C’è una pagina Facebook italiana, in cui ogni tanto mi perdo in un misto di autocompiacimento e tristezza, che si chiama “Persone furiose”. Non è difficile capire di cosa tratti. Raccoglie screenshot di gente incazzata con chiunque: con Renzi, con gli immigrati, con Soros, con la Juventus, con gli ebrei, persino con Lisa Fusco. C’è un pattern ben preciso e ricorrente. Se escludiamo qualche insospettabile casalinga di Vimercate che sfodera i più coloriti insulti misogini verso la sfortunata di turno, quasi tutte le persone furiose rappresentate rispondono alle stesse caratteristiche: sono maschi, sono bianchi e sono incazzati.
Che gli italiani siano arrabbiati non è di certo una novità. Le elezioni del 4 marzo sono state lette da più parti come l’esito ovvio di una rabbia sociale più o meno legittima, espressasi al termine di una campagna condotta soprattutto nei talk-show strapieni di gente urlante. L’associazione “Parole O_Stili” ha misurato insieme a Ipsos l’indice di aggressività dell’ultima campagna elettorale, che nella sesta e ultima settimana ha raggiunto 76 punti su 100. Il livore degli italiani è stato l’appiglio elettorale preferito di Matteo Salvini, i cui votanti – o quella parte di connazionali a un passo dal diventarlo – incarnerebbero la famosa “rabbia degli italiani”, un passe-partout per accedere a strati anche molti diversi della nostra società. Così lo stesso Salvini dimostra sempre di provare “tanta rabbia” di fronte a tragedie o ingiustizie varie. La collera d’altronde sembra essere un problema dei politici della destra suprematista a ogni latitudine. Anche della rabbia di Donald Trump si è parlato molto: il Presidente degli Stati Uniti non riesce a sostenere una conversazione senza prendersela con qualcuno. Non a caso, durante la sua visita nel Regno Unito, Trump è stato accolto da un enorme pallone gonfiato – mai metafora fu più azzeccata – che lo ritraeva nella forma di un bambino, ovviamente incazzato.
Prima che Trump vincesse le elezioni, il sociologo americano e studioso della mascolinità Michael Kimmel scrisse un libro di grandissimo successo, Angry White Men. Senza ancora poterlo sapere (il saggio è uscito nel 2013, molto prima che si concretizzasse l’idea di una possibile ascesa di Trump in politica) Kimmel ha tracciato perfettamente il profilo dell’elettore del nostro riportino preferito: il maschio bianco incazzato. Un soggetto che se la prende con tutti, con le banche, col governo ladro, coi media, ma soprattutto con le donne, coi gay, gli immigrati e tutti quei gruppi sociali minoritari che paradossalmente considera privilegiati. Sappiamo perfettamente come ragiona: secondo lui le donne si lamentano tanto, ma poi possono ottenere quello che vogliono dandola alle persone giuste, i gay ci vengono imposti in continuazione in televisione o al cinema e gli immigrati ricevono soldi e ci rubano il lavoro senza muovere un dito.
Essere incazzato per il maschio bianco non è una condizione permanente. C’è stata un’epoca felice e fortunata, in cui tutto era più semplice e non c’era motivo di arrabbiarsi; un periodo in cui il potere era detenuto quasi esclusivamente da maschi bianchi ed eterosessuali, che guidavano il mondo con fermezza e decisione. Non c’era alcuna forma di messa in discussione di questo potere: chi provava a ostacolarlo veniva respinto ai margini della società – come succedeva ai gay impegnati nella lotta per i loro diritti – oppure veniva trattato con condiscendenza – come è accaduto a quelle donne che hanno cercato di risalire la scala sociale.
Al maschio bianco per anni tutto è stato semplicemente dovuto, complice un meccanismo perfettamente oliato e fatto a sua misura: il patriarcato che lo ha allevato e convinto che l’ordine delle cose fosse dovuto proprio a lui, al suo talento e alle sue capacità. Non è troppo lontana l’epoca in cui bastava essere maschi e avere un po’ di fortuna per accedere a posizioni lavorative per le quali oggi verrebbe richiesta almeno una laurea specialistica. L’illusione che esistesse una meritrocrazia, che bisognasse “sudarsela”, era la bilancia su cui si misurava il successo di ognuno. A rafforzare questa certezza, c’era una lunga lista di illustri esempi di self-made men, che nonostante le umili origini e grazie alla propria furbizia si erano guadagnati i posti migliori: dal capostipite Benjamin Franklin a Rockfeller, da Ronald Reagan a Donald Trump, senza dimenticare l’indiscusso self-made man nostrano, Silvio Berlusconi. Di certo, a questi personaggi di successo, talvolta meritevoli e talvolta senza scrupoli, non sono mancate le capacità, ma nemmeno la condizione di partenza di maschi bianchi eterosessuali.
