Nel 2021, durante i Golden Globe, è andato in onda per la prima volta lo spot “Stream of Lactation” del brand Frida Mom, in cui si vedono mamme stanche e doloranti alle prese con l’allattamento tra tentativi di trovare la posizione giusta, foglie di insalata nel reggiseno e massaggi fai-da-te per gli ingorghi. L’effetto è a metà tra l’ironico e l’horror. Prima di allora non mi era mai capitato di vedere l’allattamento al seno rappresentato sotto questa luce. L’altra narrazione, invece – quella delle serafiche “Madonne con bambino”, dell’allattamento come massima espressione dell’endiadi madre-figlio e delle mamme-professioniste che allattano con praticità nelle pause dal lavoro e nei backstage delle sfilate – la conosciamo bene. Oggi, queste due versioni cozzano più che mai e le donne che si approcciano all’allattamento si trovano ingabbiate tra speranze, aspettative e pressioni sociali. A leggere i commenti delle neo-mamme che si riversano sui social per parlare delle loro difficoltà emerge molta solitudine: manca il sostegno familiare e comunitario di un tempo e il personale sanitario non sempre garantisce supporto sufficiente. Così si alternano post sul senso di colpa per non riuscire ad allattare, sul timore di aver rovinato per sempre il rapporto con il proprio bambino, richieste di rassicurazioni e sfoghi sulla paura di non essere delle brave mamme per aver “ceduto”, per scelta o necessità fisica e psicologica, al latte artificiale. Se, infatti, molte delle nostre mamme e nonne ci raccontano di aver alternato seno e biberon senza troppi drammi, oggi la scelta del latte artificiale sembra essere spesso accompagnata da un senso di fallimento e timore di giudizio.
Era il 1974 quando a Londra comparve per la prima volta un opuscolo pubblicato dalla Ong britannica War on Want dal titolo The Baby Killer. Nel testo si accusava la multinazionale svizzera Nestlé di trarre profitto dalle madri povere e spesso analfabete di Africa, Asia e America Latina spingendole a utilizzare il latte artificiale, creando in loro un bisogno che prima non avevano, distribuendo campioni gratuiti di latte in polvere negli ospedali e vestendo i rappresentanti di vendita con divise simili a quelle degli infermieri. In questo modo le mamme diventavano dipendenti dal latte artificiale che, però, non potevano permettersi. Finivano quindi per diluirlo troppo, con conseguente malnutrizione dei loro bambini e malattie legate ad acqua non potabile, mancata sterilizzazione dei biberon e refrigerazione. Scoppiò così uno scandalo e nel 1977, negli Stati Uniti, ci fu boicottaggio contro la Nestlé, sostenuto da organizzazioni non governative come l’International Baby Food Action Network (IBFAN) e Save the Children, che si estese poi in tutta Europa.
Per capire il cambio di tendenza nei confronti dell’allattamento artificiale che si verificò a partire dagli anni Ottanta non si può prescindere da questi eventi. Mano a mano che la comunità scientifica si univa nel sostenere i benefici del latte materno, infatti, l’approccio a quello in formula divenne sempre più restrittivo. Nel 1981, la trentaquattresima Assemblea Mondiale della Sanità adottò il Codice internazionale per la commercializzazione dei sostituti del latte materno, un codice non vincolante che, però, secondo i dati dell’Oms, è attualmente implementato in 136 Paesi su 194 tramite strumenti legislativi interni. In Italia, per esempio, il decreto 81/2009 vieta la pubblicità degli alimenti per lattanti “in qualunque modo, in qualunque forma e attraverso qualsiasi canale” con un’unica deroga per le riviste scientifiche purché non si sottintenda che “L’allattamento artificiale sia superiore o equivalente all’allattamento al seno”. Rispetto alle decadi precedenti, in cui l’uso del latte artificiale era normalizzato, si è adottato un approccio di tutela verso l’allattamento al seno in grado di limitare il più possibile le speculazioni capitalistiche e di affermare a livello globale i benefici ormai scientificamente accertati del latte materno. Eppure, oggi, nei Paesi occidentali è nato un altro tipo di dibattito. La rigidità delle posizioni del sistema sanitario sull’allattamento, per quanto necessaria da certi punti di vista e in alcuni contesti, rischia dall’altra parte di trasformarsi nell’ennesimo strumento per colpevolizzare le donne nelle loro scelte.
