Maria Baratto ha 47 anni e vive in un paese in provincia di Napoli. Il 21 maggio del 2014 i suoi vicini, che non la vedono da giorni e sentono un odore acre provenire dal suo piccolo appartamento chiamano la polizia. La trovano morta, in un lago di sangue: si è uccisa con delle coltellate all’addome. Maria Baratto era una dei circa 300 lavoratori mandati in un reparto speciale della Fiat, con sede a Nola, riservato ai dipendenti più facinorosi o con capacità lavorative ridotte. Era in cassa integrazione da sei anni e viveva con 800 euro al mese.
Due anni prima, era il 2012, gli effetti del risanamento Marchionne si sperimentavano già a Pomigliano D’Arco, lo storico stabilimento dell’Alfa Sud. “Tra i 2mila assunti dalla nuova compagnia, non ce n’era nemmeno uno iscritto alla Fiom. Per essere assunti avevano dovuto buttar via la tessera,” scriveva Salvatore Prinzi, filosofo e militante di Potere al Popolo. Addirittura, un quotidiano non certo militante come Il Foglio, ha riportato che alcuni operai si sarebbero umiliati dicendo al microfono “Song n’omm ‘e mmerda” davanti a una folla di capi e capetti, per non essere riusciti a sopportare i ritmi lavorativi infernali. La stessa azienda che ha costretto i propri operai, due anni dopo, a ballare sulle note di “Happy”.
Qualche giorno fa Il Manifesto, nel commentare la notizia delle gravi condizioni di salute di Sergio Marchionne, gli ha dedicato la prima pagina e un pezzo molto critico nei confronti della sua gestione. Il gioco di parole in latino nel titolo “E così Fiat”, insieme alle critiche, hanno generato indignazione e sgomento. Per comprendere come possa un quotidiano dichiaratamente comunista, che ha dedicato tutta la sua esistenza a combattere ciò che Marchionne rappresenta, suscitare reazioni di questo tipo, bisogna tornare indietro di quindici anni.
È il 26 gennaio del 2003 e una Torino più grigia e umida del solito si prepara a dare l’ultimo saluto a uno dei suoi cittadini più potenti e famosi al mondo: l’avvocato Gianni Agnelli, capitano d’industria con una carriera lunga mezzo secolo alle spalle, ritenuto da molti uno degli uomini più importanti del dopoguerra italiano. Due giorni dopo la sua scomparsa, le più alte cariche istituzionali si riuniscono al Duomo per i suoi funerali, mentre migliaia di persone seguono la funzione dal sagrato. I telegiornali registrano le reazioni degli operai, molti dei quali visitano la camera ardente col cappello in mano. Sono presenti anche Fassino, D’Alema e Bertinotti; quegli stessi leader del centrosinistra che avevano visto in Agnelli la loro nemesi politica primaria. La Fiat, nel frattempo, è in perdita per circa 2 miliardi di euro l’anno.
Oggi, nei giorni di lutto nazionale per la morte di Sergio Marchionne – che aveva 66 anni, ed era amministratore delegato della Fiat dal 2004 – come quindici anni fa, i telegiornali dedicano ampi spazi al cordoglio del personaggio. Politici, imprenditori e dirigenti di ogni settore industriale ricordano il suo genio, la sua capacità di mantenersi informale nonostante il suo ruolo, i risultati ottenuti e lo stakanovismo senza tregua. Sui social network, che nel 2003 non esistevano, si consuma invece la più classica e snervante delle battaglie, tra chi vorrebbe ridimensionare, o addirittura infangare il mito di Marchionne, e una minoranza di difensori che gridano all’indignazione e invocano la censura dei più impudenti. Se la Fiat, dicono gli apologeti di Marchionne, oggi fattura utili per miliardi di euro, è merito del grande manager italo-canadese. Ma questo può bastare per obbligare tutti a rendergli omaggio?
