In uno Stato di diritto il potere delle istituzioni è regolato dalla legge, a sua volta orientata alla tutela delle libertà fondamentali dei cittadini. Se una persona non ha mai compromesso, con il suo comportamento, il benessere della collettività, il suo diritto a circolare liberamente, riunirsi in associazioni o manifestare apertamente il proprio pensiero non può essere limitato da altri membri della collettività né, tantomeno, dallo Stato stesso. In un Paese democratico e garantista come l’Italia, chi si occupa di applicare le leggi non dovrebbe poterle manipolare a proprio favore, appellandosi alla presunta “pericolosità” di chi si oppone alle decisioni del Governo per reprimerne le libertà e annientarne così il potenziale sovversivo. Ma i fatti non sempre rispecchiano la teoria, e la storia di Maria Edgarda Marcucci è un chiaro esempio di questa contraddizione.
È il 2017 quando Marcucci, studentessa di filosofia, militante NoTav e attivista femminista parte insieme a una delegazione civile in direzione Rojava (il Kurdistan siriano). Terra particolarmente ambita dai Paesi circostanti (ma non solo) a causa della sua ricchezza di risorse idriche ed energetiche, il Kurdistan è una nazione, ma non uno Stato. L’attuale assetto geopolitico dell’area risale al 1923, anno in cui la ratifica del Trattato di Losanna ufficializzò la sua spartizione tra Siria, Iraq, Iran e Turchia. A partire da questo momento, l’illusione dei curdi di proclamare il proprio territorio Stato nazionale divenne incompatibile con il “principio di unitarietà” perseguito dalla Turchia, per nulla intenzionata a riconoscere quella curda come un’etnia a sé stante e che avviò, nei suoi confronti, una vera e propria persecuzione. A contribuire all’oppressione della minoranza curda si aggiunsero poi nel 2011 la guerra civile siriana e nel 2014 l’ascesa dell’Isis.
Oltre a partecipare attivamente alla missione civile, l’obiettivo di Marcucci era contribuire alla realizzazione di un reportage che raccontasse all’Occidente l’esperienza politica e sociale del popolo curdo-siriano: il Confederalismo Democratico. Nonostante la sua rappresentazione fatichi spesso a trovare spazio nel panorama mediatico generalista, infatti, questa forma di autogoverno a partecipazione dal basso incarna la realizzazione di un esperimento politico senza precedenti. Teorizzato negli anni Settanta dal leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) Abdullah Öcalan, si fonda su tre princìpi: parità di genere, rispetto dell’ambiente e coinvolgimento attivo della popolazione nella vita politica delle città. Realizzato nella quasi totale assenza di risorse economiche e nel pieno di una crisi umanitaria, il progetto sociale curdo rappresenta un’autentica rivoluzione democratica.
“[Il Confederalismo Democratico] ci riguardava profondamente, sia per quanto riguarda la sconfitta dello Stato islamico, sia in riferimento alla costruzione di un’alternativa sociale” affermava Marcucci a febbraio 2021, esplicitando così la necessità di smantellare il paradigma patriarcale che, ancora oggi, opprime buona parte della popolazione occidentale. “Quella curda era anche la mia battaglia. Non era accettabile, per me, lasciarla tutta sulle spalle di qualcun altro”. L’attivista decide così di fermarsi ad Afrin, piccola città della Siria settentrionale, per affiancare i gruppi di autodifesa curdi – le Ypg (Yekîneyên Parastina Gel, Unità di protezione popolare) e le Ypj (Yekîneyên Parastina Jin, Unità di protezione delle donne) – nella resistenza all’offensiva turca e all’avanzata jihadista.
Per i nove mesi successivi Marcucci partecipa all’addestramento delle Ypj, con le quali condivide molto più del campo di battaglia. L’indiscutibile valore militare delle milizie curde femminili si inserisce, infatti, all’interno di una prospettiva più ampia, volta al rovesciamento del modello socio-politico neoliberista che vede nella narrazione delle donne da difendere uno dei suoi capisaldi. Riprendendo Marcucci, “Le Ypj non sono un corpo militare qualunque. La formazione non riguarda solo l’imparare a usare un fucile, riguarda il cambiamento di una mentalità. Gli strumenti sono il kalashnikov ma anche la filosofia, la scienza delle donne, la condivisione stessa della vita, che ti insegna l’attenzione nei confronti delle altre persone, la critica e l’autocritica”. In Siria Marcucci combatte una guerra, ma sperimenta anche il lavoro cooperativo, la parità di diritti e la giustizia nelle loro forme più radicali. Fino a quando, nel giugno del 2018, non decide di rientrare.
