italiana, lo si evince dalla lunga vita di cui ha beneficiato l’istituto che venne definito “la creatura tipica del regime”: l’Opera Nazionale per la protezione della Maternità e dell’Infanzia (Onmi), ente parastatale istituito nel 1925, finalizzato alla profilassi e all’assistenza medico-sociale delle donne, in quanto madri, e dei ragazzi fino al raggiungimento della maggiore età, che si trovavano in stato di bisogno permanente o contingente. L’Onmi venne soppresso solo nel 1975, mentre nel 1971, con la pronuncia della Corte Costituzionale n. 49, venne abrogato l’art. 553 del Codice Penale che vietava la propaganda e l’uso di qualsiasi mezzo contraccettivo, puniti con un anno di reclusione.
Dopo la seconda guerra mondiale, di fatto, la maternità ha continuato a essere brandita dalla cultura patriarcale non meno subdolamente di quanto avesse fatto il regime. Come ha scritto la poeta e attivista Farida D.: “La maternità è utile al patriarcato ma le madri non lo sono. Questo perché lo sfruttamento delle donne è utile al patriarcato, ma le donne non lo sono”. Questa pericolosa linearità normativa e culturale tra passato e presente fu evidenziata anche dal poeta Pier Paolo Pasolini nel 1975, che nel suo articolo intitolato “Il vuoto del potere” ovvero “L’articolo delle lucciole”, scrisse: “La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta”, riportando tra i segnali “la mancata epurazione, la continuità dei codici, la violenza poliziesca, il disprezzo per la Costituzione” e proseguendo: “In tale universo i ‘valori’ che contavano erano gli stessi che per il fascismo: la Chiesa, la Patria, la famiglia, l’obbedienza, la disciplina, l’ordine, il risparmio, la moralità”. La reticenza nell’abrogare le leggi e gli istituti di derivazione autoritaria non sfuggì nemmeno all’attenzione del giurista Piero Calamandrei, il quale coniò per questo odioso atteggiamento del legislatore il termine “ostruzionismo di maggioranza”.
La violenza perpetrata dalle politiche nataliste dell’Italia fascista fu quindi feroce, ma non fu meno deleteria – ai danni soprattutto delle donne – quell’eredità politica che venne custodita dalle maggioranze parlamentari che si susseguirono dopo la guerra. Di contro, mentre l’atteggiamento delle minoranze laiche si mosse almeno a favore della diffusione dell’informazione e delle pratiche anticoncezionali, l’opposizione – guidata dal PCI – alternò estraneità alla vicenda a commenti sprezzanti verso coloro che si battevano per il controllo delle nascite – “gruppetti di intellettuali e borghesi radicali”, “terze forze”, “anime belle”. Di politiche, se non strettamente demografiche (dato il rimando al passato), ma quantomeno di promozione economico-sociale tali da supportare indirettamente la scelta di avere figli in un’ottica nuova e non mortificante per le donne non parlava nessuno, creando un vuoto culturale e politico di cui ancora oggi scontiamo le conseguenze.
Ercole Sori, professore di Storia economica alla Facoltà di Economia dell’Università di Ancona, nel pamphlet intitolato Natalità e politica nell’Italia del Novecento, spiega in questi termini l’atteggiamento del Partito Comunista Italiano nel secondo dopoguerra: “Molto più importante non disturbare il rapporto con le masse cattoliche, con la Chiesa e con la Democrazia cristiana e, in definitiva, non turbare l’atteggiamento conservatore e tradizionalista del partito verso la famiglia e le donne. E poi un atteggiamento antimalthusiano ben si coniuga con il forte antiamericanismo del PCI. Soltanto tra il 1956 e il 1964, cioè quando tutta la società italiana è in subbuglio e dopo il trauma dell’invasione sovietica dell’Ungheria, si manifestano timidi tentativi di aggiornamento e apertura. Il blocco dei paesi socialisti sta invertendo la rotta sui temi della crescita demografica e le organizzazioni femminili del partito azzardano caute analisi liberatorie”. Le politiche demografiche fasciste e le norme che sopravvissero loro furono combattute dalle minoranze laiche solo in termini di diritti civili e individuali, senza addentrarsi nel discorso – sicuramente più arduo da affrontare – della maternità, svincolata tanto dal natalismo fascista quanto da quello post-bellico, che per quanto meno propagandistico non creò meno danni.