Se valutiamo Sergio Marchionne solo dal punto di vista dei risultati aziendali, la sua impresa ha del miracoloso. Quando nei primi anni Duemila arriva alla Fiat, prende in mano un conglomerato industriale con i conti in rosso, sopraffatto dalla concorrenza di cinesi e coreani e incapace di innovare. Anche il marchio Ferrari non vive il suo momento migliore, e rischia di essere accorpato a Lancia e Maserati, mentre l’Alfa Romeo di essere venduta ai tedeschi. Cambiare prodotto, o passare all’elettrico come oggi alcuni suggeriscono, è un’operazione complicata che richiede lunghi processi di aggiornamento per migliaia di operai e quadri aziendali. In queste condizioni, la delocalizzazione di tutti gli impianti è un’ipotesi reale, e drammatica.
Nell’arco di dieci anni, a partire dal 2004, la strategia di risanamento di Marchionne si sviluppa in modo spietato su due sponde: da un lato la drastica riduzione dei costi di produzione, i tagli al personale, l’aumento delle ore di lavoro, i ricatti, le pause pranzo posticipate, la repressione dell’esuberanza sindacale; dall’altro l’espansione verso nuovi mercati attraverso l’assalto all’americana Chrysler, vendutagli in fretta e furia dall’amministrazione. I risultati sono innegabili: la nuova Fiat Chrysler Automobiles riesce a farsi largo nel mercato americano, compensando così la stagnazione di quello italiano. Marchionne trasforma la Fiat in un’azienda globale – anche se in India e Cina non decollerà mai. Tutto questo mantenendo stabili in Italia gli 80mila posti di lavoro nonostante la prolungata crisi del Paese e un contesto internazionale mutato.
Marchionne a differenza dell’Avvocato è, come dicono gli americani, un vero car guy, un uomo di macchine. La sua vita non ruota intorno a jet-set e mondanità esibita, o a brillanti aforismi dispensati dalle tribune d’onore dello stadio Comunale di Torino. Però è lui a fare il lavoro sporco per conto della famiglia Agnelli e dell’intero Paese, che guarda alla Fiat come al simbolo della propria identità. Più che il liberismo, è il nazionalismo a fare pressioni su Marchionne affinché conservi a qualunque costo un certo numero di occupati sul suolo nazionale. Perché la Fiat è un simbolo, un asset strategico, la cartina tornasole del Paese: meglio il conflitto con i sindacati e la chiusura di Termini Imerese che trasferire l’intera produzione nell’Est-Europa.
La lezione di Marchionne è il trionfo di un sistema malato che per sopravvivere deve tenere un rapporto contorto e contraddittorio col potere politico. E questo anche a causa della globalizzazione e della spietata competizione imposta all’Europa dai Paesi asiatici. Tant’è che lo stesso Marchionne, in qualità di presidente dell’Associazione europea dei costruttori automobilistici, ha criticato l’apertura indiscriminata alle importazioni di autoveicoli prodotti in Asia.
Non si è fermato qui: ha anche chiesto alla Commissione europea di governare gli eccessi di capacità produttiva delle case automobilistiche europee, così da lasciare invariate le quote di mercato. Altro che turbo-capitalismo: una vera e propria pianificazione pubblica dei volumi di produzione. In fondo anche la Chrysler, prima di essere inglobata da Fiat, è stata salvata coi soldi dei contribuenti americani. Al tempo stesso, ricorda l’economista Emiliano Brancaccio, Marchionne rivendicava la “piena libertà di trasferimento del capitale di Fiat all’estero,” ma al contempo esigeva dai lavoratori “una totale sottomissione alle leggi del mercato.” Contraddizioni su contraddizioni, per l’appunto, che un approccio distaccato dovrebbe scorgere.