In Italia, Marcucci e i compagni Paolo Andolina, Fabrizio Maniero, Davide Grasso e Jacopo Bindi – i primi tre militanti nelle Ypg, il quarto volontario civile nel TEV-DEM (Movimento per una società democratica) – vengono accolti da un ordine di comparizione in tribunale. Per citare la rappresentante della Procura di Torino Manuela Pedrotta, una “Spiccata inclinazione alla violenza e all’uso delle armi […] ravvisabile nei recenti viaggi in Siria a sostegno delle Unità di autodifesa, a loro volta emanazione del Pkk, un’organizzazione terroristica” avrebbe reso i cinque “Pericolosi per la società”. Per questo motivo, la PM avrebbe chiesto al Tribunale di sottoporre il gruppo a sorveglianza speciale – la più restrittiva delle misure di prevenzione previste dal nostro ordinamento – per un periodo di due anni.
L’accusa presenta diverse criticità. Nel 2018, per esempio, la Corte di Giustizia Europea aveva da poco abrogato la sentenza che, quattro anni prima, aveva incluso il Pkk nella lista dei gruppi terroristici, definendola “Non giustificata”. A ciò si aggiunge il fatto che Jacopo Bindi, anch’egli destinatario della richiesta, in Rojava aveva prestato esclusivamente servizio civile, senza acquisire alcun tipo di competenza militare. A processo iniziato, però, colpisce soprattutto la scarsa attenzione riservata dal Tribunale all’esperienza siriana nel suo complesso, dal momento che il periodo trascorso in Kurdistan era stato l’unico in cui alcuni membri del gruppo avevano effettivamente utilizzato delle armi.
Appare chiaro fin da subito che l’addestramento militare è in realtà un pretesto volto a contestare a Marcucci – l’unica del gruppo a cui verrà imposta la misura – non tanto il suo arruolamento con le Ypj, quanto la sua militanza politica in Italia. La sorveglianza speciale consente, infatti, di limitare gli spostamenti e le attività sociali di una persona sulla base di un “pronostico” dei suoi comportamenti futuri, a loro volta desunti da una serie di “indizi” che ne testimonierebbero la pericolosità. Per la Procura di Torino, a rendere Marcucci pericolosa sarebbero state l’adesione al movimento NoTav, la partecipazione ad alcune manifestazioni antifasciste, l’organizzazione di alcuni presidi musicali in favore di un lavoratore in difficoltà e l’essersi pubblicamente opposta, urlando al megafono e impugnando uno striscione, alla vendita di armi italiane alla Turchia, che nel 2019 aveva nuovamente invaso la Siria del Nordest. Sulla base di questi eventi, il Tribunale avrebbe rintracciato nell’attivista uno spirito di “costante opposizione all’autorità” tale da renderla, a tutti gli effetti, una minaccia per la sicurezza pubblica.
Dal 17 marzo 2020 Marcucci non può uscire di casa prima delle 7, avvicinarsi a qualsiasi locale pubblico dopo le 18 o rincasare oltre le 21. Non dispone di patente né di passaporto, non può uscire autonomamente dal Comune di Torino e porta sempre con sé un libretto rosso, dove la polizia tiene nota dei suoi movimenti. Non può inoltre partecipare a pubbliche riunioni né entrare in contatto con persone che hanno processi in corso – provvedimento particolarmente limitante per chi ha convissuto per anni con gli attivisti della Val di Susa. Negli ultimi mesi ad alcune di queste restrizioni l’attivista ha disobbedito, prendendo parte, per esempio, a una manifestazione pacifica contro i femminicidi o, pochi giorni fa, alla presentazione del libro Kobane Calling del fumettista Zerocalcare – scelta che le è poi costata una denuncia della Digos.
La sorveglianza speciale di Marcucci – confermata, il 23 settembre, anche dalla Corte di Cassazione – scadrà a marzo 2022. La sua vicenda ricorda per molti aspetti quelle di Dana Lauriola e Nicoletta Dosio, entrambe attiviste NoTav punite con il carcere per aver partecipato ad alcune manifestazioni di protesta, armate esclusivamente di un megafono. Non ultimo: Lauriola, Dosio e Marcucci sono tutte donne, elemento rispetto al quale la Procura sembra nutrire più di un pregiudizio. Fra gli indizi di pericolosità sociale di Marcucci rientrano, a questo proposito, la sua personalità “instabile” e la sua camminata decisa, che la Procura paragona a un “passo marziale”; né lo stato mentale dei restanti componenti del gruppo, né il loro modo di muovere il proprio corpo sono però mai stati menzionati.
La difficoltà manifestata dell’istituzione giudiziaria nel riconoscere la differenza fra chi utilizza le armi per danneggiare la società e chi per combattere un’organizzazione terroristica è preoccupante. La vicenda evidenzia, però, anche la contraddittorietà di un sistema per cui la militanza attiva, l’espressione del dissenso e la rivendicazione dei propri diritti sono comportamenti accettabili se intrapresi nell’ambito della lotta al fondamentalismo, ma non entro i confini della propria nazione, dove il mantenimento dello status quo passa anche per la repressione di chi “ha fatto della lotta al capitalismo la propria ragione di vita”.
Opporsi alle decisioni del Governo senza usare la violenza non può essere considerata una prova di pericolosità. Imporre a Marcucci la sorveglianza speciale a causa del suo attivismo politico è in netta contraddizione con i princìpi fondanti dello Stato di diritto che, almeno sulla carta, l’Italia dice di essere.