Alessandro Mahmoud, in arte Mahmood, nato nel 1992 a Milano è il vincitore di Sanremo 2019. La canzone che ha portato in gara si intitola “Soldi” e, a differenza di ciò che potrebbe far pensare il titolo, non tratta di ricchezza e ostentazione. Si tratta di un brano autobiografico: il ricordo di una famiglia di periferia, divisa da un padre assente che la abbandona, noncurante dei sentimenti della compagna e del figlio. I soldi, parola ripetuta più volte nella canzone, non sono altro che l’oggettificazione a cui si è ridotta la relazione tra padre e figlio, come se non ci fosse altro di importante.
Il genere si avvicina a quello pop soul e alternative/contemporary R&B: Mahmood dice di ispirarsi a cantanti come Beyoncé, Travis Scott e Frank Ocean, stili ben lontani da ciò che si è abituati ad ascoltare in Italia – ed è un bene che finalmente vengano introdotte e approfondite nuove correnti. Un’altra particolarità della canzone “Soldi” è la presenza di una frase in arabo, un elemento che fa emergere una parte delle origini di Mahmood e che ha suscitato qualche polemica.
Se da un lato la vittoria di Mahmood è stata interpretata da alcuni come “esempio di integrazione” per le sue origini in parte egiziane – come dimostrano i titoli del Corriere che definisce il cantante “L’inevitabile integrazione che arricchisce l’Italia”, o le parole di padre Enzo Fortunato, il quale afferma che “ha vinto l’integrazione” – dall’altro non sono mancate accuse insensate sulla manipolazione dei voti. Il Giornale ha perfino commentato la vicenda con “La sinistra lo ha fatto vincere”. In entrambi i casi non si parla di ciò che è davvero rilevante, ossia la musica. Il tutto viene ridotto a mera propaganda politica che si basa sulla morbosa messa in evidenza delle origini di Mahmood.
Il giovane cantante è infatti figlio di madre italiana, originaria della Sardegna, e di padre egiziano. È quest’ultima caratteristica a essere stata messa in primo piano rispetto alla sua bravura, tanto che Mahmood ha dovuto perfino “giustificarsi” in conferenza stampa dicendo che non entrerà in polemiche sui migranti in quanto “cento per cento italiano”. Un concetto scontato e talmente elementare che però non si riesce ancora a normalizzare: Mahmood diventa un esempio di integrazione quando di fatto non c’è nulla da “integrare”, dato che è nato e cresciuto in questo Paese. E benché sia lui stesso a ribadire e affermare di essere e sentirsi italiano, non manca chi invece vuole sottolineare le sue origini egiziane per forza per farne “politica d’opposizione” al governo come è successo poco tempo fa con il corazziere nero.
Tutta questa frenesia è nata anche dall’opinione espressa sui social del ministro dell’Interno Matteo Salvini, il quale non è sembrato affatto soddisfatto della vittoria di Mahmood, esprimendo la sua preferenza per un altro concorrente in gara, Ultimo. C’è da dire però che, in questo caso, Salvini non ha affatto nominato l’origine del cantante per farne protesta politica. Eppure c’è chi ha approfittato di questa occasione per rimarcarla e per fargli “un dispetto”, il quale si è rivelato un ennesimo assist nei confronti della sua retorica. E anche se non ci sono stati dei veri e propri partiti politici che si sono contesi il cantante, l’ossessione per quest’ultimo e le fazioni a squadre che si son create son state principalmente realizzate dalle persone sui social e da diverse testate giornalistiche, con titoli fuorvianti. Così Mahmood è diventato “baluardo” di integrazione e di antirazzismo, quando fino a pochi giorni fa era un ragazzo come tanti altri, con aspirazioni e voglia di esprimere la sua arte con la musica. È vero che c’è una parte d’Italia che, purtroppo, è ancora pronta a fare le pulci, rendendo le origini di una persona una questione Stato.
Un esempio è quello di Maria Giovanna Maglie, nota sovranista e probabile conduttrice di una striscia informativa da accompagnare al Tg 1. In un tweet ha tentato di demolire il cantante Mahmood sottolineando proprio le parole della canzone che rimandano alle sue origini, parlando di meticciato e strizzando quindi l’occhio a fanatici complottisti di sostituzioni etniche. Non sono mancate anche insinuazioni di cattivo gusto sulle modalità di voto e, come al solito, si è gridato al “complotto”. Perfino il ministro Luigi Di Maio ha preferito assecondare i “complottisti da tastiera” dicendo che il Festival di Sanremo dimostra la distanza tra “popolo”, ovvero gli spettatori del televoto, ed “élite”, la giuria, che non lo rappresenterebbe. Il vicepremier definisce i membri della giuria dei “radical chic” che non prestano attenzione alla volontà popolare. Ecco che l’evento di Sanremo diventa paradossalmente la rappresentazione di ciò che è diventato il dibattito pubblico-politico. Si parte da un argomento totalmente distante dalla politica italiana per poi finire con il doverla inserire per forza, per mera propaganda.
