Su YouTube si trova un video caricato sul canale del Washington Post intitolato “Real men cry, just ask these guys”. In due minuti si vedono personaggi del cinema, sportivi e persino politici versare lacrime. Alla fine c’è una scritta che recita più o meno così: “Va bene, ragazzi. Potete farlo”. Tra i mille tabù che sopravvivono in una società ancora per molti versi machista, uno dei più duri a morire è quello che gli uomini non possano e non debbano piangere: troppo spesso vediamo ancora questo fatto come un simbolo di umiliazione e debolezza, anche se non lo è affatto. “Los chicos también lloran”, recitava lo slogan di una campagna della casa di moda spagnola Loewe: ma è davvero necessario pubblicizzare questo fatto come qualcosa di sorprendente oggi?
Da qualche tempo abbiamo iniziato a vedere un’inversione di tendenza, basti pensare al pianto di Nanni Moretti, una persona che generalmente viene considerata come tutta d’un pezzo, dopo la standing ovation ricevuta a Cannes per Habemus Papam. Persino l’attore “The Rock” Dwayne Johnson, che ha quasi sempre interpretato sullo schermo il ruolo del duro eroe d’azione, ha confessato le sue continue crisi di pianto dopo aver assistito al tentativo di suicidio della madre. E nel farlo stava dimostrando coraggio, non certo debolezza. Questo però non è sempre facile da capire in una società in cui il pianto maschile è da tempo stigmatizzato e quasi sempre tenuto nascosto senza nessun valido motivo.
Gli uomini devono aderire a uno stereotipo che va rinforzandosi in un mondo dove l’aridità è vista come un valore e la sensibilità un inutile orpello. Eppure non è stato sempre così: la nostra cultura è piena di uomini che piangono senza che questo intacchi la loro dignità, anzi. La prima volta che Ulisse appare nell’Odissea sta piangendo, e non si tratta di un caso isolato nella letteratura classica: nell’Iliade, Achille e Priamo si abbracciano e piangono insieme pur essendo nemici. Tutto ciò non ha alcun risvolto negativo per la loro credibilità nelle vesti di potenti guerrieri perché, come scrive Matteo Nucci: “In quelle lacrime si annidava il germe di un coraggio capace di superare qualsiasi altro coraggio. L’uomo che aveva la forza di piangere senza rendersi ridicolo era forse imbattibile”.
Molto tempo dopo, Dante presenta i personaggi di Paolo e Francesca ribaltando lo stereotipo che vorrebbe la donna fragile e completamente nelle mani di un uomo, tanto forte quanto incapace di provare emozioni. La tragedia dell’indissolubile coppia di dannati è riassunta in maniera asciutta e senza tentennamenti da lei, mentre Paolo partecipa al racconto piangendo in silenzio e a dirotto: in questo modo trova una maniera per esplicitare il dolore di entrambi, che l’amata non lascia apertamente trasparire. Non bisogna neanche pensare che il pianto maschile sia un’esclusiva della cultura occidentale Nell’epopea giapponese Heike Monogatari, che risale sempre al Quattordicesimo secolo, si dice in maniera chiara che un samurai deve saper versare le proprie lacrime al momento opportuno, senza vergognarsene.
È impossibile però individuare il momento esatto nella storia in cui il pianto maschile ha iniziato a essere stigmatizzato: si è trattato di una svolta graduale che si è trascinata per un paio di secoli. Ancora nel Settecento, si pensava che la capacità di un uomo di piangere fosse un indice di onestà e integrità morale. Negli anni Quaranta del secolo scorso, la giornalista Gretta Palmer certificò il cambiamento ormai avvenuto all’interno di un articolo per il Ladies Home Journal: ”Il pianto, al giorno d’oggi, è monopolio delle donne”. Un’esclusiva di cui si sarebbe fatto volentieri a meno. Nel 1980, esce poi una canzone che parla proprio del disagio di non poter esprimere attraverso un pianto catartico la propria tristezza per una storia andata male. “Boys don’t Cry” diventa una hit che scala rapidamente le classifiche e dà fama internazionale ai Cure. Doveva rappresentare solo il tentativo di realizzare una canzone pop anni Sessanta ma finirà per ispirare libri e film con lo stesso titolo.
