Dopo le notizie degli stupri di gruppo a Palermo e a Caivano, in provincia di Napoli, si è tornato a parlare anche nel nostro Paese dell’importanza del consenso. Di recente, infatti, diversi Paesi europei si sono dotati delle cosiddette “leggi sul consenso” e anche il Parlamento europeo ha proposto di introdurre una definizione di stupro come di “sesso senza consenso”.
In generale, esistono due approcci per definire il reato di violenza sessuale: l’uso della forza e la presenza del consenso. Nel primo caso, come per la legge italiana, la violenza sessuale è definita come la costrizione “a compiere o subire atti sessuali […] con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità”. In sede penale, questo in molte occasioni si traduce nell’analisi della reazione della vittima, da cui spesso dipende la sua credibilità: nel 2013, per esempio, il tribunale di Lodi aveva assolto un uomo dall’accusa di violenza sessuale perché la vittima aveva accettato un passaggio a casa da lui dopo l’abuso. In appello, la sentenza è stata ribaltata e la condanna è stata poi confermata nel 2020 dalla Cassazione, che ha ribadito che la reazione della vittima era compatibile con una violenza.
Anche se parte della giurisprudenza non ritiene più necessaria la manifestazione di dissenso ma sostiene che sia sufficiente la mancanza di consenso, si assiste ancora alla pronuncia di sentenze che ignorano questa impostazione e continuando ad applicare il cosiddetto “modello vincolato”, dove conta solo la costrizione che la vittima deve dimostrare di aver subìto. Nei Paesi dove invece la definizione del reato si basa sul consenso, la reazione della vittima è del tutto irrilevante e quello che conta è che abbia acconsentito o meno all’atto sessuale. Il consenso non deve essere necessariamente manifestato a parole e deve essere valido per tutta la durata del rapporto sessuale. Questo significa che se una persona revoca il suo consenso una volta iniziato l’atto e l’altra ignora questo segnale, è comunque integrata la violenza sessuale.
Negli ultimi anni, il tema del consenso è diventato centrale quando si parla di violenza di genere. Il caso #MeToo, in particolare, ha mostrato come la violenza e le molestie sessuali possano essere più subdole di quanto crediamo e quanto il nostro immaginario sia ancora erroneamente ancorato a casi limite e situazioni inequivocabili, dove c’è una vittima dal comportamento perfetto e un aggressore violento e cattivo. L’idea di consenso che si sta sempre più diffondendo è invece quella del “consenso affermativo”, ovvero non presunto, ma dato con entusiasmo e partecipazione, che avrebbe la funzione di rendere il rapporto non solo sicuro, ma anche più piacevole.
Manon Garcia, nel libro Di cosa parliamo quando parliamo di consenso, scrive che il consenso “ormai ci appare come il perfetto criterio di discrimine fra il bene e il male, fra ‘buon’ sesso e stupro”, diventando una sorta di panacea di tutti i mali. Anche nel dibattito di questi giorni, di fronte a casi così eclatanti e gravi, la risposta più gettonata è stata quella di richiamarsi alla necessità di educare le persone a dare e riconoscere il consenso sessuale. Per quanto lodevole sia l’intento di questo appello, però, negli ultimi tempi l’infallibilità dell’approccio è stata messa in discussione anche da alcune pensatrici femministe. Il femminismo ha infatti avuto un ruolo centrale nel cambiare la nostra concezione di violenza sessuale.
Nel saggio Contro la nostra volontà, Susan Brownmiller per prima ha spiegato come lo stupro sia una questione di potere prima ancora che di desiderio sessuale, per ribadire il dominio maschile mantenendo le donne in uno stato di costante paura. Mentre le attiviste creavano i primi centri antiviolenza negli anni Settanta, lo slogan del femminismo contro la violenza sessuale era: “No significa no”, per smentire la radicata convinzione che anche quando le donne dicono di “no” sotto sotto vogliono dire “sì”, o comunque possono essere convinte del contrario. Negli ultimi anni, però, questo slogan è diventato: “Solo sì significa sì”, tanto che una delle prime leggi sul consenso, approvata in California nel 2014, si chiamava appunto “Yes Means Yes”. Come spiega Katherine Angel in Il sesso che verrà. Donne e desiderio nell’era del consenso, il consenso affermativo si è diffuso a livello giuridico negli Stati Uniti negli anni Novanta, in seguito ad alcuni casi di stupro avvenuti nei campus delle università. Si voleva superare l’idea che le donne fossero soltanto vittime passive della violenza maschile, affermando un loro ruolo attivo nella dinamica sessuale. Nel sesso, le donne avevano il potere di dire “sì” e non soltanto “no”.
