Sono ormai dieci anni che non viene convocata la conferenza nazionale sulle droghe. L’ultima è stata nel 2009, nonostante l’appuntamento avrebbe dovuto essere organizzato ogni tre anni secondo il Testo unico sulle droghe 309/90. Sono altresì passati 30 anni dall’approvazione della Iervolino-Vassalli, la norma che disciplina i reati legati agli stupefacenti e alle sostanze psicotrope, nonché la principale normativa che regola il sistema penale e l’accesso in carcere. Si tratta di un provvedimento figlio – almeno in parte – dei primi anni Novanta, quando Bettino Craxi tornava dagli Stati Uniti portando in Italia l’idea della tolleranza zero, e dava inizio alla guerra alle droghe sulla falsariga di quanto stava accadendo negli Stati Uniti di George H.W.Bush. Da allora un approccio che vede il carcere e l’azione penale come pilastri centrali delle politiche antidroga ha dominato quasi totalmente il nostro Paese.
La tolleranza zero è la formula con cui si è identificata buona parte della politica italiana, da Gianfranco Fini a Carlo Giovanardi, fino al Ministro Lorenzo Fontana, che oggi ha le deleghe per la lotta alle tossicodipendenze. L’approccio del pugno duro implica il concentrarsi sull’ordine pubblico e sulla limitazione dell’offerta di droga piuttosto che agire sulla domanda, e cercare con forza l’inasprimento delle pene per i reati di detenzione di sostanze stupefacenti, equiparando il piccolo spaccio al grande spaccio. È questo infatti che si ripromette di fare il decreto per l’abolizione della modica quantità. La legge ha previsto fino a oggi una distinzione tra detenzione di piccoli quantitativi di sostanze e detenzione di grandi quantità. La detenzione di grandi quantità è una delle condizioni, ma non l’unica, per la quale scatta la qualifica di spaccio (anche se non è solo la misura a far presupporre una distribuzione illegale ma anche le modalità con cui viene conservata la sostanza, per esempio se divisa in dosi). Il rischio di questa politica dura sullo spaccio e sulla detenzione è quello di fare confusione con i semplici consumatori, di concentrare le forze sui ‘pesci piccoli’ e solo sui sequestri. Ampliare il raggio di azione, e puntare al narcotraffico, sarebbe un indirizzo incoraggiato anche dall’ultima Relazione della DCSA, la Direzione centrale per i servizi antidroga. Questo serve a colpire le organizzazioni mafiose italiane, vero anello ‘forte’ della catena, ma anche quelle straniere. Concentrare gran parte dell’attenzione della lotta politica sullo spaccio e non sul narcotraffico internazionale, significa cacciare il pusher dei giardinetti e convivere con il boss che importa enormi quantità di droga dall’estero. Così, passata l’attenzione mediatica, lo spaccio torna forte quanto prima, oppure semplicemente si sposta in zone meno presidiate o usa canali diversi – come avviene per le sostanze ordinate per telefono o sul web.
Che non ci sia grande interesse a guardare oltre l’orizzonte punitivo lo dimostra il fatto che un Comitato nazionale di coordinamento per l’azione antidroga, organo che dovrebbe avere la responsabilità di indirizzo e di promozione della politica di prevenzione, non viene istituito dal 2000 – e questo nonostante le dichiarazioni dell’attuale ministro Fontana che aveva parlato dell’eventualità di “una sua riconvocazione per affrontare situazioni contingenti riguardanti la lotta alla droga”. Altri indizi sono offerti dal fatto che il Fondo nazionale per la lotta alle droghe è a quota zero da dieci anni, o che, durante il governo Renzi, il Dipartimento Politiche Antidroga sia rimasto senza direttore per molti mesi. Se è vero però che l’interesse verso un approccio più evoluto al contrasto delle tossicodipendenze è sempre stato basso, con questo governo sembra non averne affatto. Invece che rivedere la politica del pugno chiuso, il piano Scuole sicure di Salvini intende trasformare la scuola in un luogo di controllo degli stili di vita giovanili, con presidi di polizia e sistemi di videosorveglianza. Come se questo potesse funzionare nel prevenire l’uso e l’abuso di droghe. Il fatto che esistano approcci migliori lo prova il modello islandese, in cui la scuola è diventata il luogo dove fornire un’alternativa alla maniera di vivere il tempo libero, basata per esempio sull’accesso universale a programmi di educazione culturale e sportiva. In Italia, invece, la guerra alle droghe assomiglia più di più a una guerra alle persone che alle sostanze.
