Continuano le ricerche di Saman Abbas, la diciottenne originaria del Pakistan di cui non si hanno notizie dallo scorso 30 aprile. Accantonata la possibilità di una fuga volontaria, sostenuta inizialmente dal padre in alcune interviste, oggi l’ipotesi più accreditata è che la giovane sia stata uccisa dai parenti – uno zio, il padre, i cugini – in seguito al rifiuto di un matrimonio combinato organizzato dalla famiglia. La storia di Saman è una storia di maltrattamenti perpetrati dentro le mura domestiche: obbligata a lasciare la scuola a tredici anni, costretta alla solitudine e a uscire di casa solo con la madre al termine dell’orario di lavoro dei braccianti. La storia di Saman, purtroppo, però non è un caso isolato. Sono infatti 77mila i minori che, in Italia, vivono sistematiche forme di abuso intrafamiliare.
Parlare di maltrattamento all’infanzia è ancora molto difficile. Tendiamo a guardare all’ambiente domestico come a uno spazio sicuro, protettivo, anche se è il contesto in cui la violenza contro le donne e i bambini emerge più prepotentemente. Rilevare la violenza dentro le mura domestiche è un’impresa particolarmente complessa: basti pensare che la prima indagine compiuta da Istat sul fenomeno risale solo a quindici anni fa. Ancora più difficile è affrontare quella compiuta da genitori e parenti nei confronti dei bambini. La seconda indagine nazionale sul maltrattamento all’infanzia, pubblicata quest’anno e promossa da CISMAI e Terres des Hommes, tratteggia un quadro allarmante: nove minori su mille sono presi in carico dal Servizio Sociale per episodi di maltrattamento e, di questi, la maggioranza si attesta nella fascia tra gli 11 e i 17 anni. Ciò significa che spesso le situazioni riescono ad attirare l’attenzione delle istituzioni quando sono ormai cronicizzate.
Le forme di abuso subite da bambini e ragazzi sono molte: dalla patologia delle cure al maltrattamento fisico e psicologico, dalla violenza assistita a quella sessuale, e spesso sono interconnesse le une alle altre. Nel 91,4% dei casi, informa il report, il maltrattante è un genitore o un parente stretto. C’è poi un filo sottile che unisce il maltrattamento all’infanzia alla violenza di genere: nella grande maggioranza dei casi sono entrambi agiti in famiglia. Anche se da bambini ci hanno insegnato a non accettare le caramelle dagli sconosciuti e, da grandi, a non frequentare posti isolati, le statiche dimostrano che è più facile che il maltrattante abbia il volto di un familiare.
È forse anche per questo che entrambe le forme di violenza appaiono ancora oggi un tabù, qualcosa che non vogliamo vedere, ritenendo – erroneamente – che si tratti di fenomeni relativi a poche persone, per lo più marginalizzate. Come accennato, i dati restituiscono un quadro ben diverso. La violenza, sia nei confronti delle donne che dei minori, è un fenomeno strutturato e trasversale, che si può adeguatamente contrastare solo se si predispongono precise misure atte a conoscerlo (e riconoscerlo), per prevenirlo o rilevarlo precocemente. Questi passaggi, però, non appaiono affatto scontati, a maggior ragione quando al centro dei provvedimenti ci sono i bambini. Il fatto che il maggior numero dei casi in carico ai servizi sociali sia rappresentato da adolescenti testimonia proprio la difficoltà di intercettare il fenomeno dell’abuso quando il soggetto interessato non dispone degli strumenti per raccontare ciò che vive tra le mura domestiche.
Se intorno a reati come lo stalking vi è oggi una discreta attenzione, rispetto ad altri l’individuazione appare più complicata. La violenza economica, ad esempio, è un grande e sottostimato pericolo. Con questa espressione ci si riferisce a ogni forma di controllo perpetrato da una persona ai danni di un’altra mediante una serie di comportamenti, tra cui il diniego delle risorse economiche familiari, l’obbligo a contrarre debiti, il contrasto alla ricerca o al mantenimento di un lavoro, la sottrazione o la gestione dei documenti personali. Come è facile intuire, si tratta di una forma di violenza pervasiva, che pone la vittima sotto il totale controllo dell’autore di violenza, nella stragrande maggioranza dei casi un partner, un ex o un consanguineo, come nella vicenda di Saman Abbas.