Otto anni dopo l’uscita del pezzo omonimo, infatti, Sue Askew e Carol Ross pubblicano Boys Don’t Cry: Boys and Sexism in Education. Nel libro, le due autrici evidenziano come in ambito scolastico si costruisca quella che chiamano “un’atmosfera maschile” che contribuisce a diffondere e legittimare i valori comunemente associati a una mascolinità dominante. L’opera di Askew e Ross diventa il punto di partenza per un’investigazione in campo sociologico e pedagogico di stampo femminista che dura ancora oggi. Nel 2002, la psicoterapeuta messicana Marina Castañeda contribuisce alla riflessione scrivendo: “Ci sembra giustamente bello che le bambine possano crescere più libere che in passato. Non va però dimenticato che i bambini rimangono ancora intrappolati negli stereotipi di una mascolinità che si crede inviolabile e suggerita dalla biologia. È ingiusto che i ragazzi non possano ancora giocare con le bambole o ballare o esprimere liberamente la propria sensibilità”.
Le donne piangono più degli uomini ma non c’è alcuna ragione biologica che giustifichi questo: si tratta piuttosto del risultato di un’imposizione sociale che ha portato i maschi a inibirsi. Lo dimostra uno studio pubblicato nel 2002 sul British Journal of Developmental Psychology. La ricerca condotta da Miranda Van Tilburg, Marielle Unterberg e Ad Vingerhoets ha stabilito che i maschi e le femmine piangono allo stesso modo fino al raggiungimento della pubertà, quando il pianto smette di essere socialmente accettato se sei di sesso maschile. Convivere con tabù del genere può avere però conseguenze anche molto gravi.
L’abitudine a inibirsi, nascondendo i propri sentimenti, porta gli uomini ad avere molte meno probabilità di ottenere aiuto quando soffrono di depressione. È questa una delle ragioni per cui gli uomini che presentano patologie depressive cercano più spesso rifugio nell’alcol o nelle droghe e si suicidano il doppio delle donne. Spesso dietro all’apparenza si nasconde una forte vulnerabilità data dal timore di non sentirsi virili come il mondo fuori obbliga a essere. Paure del genere portano alla creazione di luoghi comuni che a volte possono farci sorridere, ma che in realtà rivelano un disagio più profondo. Una ricerca americana, per esempio, ha sfatato il mito che i film strappalacrime piacciano solo alle donne. Le ricercatrici hanno analizzato il diverso approccio dei due sessi nei confronti di film, sceneggiati e telenovelas dal forte impatto emozionale e hanno scoperto che questi prodotti creano coinvolgimento ed empatia anche nel pubblico maschile. Un dato interessante che emerge da questo studio è il fatto che mentre le donne tendono a preferire storie vere o verosimili, gli uomini sembrano essere più attratti da storie che sono chiaramente frutto di fantasia. Confrontarsi con una storia totalmente inventata permette quindi agli uomini di dimenticare le inibizioni sociali che li spingono a un minore coinvolgimento emotivo. Inserito in un contesto diverso e chiaramente inverosimile, l’uomo si sente libero di contravvenire a tante regole sociali implicite, compresa quella che impone di non piangere mai.
Oggi conviviamo ancora con la paura che le nostre lacrime possano diventare motivo di scherno. Il discorso che Michael Jordan tenne quando venne inserito nella Basketball Hall of Fame fu un commovente ed emozionante. L’ex campione di pallacanestro esordì dicendo: “Ho detto a tutti i miei amici che sarei venuto qui solo per dire grazie e andarmene”, ma le cose non andarono proprio come programmate. Jordan iniziò infatti a piangere copiosamente, commosso da quel gioco cui aveva dato tanto e da cui tanto aveva ricevuto. Le sue lacrime di quel giorno oggi sono la base di milioni di stucchevoli meme, quel pianto tanto liberatorio e significativo è stato svilito e sfruttato per farsi due risate facili. Man mano che certi ruoli e stereotipi di genere vengono superati, però, sempre più uomini hanno il coraggio di mostrare il loro lato più sensibile e i ragazzi che non hanno più paura di mostrare le loro fragilità e le loro lacrime sembrano essere in aumento, eppure rimangono spesso confusi su quanto possano effettivamente aprirsi senza subire ripercussioni.
In generale, per un uomo rimane non semplice esternare le proprie sensazioni, dal momento che fin da piccolo gli vengono spesso insegnate cose del tipo che se ci si fa male non bisogna piangere perché si è maschi. A forza di trattenere le proprie emozioni, molti uomini sviluppano un’inutile barriera e alla fine non riescono più a esternare nulla. Bisognerebbe evitare che questo accada, archiviando limitazioni che non hanno mai avuto veramente senso.