Allattare al seno è una pratica spontanea per gli esseri umani in quanto mammiferi, tuttavia, i tentativi di trovare soluzioni alternative sono riscontrabili già nelle civiltà antiche. Babilonesi, egizi, greci e romani facevano ricorso alle balie qualora le donne non potessero o non volessero farlo, abitudine che si diffuse nel corso dei secoli, al punto che si stima che, nel 1780, meno del 10% di tutti i bambini nati a Parigi venissero allattati dalle loro madri. Anche la ricerca di alimenti alternativi al latte materno per i neonati è antica: sono stati infatti ritrovati vasi di argilla a forma di seno, utilizzati come rudimentali biberon già nel 5000 a.C. Venivano riempiti soprattutto con latte bollito di capra, mucca o asina che, però, spesso risultava poco digeribile. Il primo latte in polvere venne sviluppato dal chimico tedesco Justus von Leibig nel 1865. Da allora l’alimentazione artificiale dei neonati si diffuse rapidamente: nel 1883 esistevano già 27 marchi registrati di alimenti per l’infanzia. I dati del National Fertility Survey mostrano che tra il 1911 e il 1915 le madri statunitensi che allattavano il loro primo bambino erano il 68%, negli anni Quaranta il 35% e l’28,3% negli anni Sessanta.
Il trend, come abbiamo detto, iniziò a invertirsi a partire dagli anni Ottanta, in seguito allo scoppiare dello scandalo e con la pubblicazione di svariati studi scientifici che dimostrarono i benefici del latte materno sulla salute di donne e bambini. Nel 1997 l’American Academy of Pediatrics pubblicò una dichiarazione che sosteneva la superiorità del latte materno rispetto a quello artificiale, posizione a oggi supportata anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Le linee guida dell’OMS, infatti, raccomandano l’allattamento esclusivo al seno a richiesta fino ai 6 mesi di vita del bambino da affiancare poi ad altri alimenti fino ai 2 anni di età. Secondo i dati Unicef del 2018, oggi il numero di bambini che vengono allattati al seno a un certo punto della loro vita è più alto nei Paesi in via di sviluppo (per esempio in Bhutan, Madagascar e Perù il tasso di allattamento è al 99%), e più basso in Paesi ad alto reddito, come Irlanda (55%), Stati Uniti (74%) o Spagna (77%). In Italia il tasso di allattamento al seno è all’86%, mentre le percentuali nei Paesi del Nord Europa superano il 90%. Sono, però, proprio le mamme che vivono nei Paesi occidentali, dove il latte artificiale può essere somministrato con bassi rischi a livello igienico, a smettere di allattare prima: nel 2015, in Italia, secondo la Società Italiana di Neonatologia (Sin) i bambini allattati a 4 mesi erano il 31% e a 6 mesi solamente il 10%. Eppure, le donne che per necessità o per scelta nutrono i bambini con latte artificiale – pur essendo la maggioranza – lamentano un forte stigma. Vengono infatti riportate emozioni negative come senso di colpa, rabbia, preoccupazione, incertezza e senso di fallimento, specie nel rapportarsi con il personale sanitario. Sono moltissime le donne che raccontano di aver subito ingerenze, commenti negativi e giudizi da parte del personale sanitario di fronte alle loro difficoltà nell’allattamento e spesso anche in quest’ambito si verificano episodi di violenza ostetrica.
