La sera di mercoledì 14 marzo, Marielle Franco, attivista e politica trentottenne, stava attraversando in macchina il distretto finanziario di Rio de Janeiro; alla guida c’era il suo autista, Anderson Pedro Gomes, di fianco a lei un addetto stampa. Una vettura si è affiancata a quella di Franco e, dall’abitacolo, qualcuno ha sparato nove colpi di arma da fuoco: cinque hanno colpito l’attivista alla testa, uccidendola. I proiettili hanno raggiunto anche Gomes – seconda vittima dell’attacco – e l’addetto stampa, che riporta ora alcune ferite. Un assassinio mirato, hanno detto le organizzazioni per i diritti umani e i politici che hanno denunciato il fatto. Marcelo Freixo, rappresentate per lo Stato di Rio de Janeiro del Partito Socialismo e Libertà – lo stesso di Franco – ha commentato così l’accaduto: “La scena è chiaramente quella di un’esecuzione. Gli spari erano tutti diretti a lei, dev’essersi per forza trattato di un professionista”. Secondo una fonte delle forze dell’ordine, i proiettili utilizzati apparterrebbero a un lotto venduto dall’azienda CBC alla polizia federale di Brasilia nel 2006.
Solo poche ore prima Marielle Franco aveva partecipato a una manifestazione per i diritti delle donne di colore, Jovens Negras Movendo as Estruturas, “Giovani nere che muovono le strutture”, organizzata dal suo partito, lo PSOL. Una battaglia che portava avanti da ormai molti anni, accanto alle lotte contro una sperequazione sociale ormai endemica in Brasile, l’ineguaglianza razziale, i diritti della comunità LGBTQ. Il fulcro della lotta sociale di Franco era la favela, la periferia degradata di Rio de Janeiro, luogo in cui lei stessa era cresciuta e dalla cui stretta era riuscita a svincolarsi – una fortuna che purtroppo non capita molto spesso. Nata nel 1979 nel Complexo da Marè, un complesso di slum ai margini settentrionali della città, Franco sapeva perfettamente cosa significasse crescere in un’area di povertà e degrado, uno spazio separato con cura dai quartieri più abbienti del centro. Conosceva per esperienza diretta il malessere di un intero gruppo sociale messo da parte e mortificato, criminalizzato per una povertà ormai strutturale e costantemente sorvegliato da una polizia sempre più militarizzata.
Una polizia, quella brasiliana, ormai nota a livello internazionale per gli abusi di potere commessi a scadenza regolare: un report di Amnesty International del 2015, You Killed My Son, ha rilevato che tra il 2010 e il 2013, su 1275 casi di individui uccisi da poliziotti in servizio, il 79% delle vittime sarebbe di colore e il 75% di un’età compresa tra i 15 e i 29 anni. Autos de resistência li chiamano, “decessi per resistenza” – un eufemismo con cui si legittimano i numerosi casi di violenza della polizia contro le popolazioni delle favelas. Questione di autodifesa. ll 12 maggio del 2017 la Corte interamericana dei diritti umani ha messo sotto accusa il Brasile per non aver preso provvedimenti giudiziari contro le forze di polizia a seguito dei fatti di Nova Brasilia, slum che è stato teatro di due scontri, nell’ottobre del 1994 e nel maggio del 1995. Due sparatorie che hanno portato, ciascuna, alla morte di 13 persone. Nel primo caso cinque donne, di cui due adolescenti, sono state vittime di violenze sessuale da parte degli agenti. Secondo fonti governative, nel gennaio del 2018, 154 persone sono decedute per mano delle forze dell’ordine: il 57% in più del gennaio 2017.
La popolazione delle favelas, sempre più schiacciata dalle disuguaglianze economiche, non ha alcuna via di riscatto. Il governo sembra limitarsi a sanzionare lo status quo, legittimando le violenze da parte delle forze di polizia. Violenze che sembrano perpetrate in virtù della condizione sociale delle vittime, vista come un’attenuante, più che come l’indice di un malfunzionamento governativo strutturale. Marielle Franco lottava per ridare fiato alle periferie, per liberarle dalla morsa di una polizia il cui compito non sembrava più di proteggerne gli abitanti, ma di opprimerli in maniera sistematica.
Laureata in sociologia, ricercatrice, Franco aveva mosso i primi passi come attivista politica nel 2005, dopo che una delle sue più care amiche era stata uccisa da un proiettile vagante, durante una sparatoria tra la polizia e alcuni narcotrafficanti nel complesso di Maré. Si era laureata con una tesi intitolata “UPP: il declino delle favelas in tre lettere”, dove UPP sta per Unidades de Polícia Pacificadora – il reparto delle forze incaricato della sorveglianza della periferia di Rio de Janeiro. Marcelo Freixo le aveva spalancato le porte della politica, introducendola al Partito socialismo e libertà con il quale Marielle Franco ha collaborato per 10 anni. Nel 2016 era riuscita a essere eletta nel Consiglio Comunale di Rio con la Mudar Coalicion, composta da PSOL e Partito Comunista Brasiliano, diventando l’unica rappresentante nera in un consiglio composto da 51 membri, di cui solo sette erano donne.
Nei quasi 15 mesi in cui ha ricoperto l’incarico di consigliera comunale ha promosso 16 proposte di legge, di cui due convertite in altrettante norme: una per regolamentare il settore dei moto-taxi – il mezzo di trasporto più popolare nelle favelas – e una che prende di mira i contratti tra Comune e organizzazioni di sanità pubblica, spesso al centro di indagini per episodi di corruzione.
Lo scorso febbraio, tramite decreto, il presidente conservatore Michel Temer aveva affidato all’esercito federale la direzione delle forze dell’ordine per lo Stato di Rio – un ulteriore passo nel percorso di incalzante militarizzazione dell’ordine pubblico brasiliano. Sole due settimane fa, poi, Franco era stata messa a capo di una commissione speciale incaricata di sorvegliare sull’implementazione dell’iniziativa, largamente impopolare. Il 10 marzo, poco dopo la nomina, aveva pubblicato un post contro il 41° battaglione della polizia militare di Rio, che stava “terrorizzando e violentando i residenti di Acari” – altro quartiere fatiscente a nord della città. In quella stessa settimana, scriveva Franco, due giovani erano stati uccisi e gettati in un fosso. Il 14 marzo, poche ore prima della sua morte, aveva di nuovo denunciato le forze dell’ordine, questa volta su Twitter, per l’omicidio del ventitreenne Matheus Melo.
Membro della Commissione dei diritti umani per lo Stato di Rio, Marielle Franco è stata, fino a mercoledì, la dimostrazione tangibile che uscire dagli slum brasiliani non è un’ambizione irrazionale. La sua morte è stata uno shock per l’opinione pubblica, frustrata da un clima politico sempre più teso, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali di ottobre. Sono passati decenni, ma c’è ancora una parte consistente della popolazione brasiliana che guarda con nostalgia agli anni della dittatura militare, che vede con favore il riemergere di forze politiche demagogiche. Giovedì sera, migliaia di persone si sono mobilitate per commemorare Marielle Franco, partecipando a marce organizzate in tutte le maggiori città del Paese. Ma c’è una parte di Brasile affezionata a una polizia in tenuta anti-sommossa, che gestisce le favelas con la violenza, lontano dai loro occhi. Contro questa parte continueranno a lottare gli eredi di Franco, al grido di “Marielle, presente, ora e sempre”.