La posizione di potere del maltrattante è mantenuta attraverso la paura: tutte le forme di violenza che si traducono in aggressioni fisiche sono sostenute da vessazioni psicologiche che portano progressivamente la vittima a dubitare di se stessa, di ciò che prova e delle proprie capacità. Le ricercatrici che si occupano di violenza di genere hanno coniato un termine più specifico di “violenza psicologica” per definire tutto ciò: il concetto di gaslighting. Quest’espressione, ricavata da un’opera teatrale del 1938, si riferisce a una sottile manipolazione psicologica finalizzata a portare la vittima a dubitare delle sue stesse percezioni, come accade alla protagonista della pièce che, in casa, nota una variazione nell’intensità delle luci a gas – alterate dal marito col preciso intento di condurla alla pazzia – ma nessuno le crede.
Nei confronti della violenza contro le donne vi è stata, a lungo, una totale accondiscendenza sociale e culturale. In Italia, il delitto d’onore e il matrimonio riparatore sono stati aboliti solo nel 1981 mentre la violenza sessuale è diventata un reato contro la persona solo nel 1996. Il nostro Codice Penale ha compiuto, negli ultimi decenni, una vera e propria rivoluzione introducendo nuovi reati atti a tutelare donne e bambini da ogni forma di maltrattamento. Nel 2019, grazie al “Codice Rosso”, sono diventati perseguibili reati quali le mutilazioni genitali femminili e i matrimoni forzati. Nonostante la rivoluzione sul piano legislativo, ancora manca un vero cambiamento sociale – e soprattutto culturale – che consentirebbe di guardare alla violenza in un’ottica educativa, più ampia, e non solo emergenziale, che porta chi opera nel settore a cercare di porre rimedio a eventi ormai conclamati e incancreniti.
L’assenza di una prospettiva socio-educativa con cui analizzare la violenza espone le vittime di maltrattamento a molti rischi perché spesso si sottostima la pericolosità del fenomeno. Non tutte le situazioni di maltrattamento sono individuabili immediatamente: al contrario, molti casi non vengono rilevati fino a quando non culminano in aggressioni o, nelle situazioni più gravi, con la morte della vittima. Molte volte si tratta di un problema di “inquadramento”: se per certi aspetti è più facile notare la violenza quando ad agirla è un uomo e a subirla la sua partner – magari adulta, italiana o ben integrata, capace di esprimere i propri bisogni – molto più difficile è metterla a fuoco quando colpisce una ragazza molto giovane, magari straniera – quindi cresciuta in un sistema socio-culturale molto diverso da quello del Paese di approdo – e a commetterla è un familiare, come accaduto alla giovane di Novellara. Senza poi contare le difficoltà di credibilità e comunicazione che si hanno nel caso in cui la vittima sia un minore.
Ciò che spesso può fare la differenza tra un intervento di successo e uno inefficace è la presenza di professionisti che sappiano riconoscere la violenza. Una procedura indispensabile, ad esempio, è la valutazione del rischio, che consiste in un’analisi, realizzata dalle operatrici dei Centri Antiviolenza, grazie alla quale indagare il fenomeno e collocare la vittima in sicurezza, impedendole ad esempio di entrare, da sola, in contatto con l’aggressore. Come sanno le persone che lavorano nel settore, “l’incontro chiarificatore” o il momento in cui una ragazza torna a casa per prelevare i suoi oggetti personali, come è accaduto a Saman Abbas, possono risultare fatali.
Proprio a causa della sua trasversalità, la violenza di genere colpisce indistintamente adolescenti e donne mature, italiane e straniere, mogli e figlie. Non tutte purtroppo accedono ai servizi erogati dai Centri Antiviolenza: la loro presenza sul territorio ancora non consente di coprire tutte le richieste. Ci sono inoltre molte persone che non approdano a questo tipo di servizio per mancanza di strumenti atti a individuare i loro bisogni o perché non orientate dal personale che incontrano sul loro cammino. Per queste ragioni la presenza di operatori formati in ottica educativa, di genere e interculturale dovrebbe essere garantita in ogni servizio che abbia a che fare con adolescenti, donne, straniere, migranti, per far emergere il fenomeno della violenza prima che per tante e tanti diventi un destino ineluttabile.