Il contesto in cui è avvenuto questo cambio di paradigma è quello delle cosiddette feminist sex wars, che vedevano da un lato le femministe radicali che consideravano ogni rapporto eterosessuale penetrativo come il preludio allo stupro e dall’altro le cosiddette femministe “sex positive”, che ponevano l’accento sulla partecipazione attiva delle donne al sesso, sottolineando gli aspetti di desiderio e autodeterminazione. Il concetto di “consenso affermativo” è figlio di quest’ultime riflessioni e, secondo Angel, si fonde alla retorica molto diffusa nel femminismo di terza e quarta ondata che le donne “possono tutto”, compreso evitare con la sola presa di parola la violenza sessuale. Secondo Manon Garcia, il problema del consenso sta proprio nel suo essere considerato allo stesso tempo uno strumento legale e morale.
La nozione di consenso nasce infatti dal diritto e viene intesa come il risultato di un accordo che dà luogo a degli obblighi. È però difficile applicare in modo infallibile questa nozione al sesso, che non è un semplice contratto fra due o più persone, a maggior ragione perché il consenso sessuale è carico di valori morali. Il consenso, prosegue Garcia, distingue non solo il sesso giusto (right) dal sesso sbagliato (wrong), ma anche il sesso buono (good) dal sesso cattivo (bad). Nella realtà, però, ci sono miriadi di casi che sfumano le linee di questa distinzione netta: fare sesso con il o la propria partner anche se non si ha tanta voglia equivale a uno stupro? Annoiarsi durante il sesso e non vedere l’ora che finisca significa subire una violenza sessuale? E se non ho dato alcun segnale al mio o alla mia partner di questa volontà, mi rendo responsabile o complice di questa violenza?
Il punto, secondo queste studiose, è che “il desiderio non esiste mai in isolamento”, come scrive Angel. Innanzitutto, la sessualità femminile e quella maschile non sono valutate nello stesso modo all’interno della società e l’idea che il consenso espresso da un uomo e quello espresso da una donna si equivalgano rimane puramente teorica. Si crede ancora che il consenso di una donna, che sia espresso con entusiasmo o meno, sia una resa o una concessione, se non addirittura una rinuncia a qualcosa, come nell’espressione “lei te la dà”. Allo stesso tempo, la retorica del consenso affermativo pretende che le donne siano sempre consce e sicure del proprio desiderio, pur vivendo in una società che lo demonizza e reprime in maniera costante. Il rischio è che la responsabilità dell’interazione sessuale finisca di nuovo col cadere tutta sulle sue spalle: lei deve essere sicura, desiderante, educata e consapevole per esprimere il suo consenso e solo così è possibile “stabilire se le azioni dell’uomo fossero o meno giustificate. Il desiderio femminile può discolpare l’uomo”. Una dinamica del genere non è solo un’ipotesi peregrina. In Spagna, per esempio, la legge sul consenso di recente approvazione sta creando questo problema, oltre ad aver ridotto le condanne del 40% di coloro che hanno fatto ricorso dopo che si è deciso di accorpare diversi reati in un’unica fattispecie, che prevede meno anni di reclusione. Se un uomo, per esempio, possedesse un video di una donna che acconsente a un rapporto sessuale, sarebbe praticamente impossibile dimostrare che in seguito questa ha revocato il suo consenso.
In Italia, molte femministe e diverse associazioni – come Amnesty International – vorrebbero cambiare la legge sulla violenza sessuale, facendola diventare una legge sul consenso come quella già presente in altri 16 Paesi europei. Ma una legge del genere sarebbe applicabile in un Paese come il nostro, dove l’opinione pubblica riesce ad addossare alla vittima la responsabilità di uno stupro così grave ed efferato, nonché documentato, come quello di Palermo? Dove la nomea di “ragazza facile” riesce a scagionare gli imputati anche a fronte di numerose prove contro di loro? Se è vero che abbandonare il criterio della forza significa riconoscere come violenze anche quelle che normalmente non vengono considerate tali, come gli stupri coniugali, dall’altro non bisogna guardare al consenso come alla soluzione definitiva alla violenza sessuale, se non cambia tutto ciò che vi sta intorno.
Se le leggi favoriscano o meno i cambiamenti culturali è un dibattito che non trova una risposta certa, ma anche uscendo dal perimetro della giurisprudenza il consenso non può essere visto come una bacchetta magica che cancella di colpo la violenza sessuale. La proposta di Katherine Angel è coraggiosa: se la retorica del consenso cerca di rendere le donne inviolabili, l’unico modo per uscire dall’impasse che crea è proprio quello di riconoscere la vulnerabilità del desiderio sessuale, non solo femminile. Questo significa allontanarsi dall’idea che le donne libere siano soltanto quelle invincibili e infallibili e ritornare all’idea che la responsabilità di evitare lo stupro è di chi è intenzionato a stuprare, non di chi ne è potenziale vittima.