Il consumo e lo spaccio di droga, così come le dipendenze, sono un tema complesso; molti spacciatori sono tossicodipendenti e non tutti i consumatori hanno invece una dipendenza vera e propria. L’alternativa alla linea dura non è che le sostanze smettano di rientrare nell’azione di regolamentazione dello Stato o vengano distribuite come caramelle. E nemmeno che i problemi di ordine pubblico che ne derivano vengano ignorati. Ma se dopo anni di politiche di controllo siamo tra i primi posti in Europa per consumo, se le attività economiche connesse al mercato delle sostanze psicoattive illegali rappresentano circa il 75% di tutte le attività illegali e pesano per lo 0,9% sul PIL, se le morti correlate all’uso di droghe – così come i sequestri e i procedimenti penali per spaccio, produzione e detenzione – hanno registrato nel 2018 un aumento, qualche domanda sull’efficacia dell’approccio ce la dovremmo porre. Anche perché l’effetto più palese e misurabile di queste politiche è l’aumento della popolazione carceraria, un fenomeno di cui non abbiamo affatto bisogno viste le condizioni delle nostre carceri. In Italia, infatti, un terzo dei detenuti è dentro per reati previsti dall’art. 73 DPR n. 309/1990. Inoltre 4.118 dei 47.258 ingressi in carcere nel 2018 sono stati causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 (detenzione a fini di spaccio) della legge Iervolino-Vassalli del 1990.
Tuttavia, per pensare ad approcci alternativi rispetto a quelli che hanno dominato la politica antidroga nel nostro Paese fino a oggi, bisognerebbe superare quella mentalità che vede nell’abuso di stupefacenti la manifestazione di un comportamento criminale che va punito con la forza o raddrizzato con la cura medica – come è stato sottolineato dal Decimo libro bianco sulle droghe, un documento che ogni anno riassume il punto di vista di associazioni come la Luca Coscioni o Antigone, insieme a quello dei servizi sociali. Oggi sono in crescita i regimi di semilibertà, diverse forme di detenzione domiciliare e di affidamento in prova al servizio sociale, anche se se ne parla pochissimo.
La “riduzione del danno” è l’insieme degli approcci che tendono a prevenire o a ridurre in generale il consumo di droga. È basata sull’accettazione del fatto che molte persone nel mondo continuano a fare uso di sostanze psicoattive. Si tratta di una politica da attuare a livello di servizi sanitari e sociali, che combatta lo stigma negativo e la marginalizzazione causate da parole come ‘tossico’ o ‘bucatino’, che individui luoghi dove distribuire siringhe pulite, farmaci per contrastare e prevenire l’overdose e crei stanze del consumo dove assumere droghe in maggiore sicurezza. Luoghi protetti che possano persino avvicinare anche alla disintossicazione, anche se questa è vissuta come un’eventualità e non un risultato naturale.
In Italia, nel 2017, la riduzione del danno, è entrata nei LEA, i livelli essenziali di assistenza, rendendo di fatto possibile l’accesso a questo tipo di servizi. In Paesi come Francia, Portogallo e Spagna queste politiche hanno fatto registrare già da qualche anno un calo delle malattie infettive e dei decessi correlati al consumo di stupefacenti. Ma siccome nel nostro Paese manca ancora un piano nazionale per l’applicazione di questo approccio, si trovano servizi attivi solo a livello regionale, con grandi disomogeneità sul territorio.
Poi c’è il clima che è cambiato. Il legittimo desiderio di giustizia, di una società meno violenta e più funzionale che accomuna molte persone, si sposa con una politica sul contrasto alla droga che propone ricette che in questi anni, e lo dicono i dati, non hanno dato i risultati sperati. Nel 1993 gli italiani, con un referendum promosso dai Radicali, scelsero di non criminalizzare il consumo personale, abrogandone la punibilità. Oggi c’è da domandarsi se quel quesito avrebbe lo stesso esito, visto che siamo diventati un Paese abituato a dichiarazioni forti, all’idea che tutti i consumatori e i tossicodipendenti siano criminali, che maggiori pene e più condanne siano per forza sinonimo di un Paese più giusto, più sicuro e più efficiente e non semplicemente più autoritario.