Lino Banfi all’Unesco ha disorientato un po’ tutti. L’annuncio cum magno gaudio di Di Maio ha dato il via a una serie di sensazioni che vanno dal cringe al distopico, come se la politica italiana avesse ormai legittimato il fatto di sentirsi intrappolati in una puntata di Black Mirror. Quel che è passato quasi in secondo piano, e che invece rappresenta l’aspetto più inquietante dell’intera vicenda, è il discorso di Banfi, e in particolar modo la frase: “Le commissioni si sono sempre fatte con i plurilaureati, io invece porto un sorriso”.
Mentre il popolo del web si affannava a trovare la battuta più efficace, tra le richieste di portare Christian De Sica alla Nato e la pretesa di avere Alvaro Vitali come prossimo presidente del Consiglio, ci si è anche interrogati su questa scelta bizzarra del M5S. Probabilmente i vertici grillini hanno ritenuto necessario per il loro percorso politico allacciarsi a un’italianità stereotipata, quella del nonno un po’ sporcaccione che ricorda i tempi in cui spiava la Fenech sotto la doccia, l’Oronzo Canà della porta accanto che in vecchiaia si è trasformato in nonno Libero, senza mai perdere l’anima pecoreccia. È la “locura” di Boris: Banfi all’Unesco, così, de botto, senza senso. Ma Banfi è il meno colpevole di tutta questa vicenda: lui è un attore che ha svolto per decenni il suo lavoro – apprezzabile o meno, non siamo qui a discutere di questo – e probabilmente è anche una brava persona (è testimonial dell’Unicef da parecchi anni). Il problema è di chi lo ha scelto.
In primo luogo è una questione di credenziali. Lino Banfi non ha una laurea. Si è parlato in questi giorni di una fantomatica laurea honoris causa, ma chi l’ha tirata in ballo avrebbe fatto meglio a evitare. La questione riguarda un’università telematica fantasma finita al centro di un’indagine. L’università Giovanni Paolo I, infatti, si è fatta conoscere mediaticamente per aver dispensato lauree a destra e a sinistra. Oltre a Banfi, è bene ricordare i prestigiosi nomi di Ezio Greggio e Rocco Buttiglione. La procura di Roma ha però iniziato a indagare sull’università e sul suo fondatore, Luciano Ridolfi, smascherando la truffa. Ma soprattutto: Banfi non parla inglese. Al giorno d’oggi è una carenza professionale non indifferente, figuriamoci in un’organizzazione, l’Unesco, che è nata (nel 1945) con lo scopo di promuovere la pace e la comunicazione tra le nazioni con l’istruzione, la scienza, la cultura, l’informazione e la comunicazione. Comunicazione che non è ben chiaro come avverrà, visto che l’inglese è un tabù.
Di Maio c’ha scherzato su, puntando sull’effetto rassicurante di Banfi sugli italiani. Ricordando la la frase di qualche anno fa dell’attore pugliese: “Berlusconi? Io gli vorrò sempre bene e lo voterò sempre, anche se un giorno ammazza 122 persone” – che non solo un ambasciatore dell’Unicef dovrebbe evitare di dire, ma anche solo un qualsiasi essere umano – sembra che il M5S sia riuscito a incanalare da un lato la rabbia dei cittadini, dall’altro quel berlusconismo ormai al crepuscolo che doveva da qualche parte confluire. È stato facile, poiché il mezzo utilizzato è stato lo stesso: avvicinare il popolo alla politica attraverso una via distorta, quella di una vicinanza sterile che ha svilito le istituzioni. La nomina di Banfi all’Unesco è figlia delle scelte berlusconiane nell’ultimo ventennio, del concetto che “chiunque può farcela”, come se la politica fosse un gioco.
Viene da chiedersi il motivo di questa operazione, proprio perché Lino Banfi non porterà nulla all’Unesco. Il sorriso, dice lui, ma servirebbe ben altro: competenze, come prima cosa. Ovvero ciò che Banfi non può offrire, in un ruolo che ricoprirà portando solo il nome e poco più. Questa vicenda rappresenta da un lato la morte della meritocrazia, dall’altro l’emblema di una classe politica raffazzonata e allergica a parole come competenza. Quando viene fatto notare che Di Maio è passato dallo stadio San Paolo al Parlamento grazie a 189 preferenze su un blog, vengono mosse critiche, principalmente legate al classismo, che si allontanano dalla reale tematica, ovvero la deriva politica in fatto di capacità e credenziali. Lo stesso poi vale per il diploma ballerino della Fedeli e l’inglese farraginoso di Renzi. È un malcostume all’italiana, che però ha trovato nel M5S il suo massimo esponente.
Siamo diventati il Paese in cui la Castelli giustifica le sue castronerie con un “questo lo dice lei”, di fronte al curriculum di Padoan che dovrebbe farla impallidire. Il Paese dove Di Maio, dall’alto della sua laurea all’università della vita, pretende di dare lezioni sulla Costituzione a Mattarella, professore di diritto costituzionale dagli anni Sessanta. A imperversare è una presunzione figlia del qualunquismo. La cultura viene vista come un nemico da denigrare, lo studioso è un “professorone” che merita insulti perché “non capisce” i problemi della povera gente. Banfi è la rappresentazione dell’italiano verace e rassicurante, mentre il ricercatore costretto a emigrare in Belgio è possibilmente visto come un radical chic intellettualoide. Perché oggi “un sorriso” conta più di un pezzo di carta conquistato studiando e impegnandosi per anni, e dobbiamo farcene una ragione.
Sarebbe quindi necessario concentrarsi sul problema alla radice. Qualcuno ha travisato il concetto di democrazia rappresentativa, come se significasse portare al potere il rappresentante dell’italiano medio, uno come lui, e non invece essere rappresentati da chi ha quelle competenze che lui non può avere. Ogni ruolo ha la sua dignità, nessuno svilisce la carriera di Banfi o la dignità di chi vende aranciate allo stadio. Il problema subentra quando Banfi finisce all’Unesco e il venditore di aranciate – in quanto non laureato e senza le giuste credenziali, non in quanto venditore di aranciate – arriva a prendere decisioni fondamentali per questa e per le prossime generazioni.