Oms e UNICEF hanno stabilito regole molto restrittive che impongono al personale sanitario di promuovere l’allattamento al seno e di limitare il più possibile la scelta del latte artificiale. Questo approccio, però, spesso può portare a delegittimare le scelte delle donne e ad alimentare stereotipi di stampo patriarcale. L’esperienza dell’allattamento, infatti, è estremamente varia e personale. Le donne che scelgono di smettere prima dei 6 mesi o addirittura di non allattare lo fanno per motivi diversi, anche legati a specifiche esigenze lavorative, alla necessità di assumere particolare farmaci o al desiderio di non sentirsi vincolate costantemente al bambino, preferendo coinvolgere fin dall’inizio anche il partner o altri caregivers nella nutrizione del piccolo. Ma spesso si sentono considerate dalla società egoiste o cattive madri, che non fanno il bene del loro bambino, tanto da arrivare a mentire preferendo dire di non avere abbastanza latte pur di evitare di dover costantemente giustificare le proprie scelte.
Il fatto che l’allattamento al seno porti benefici alla salute di mamma e bambino è dimostrato da molti studi. Tuttavia, trasformare “Il seno è meglio” in un diktat e rendere tabù qualsiasi discorso sul tema che introduca delle sfumature rischia di appiattire il dibattito senza tener conto del variare delle condizioni personali e ambientali delle singole mamme. Non tutti i benefici dell’allattamento presentati come “provati scientificamente”, infatti, sono supportati da studi ugualmente attendibili. Mentre alcuni benefici, come per esempio la protezione da infezioni gastrointestinali e all’orecchio e, per le mamme, una diminuzione del rischio di tumore al seno, sono ormai ampiamente provati, altri, specie se a lungo termine, lo sono meno o non lo sono affatto. Nel suo libro Cribsheet: A Data-Driven Guide to Better, More Relaxed Parenting Emily Oster, professoressa di economia alla Brown University, esperta di statistica in ambito sanitario, passa in rassegna la letteratura scientifica sul tema, analizzando le diverse tipologie di studi e classificandoli sulla base del livello di affidabilità. Gli studi che mettono in relazione il QI o l’obesità all’allattamento, per esempio, sono spesso influenzati da variabili come il grado di istruzione e di povertà delle donne prese in esame e mostrano risultati diversi quando si vanno a prendere in considerazione bambini con la stessa madre, con e senza allattamento.
Più informazioni – spogliate da ideologie e calate nel contesto – sarebbero quindi fondamentali per ridurre lo stigma legato all’allattamento artificiale, senza per forza allontanare le donne da quello al seno, anzi. Inoltre, sarebbe necessaria più assistenza specifica per sostenere proprio quelle mamme che vorrebbero allattare al seno ma che per diverse ragioni necessitano di più cure. A oggi, in molti contesti, manca ancora un sostegno sanitario e sociale adeguato per allattamento al seno, così come informazioni dettagliate sull’alimentazione artificiale, ma le donne desiderano sempre più essere informate in maniera oggettiva. Secondo le linee guida di Oms e Unicef, infatti, nei corsi di accompagnamento alla nascita il personale sanitario non può nemmeno fornire apertamente informazioni sul latte in polvere, ma deve limitarsi a rispondere singolarmente alle domande delle donne. In questo modo, però, le puerpere si ritrovano sole e sono spinte a rivolgersi a professionisti a pagamento, rischiando magari di affidarsi a reti di consulenze non sicure, che alimentano a loro volta stereotipi e sensi di colpa.
La sanità pubblica dovrebbe impegnarsi a fornire alle madri un sostegno all’allattamento completo e privo di omissioni, riconoscendole come individui in grado di prendere decisioni informate e consapevoli per il benessere loro e dei loro figli, e non come soggetti da plasmare e vincolare, imponendo loro col ricatto emotivo ciò che si ritiene essere la cosa migliore, e che invece in alcuni casi crea danni gravissimi.