Paradossalmente, come scrive Paul Ginsborg, storico di origini inglesi naturalizzato italiano e studioso della nostra storia nazionale, in Storia d’Italia 1943-1996. Famiglia, società, Stato è stata proprio l’incompletezza dell’emancipazione femminile a costituire in questo contesto il fattore causale più significativo. La riprova di ciò, a contrario, è l’esperienza di Paesi a noi molto vicini: la Francia, la Norvegia e la Svezia. Scrive la dottoressa Maria Rita Testa, professoressa di Demografia al Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss: “Questi modelli di intervento pubblico hanno alcune caratteristiche comuni. Primo: sono massicci in quanto a risorse investite. Secondo: durano da tempo, non sono una tantum. Questi due fattori ne rafforzano la credibilità agli occhi delle giovani coppie. Terzo fattore decisivo: in Francia e nei Paesi scandinavi abbiamo ‘pacchetti di misure’, cioè insiemi complessi di policy, in grado quindi di intercettare più facilmente diversi gruppi sociali”. Senza lo spettro delle politiche popolazioniste fasciste, questi Paesi hanno potuto beneficiare negli anni di politiche sociali che sostengono, tramite risorse e un complesso di misure di welfare, chi desidera figli e che al contempo assicurano i diritti – in primis tramite l’accesso alle cure mediche e all’interruzione di gravidanza, per chi non li vuole. In sostanza sono Stati che rispettano, con serenità e senza ideologia, la libera scelta dei loro abitanti.
In Italia, al giorno d’oggi, parliamo di maternità – sempre e solo in prospettiva di procreazione, quindi escludendo le adozioni, gli affidamenti e non da ultimo i padri – quando il ministro della Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida, la considera lo strumento per impedire la presunta “sostituzione etnica”, come recentemente dichiarato al congresso della Cisal. Oppure quando la ministra della Famiglia Eugenia Roccella afferma, in occasione della presentazione del suo libro al Salone del libro di Torino, che “l’obiezione di coscienza non impedisce affatto l’accesso all’interruzione di gravidanza”. Questo genere di dichiarazioni, purtroppo, abbassano e mortificano il livello del dibattito. Riappropriarsi del tema della maternità significa valorizzare una cultura che renda possibile e tuteli l’autodeterminazione di coloro che hanno deciso liberamente di vivere tale esperienza, ma anche quella di coloro che non la desiderano. Questo è possibile con la diffusione delle pratiche contraccettive, il rafforzamento del diritto all’aborto, con l’educazione sessuale insegnata nelle scuole, ampliando i congedi parentali, aumentando gli asili nido pubblici, con la tutela a livello legislativo del lavoro di cura condiviso tra i genitori e soprattutto ampliando il concetto di maternità: trasformandolo nel più inclusivo concetto di “genitorialità”.
Genitorialità significa infatti disancorare le donne da un ruolo di subalternità affibbiato dalla cultura patriarcale da secoli e al contempo corrisponde a coinvolgere non solo i padri, ma tutta la comunità nella crescita dei figli. Il fine non è invertire il calo delle nascite che si registra da anni in Italia (e in buona parte del mondo occidentale), perché altrimenti si ricadrebbe in una malcelata propaganda popolazionista, bensì rispettare e sostenere l’esperienza della genitorialità – dato che non è più tollerabile che rimanga una bandiera di destra. Questo perché crescere figli, per chi li vuole, non è né una faccenda assimilabile alla gestione di un allevamento intensivo che và premiato con i premi produzione (come ha suggerito il ministro dell’Economia Giorgetti, “meno tasse per chi fa più figli”), né un dono ammantato di divinità: è un lavoro duro – non retribuito – che dà il grande privilegio di accompagnare un nuovo essere umano nel mondo. Attiene certo alla sfera più privata della vita delle persone, ma i suoi effetti, come in tutte le sfaccettature dell’esistenza che hanno valenza universale, si riversano nel collettivo. Per questo bisogna riappropriarsene.