Con il televoto Ultimo aveva ottenuto il 46,5% dei voti, mentre Mahmood il 14,1%. Tuttavia, come ha spiegato il direttore e fondatore di YouTrend, Lorenzo Pagliasco, il vincitore di Sanremo ha ottenuto il 63% del voto delle giurie, ed è stato premiato secondo un regolamento chiaro e noto da tempo. Non si capisce quindi perché c’è chi parla di political correctness anche in questo caso.
Quando a vincere o a essere messa in risalto è una persona che ha del talento, ma che come “colpa” ha quella di avere origini diverse, viene giocata la carta del politically correct, come a voler insinuare che la vittoria sia stata data per compassione o per lanciare chissà quale messaggio, sminuendo le capacità di qualcuno. Tra i commenti ai post delle testate giornalistiche sul giovane cantante, si evince la frustrazione di diverse persone che non possono sopportare che un “egiziano” abbia vinto il più importante festival della musica italiana. Eppure non risulta che quando Ermal Meta vinse il Festival di Sanremo scorso ci fosse così tanta morbosità nel voler sottolineare le sue origini albanesi. Sembra quindi che ci sia un doppio standard che non si basa sul valutare semplicemente la musica prodotta da qualcuno, ma sui tratti somatici, sul nome, su parte del background culturale, sulla lingua e sulla provenienza.
Ermal Meta è un cantante nato in Albania e che poi è diventato cittadino italiano. Il suo nome non è di certo italiano, eppure è accettato da tutti. Probabilmente è più facile perché “somiglia” di più a un italiano a livello di tratti somatici con la pelle chiara. Altro caso analogo è quello di Anna Oxa, figlia di padre albanese e madre italiana e vincitrice del Festival di Sanremo del 1999. Anche lei dalla pelle chiara. Tuttavia i due cantanti vengono considerati italiani, non sono né eletti a baluardi di antirazzismo, né simboli negativi di “meticciato” o di sostituzione etnica imminente. Tantomeno si è parlato di political correctness.
Per Mahmood è successo il contrario: sarà per il nome d’arte non eurocentrico, sarà per la pelle olivastra, sarà per la scelta di quella frase in arabo, eppure non ha una storia così diversa dai sopracitati. C’è da ricordare che il suo nome all’anagrafe è Alessandro, che, a essere pignoli, è sicuramente più “italico” di Ermal, ma nemmeno questo basta per frenare le polemiche sulle origini di questo ragazzo. Mentre nessuno questiona sui meriti di Meta e Oxa ed entrambi vengono valutati per ciò che producono, a Mahmood sembra quasi solo riconosciuto di essere un ragazzo “italo-egiziano”, suscitando polemiche e sorprese, facendo scaturire strumentalizzazioni sterili.
C’è da chiedersi se si possa davvero parlare di una “vittoria” se la strada sembra essere ancora lunga per poter parlare di cantanti, attori o altri artisti limitandosi a ciò che sanno fare. Mahmood è un appassionato di musica, ha preso lezioni di canto ed è riuscito a realizzare gran parte delle sue aspirazioni, questo conta. È lui stesso a confermare che con la sua canzone abbia voluto semplicemente raccontare un’esperienza della sua infanzia. Si tratta di un racconto intimo che nulla ha a che vedere con la politica. E chi ha voluto strumentalizzare questo ragazzo non ha fatto altro che sminuire ciò che è, un cantante. A dirla tutta non ha nemmeno mai espresso preferenze politiche, non ha mai rivendicato posizioni di fronte alla stampa, eppure è stato sbandierato e utilizzato come un oggetto.
Di certo è innegabile che l’Italia, volenti o nolenti, stia diventando un Paese sempre più ricco di diversità. Un processo inevitabile e non ci sono intolleranti o malpensanti del politically correct che, per quanto frustrati, possano fermarlo.
Tuttavia rispondere a queste provocazioni sottolineando ancora una volta l’origine del giovane cantante, inneggiando alla vittoria dell’integrazione, non fa altro che evidenziare principalmente quanto Mahmood sia “diverso”. La “vittoria per l’Italia” si avrà non solo quando verranno sconfitte le campagne d’odio fatte di pregiudizi, complotti e xenofobia, ma quando non ci sarà più bisogno di tirare fuori i concetti di integrazione ogni volta che una persona italiana con diverse origini fa notizia proprio in ragione di esse.
Alessandro è un cantante nato a Gratosoglio, un quartiere di Milano, e ha vinto Sanremo, non c’è altro da aggiungere.