Sarebbe importante ricordare, senza paura di essere tacciati di populismo, la vergogna che sono i reparti-confino, che dentro la Fiat esistono ancora, proprio come negli anni Cinquanta. All’epoca, nel lontano 1955, il presidente era Vittorio Valletta, che descriveva la sua azienda come una sorta di comunità familiare: “Dovunque incontriate un nostro operaio, in Italia o all’estero,” scriveva, “egli vi dirà per prima cosa che è operaio della Fiat.” La realtà è che oggi come allora i dipendenti ritenuti “ingovernabili” vengono relegati in squallidi magazzini o in uffici disadorni scollegati dalla linea di produzione principale, come raccontato dal compianto giornalista Alessandro Leogrande in un crudo reportage per Internazionale.
Davanti alla beatificazione di Marchionne proposta dai media, è naturale che qualcuno ricordi – sia pure in modo scomposto e sconclusionato – le brutalità di Fiat e le vigliaccate del capitalismo italiano: serve a bilanciare, anche con qualche inevitabile scivolone demagogico una memoria resa agiografia. È questa anche la lezione dell’ “autunno caldo” tra il 1969 e il 1970, quando dopo decenni di sfruttamento, schedature, censure politiche e repressioni, l’odio accumulato per i capi era diventato incontenibile. Gli operai non avevano i social, ma gridavano slogan come “Ho-Ho-Hochiminh”, “Agnelli l’Indocina ce l’hai in officina,” creati durante le riunioni studentesche. Gli scioperi non erano tanto un mezzo per ottenere più soldi, ma più potere, per quanto piccolo ed effimero.
La loro importanza traspare dalle parole di un operaio di Mirafiori dell’epoca, che descrive l’arrivo di un corteo all’interno della fabbrica, nel libro Lavorare in Fiat dello storico Marco Revelli: “Lì abbiamo capito…forse è incominciata la nostra era, forse possiamo riscattarci, adesso sì. Abbiamo fatto bene a venire qui al nord. […] Mi sembravano quegli incontri festosi che facevano i partigiani che ritornavano dopo aver liberato una città. […] Ci siamo abbracciati, e quello poteva veramente significare tutto. Poteva voler dire ‘abbiamo vinto’, ‘ci siamo finalmente tirati fuori dalla merda’, ‘abbiamo riscattato il nostro onore, il nostro orgoglio’. Pensavi a tuo padre, alla vita che aveva fatto.”
È vero, Marchionne ha preso in mano un’azienda praticamente fallita, con un marchio debolissimo, una concorrenza accanita, in un settore che soffre da quarant’anni di sovrapproduzione cronica. E nonostante tutto ciò l’ha rivitalizzata, facendo salire le quotazioni del titolo FCA del 104,16% in dieci anni, passando dai 2,5 euro per azione del 2004 ai 20,2 euro del gennaio 2018, aumentando la capitalizzazione, da 5,5 miliardi di euro del 2004 ai 60 miliardi di oggi. Ha fatto, insomma, quanto un perfetto amministratore delegato deve fare.
La sensazione è che Marchionne rappresenti la vittoria completa della dirigenza industriale italiana in una guerra di classe che si è protratta per quasi quarant’anni, dalla fine degli anni Sessanta fino ai tagli del governo Monti. Una vittoria che ha portato al risanamento di un’azienda commercialmente ferma e che sembrava destinata al fallimento. Questo ha però avuto costi umani altissimi, nonché la perdita del senso di appartenenza della classe operaia al suo gruppo industriale storico in un contesto di stagnazione economica e culturale che si protrae da vent’anni.
Se il prezzo da pagare per il riconoscimento del merito individuale deve essere la rimozione della memoria o del contesto storico, abbiamo tutti un problema di conformismo. Chi appiattisce i ricordi sulle virtù benefiche dei tagli al personale e sull’efficienza del mercato è molto più simile ai “leoni da tastiera” di quanto sia disposto ad ammettere. Tra questi ultimi esiste una forte minoranza che oggi sogna di tornare ai tempi Valletta, dell’avvocato Agnelli e di uno Stato che fa di tutto per proteggere le proprie aziende, anche quando sono sull’orlo del fallimento. Probabilmente otterranno un capitalismo ancora più feroce di quello impersonato da Marchionne, nascosto dietro bandiere tricolori e proclami contro l’Europa.