Tutto è proseguito in questo modo, finché la bilancia dell’illusoria meritocrazia non si è rotta. Michael Kimmel fa risalire il momento in cui l’uomo bianco si è incazzato in via definitiva all’ultima crisi economica: le banche hanno distrutto e svuotato i sogni di chiunque, a prescindere dal colore della pelle, dal genere o dall’orientamento sessuale. Per la prima volta i maschi bianchi si sono sentiti vulnerabili, perché è stato loro tolto il potere economico su cui hanno sempre potuto contare. Nel frattempo donne, immigrati e gay si sono rimboccati le maniche e si sono fatti strada, dal basso, nelle fratture del sistema. I gruppi sociali minoritari hanno approfittato di questa crisi per organizzarsi ed emergere, arrivando preparati come e più dei maschi bianchi. E allora la rabbia di questi ultimi è esplosa: non nei confronti di quel capitalismo che li ha schiacciati, ma nei confronti di quelle minoranze che, più preparate, li hanno superati, secondo loro grazie a un presunto complotto.
È inutile ribadire che in realtà l’unico ad essere avvantaggiato resta privilegiato è sempre e comunque il maschio bianco incazzato. La situazione delle minoranze è migliorata sotto molti punti di vista, ma non è assolutamente paragonabile alla sua. “Non è finita l’era dei maschi,” spiega Kimmel, “è finita l’era del privilegio dei maschi, l’era in cui un giovane uomo dava per scontato, senza farsi domande, che non fosse solo ‘un mondo per maschi’, ma un mondo per maschi bianchi etero”. Il maschio bianco incazzato si considera però ancora detentore di questa posizione di privilegio e per questo si sente socialmente e politicamente superiore a donne, gay e immigrati, nonostante spesso sia pari o addirittura inferiore a livello economico. Un uomo bianco, benché povero, negli Stati Uniti guadagna il 28% in più di un uomo nero, così come nel nostro Paese un italiano percepisce in media il 18,6% in più di uno straniero. Allo stesso modo, le donne guadagnano il 23% in meno degli uomini. Qualsiasi lavoro il maschio bianco faccia, che sia lo spazzino o il dirigente d’azienda, beneficia di un sistema che si basa sull’ineguaglianza di genere o di etnia.
In Italia il processo si è svolto in maniera simile. I nati negli anni Sessanta e Settanta si sono formati nel riflusso, quando l’oggettificazione della donna era naturalmente accettata e la promessa di ricchezza era data per scontata. Il benessere di quell’Italia felice (e non a caso il “si stava meglio quando si stava peggio” è una costante nei post delle persone furiose) ha formato una generazione di lavoratori ultrapagati nonostante le scarse competenze e l’istruzione insufficiente. Quando è cominciata la crisi è scoppiata la bolla e la rabbia è esplosa. Mentre gli uomini restavano indietro e perdevano la supremazia economica, a fatica le donne raggiungevano un po’ di parità, gli immigrati si guadagnavano la cittadinanza con il lavoro e le persone gay conquistavano i diritti civili.
Salvini, come detto, è il perfetto rappresentante di questo tipo di rabbia sociale. Anagraficamente è affine al maschio bianco incazzato, è cresciuto nel pieno del riflusso e della tv berlusconiana, va orgoglioso delle proprie uscite misogine e non nasconde l’antipatia per gli omosessuali. È sempre arrabbiato con tutti, esplicitando e amplificando quel livore del suo elettorato che altrimenti andrebbe perso tra i commenti di qualsiasi post di Facebook sul Pd. Ovviamente Salvini non ha ragione di essere un maschio bianco incazzato: quello che i leghisti si rifiutano di riconoscere è che proprio quel Salvini che si presenta come “uno di noi”, un italiano adirato come tanti, è in realtà un super privilegiato che guadagna ogni mese cifre a quattro zeri e che prima di entrare in politica non ha mai lavorato in vita sua. Salvini funziona perché sa toccare le corde giuste: è quindi vicino alle persone furiose, ma al contempo incarna l’ideale di mascolinità del “buon padre” fedele ai valori e nostalgico dei buoni tempi andati, quando i gelati costavano cento lire e non c’erano donne, froci e stranieri a metterci in pericolo.
Essere maschi, bianchi ed etero non è una colpa. Lo è pretendere che nessuna persona di colore, gay o donna possa entrare nella casetta sull’albero di cui i maschi bianchi etero sono stati i padroni assoluti per troppo tempo. La causa delle disgrazie reali degli uomini della classe media non sono le minoranze, ma il sistema capitalistico e patriarcale che li ha fatti a pezzi: questo modello va superato, accogliendo l’entrata in scena delle minoranze come un’opportunità e non come un’usurpazione. Ormai è stato ampiamente dimostrato che l’uguaglianza porta benefici a tutti sul piano sociale, politico ed economico. Incazzati compresi.