Da anni gli operatori del settore editoriale lanciano l’allarme: nel nostro Paese si legge troppo poco. Stando ai dati diffusi dall’Osservatorio dell’AIE (Associazione Italiana Editori) nel corso dell’ultimo Salone Internazionale del Libro di Torino, in Europa solo Slovenia, Grecia, Cipro e Bulgaria registrano numeri peggiori dei nostri per quantità di lettori (il 64% degli italiani dichiara di leggere, ma una rilevazione Istat del 2017 dimostrava che solo il 41% della popolazione leggesse almeno un libro all’anno per motivi non professionali). Il mercato dei libri è a tutti gli effetti, dunque, un mercato di nicchia, e malgrado i dati parzialmente in controtendenza relativi al primo quadrimestre del 2019 (che vede un aumento del fatturato dell’editoria, a fronte però di un minor numero di libri venduti), il trend del medio-lungo periodo è quello di un mercato che non cresce da ben diciassette anni, e dà anzi segnali di contrazione.
Con un quadro come quello descritto, non stupisce quindi che sia in diminuzione il numero delle librerie: in Italia quelle “pure”, cioè escludendo dal conteggio fumetterie, cartolerie e altri punti vendita che non hanno nel libro il proprio prodotto esclusivo, sono poco più di duemila, il 41% delle quali sono librerie cosiddette indipendenti. E sono proprio queste ultime a pagare il prezzo più alto di questa crisi; basti pensare che solo tra il 2010 e il 2016, sono scese da 1115 a 811, numero che negli anni successivi si è ulteriormente assottigliato, con la scomparsa di librerie storiche: nella sola Roma hanno chiuso i battenti, fra le altre, la Libreria Croce, la Libreria del viaggiatore, Fanucci, Fandango Incontri e Bibli, veri e propri punti di riferimento culturale della città, alcuni dei quali attivi da decenni. E altrove non va meglio: i lettori milanesi hanno dovuto rinunciare agli Archivi del Novecento, alla Libreria del Giallo, a quella di Porta Romana e alla Libreria del Corso in Buenos Aires, solo per citarne alcune.
Per correre ai ripari, il 4 febbraio il Parlamento ha approvato la cosiddetta “Legge per la lettura”, che contiene una serie di misure volte ad accrescere il numero dei lettori, ma soprattutto a tutelare le librerie indipendenti dall’aggressività del mercato, che le vede soccombere sotto i colpi delle librerie di catena (cioè di proprietà di gruppi editoriali) e della grande distribuzione online, capeggiata da Amazon. Accanto ad alcune iniziative, la cui efficacia è tutta ancora da verificare, come la creazione della Capitale del libro, l’Albo delle librerie indipendenti di qualità e una card acquisti da spendere in libreria per famiglie in difficoltà, la Legge per la lettura prevede una tax credit di 3,25 milioni di euro e soprattutto una nuova regolazione degli sconti, che li limita al 5% (il vecchio tetto era del 15%) e prevede la possibilità di maggiori ribassi soltanto in determinate finestre temporali (con un limite che per gli editori si riduce dal 25% al 20% e con la novità che verrà permesso anche ai librai di stabilire periodi di promozione con sconti del 15%).
Proprio quest’ultima misura, largamente invocata dall’ALI (Associazione Librai Italiani), è quella che ha suscitato il dibattito più acceso: da una parte appunto i librai e il MiBACT, con Dario Franceschini che la saluta come “un importante passo avanti per il sostegno all’editoria”, dall’altra l’AIE (Associazione Italiana Editori) che attraverso il suo presidente Riccardo Franco Levi ha ripetutamente espresso un giudizio negativo sugli effetti della Legge, affiancato da altre autorevoli voci come quella dell’economista Michele Boldrin che ritiene la regolazione degli sconti inefficace e denuncia il rischio che a pagare il prezzo di questa scelta alla fine siano i lettori, costretti ad acquistare libri più cari. C’è anche chi ritiene che la legge non riuscirà a invertire il trend che vede scomparire le librerie indipendenti, ricordando come un analogo provvedimento del 2011 (che appunto fissava il limite degli sconti al 15%) non avesse prodotto il risultato sperato. Allora, contro il provvedimento giudicato illiberale, si era mosso anche l’Istituto Bruno Leoni, che si era appellato al Presidente della Repubblica perché non lo firmasse. Sebbene, come fa notare il SIL (Sindacato Italiano Librai Confesercenti), la recente regolamentazione dei prezzi allinei l’impianto normativo della filiera italiana del libro ai migliori standard europei, ha oggettivamente buone ragioni anche chi, come Serena Sileoni sul Foglio, la definisce una misura protezionistica e inefficace, soprattutto alla luce del fallimento dell’iniziativa del 2011 – anche se, non avendo controprove, non possiamo sapere se senza quella norma il numero di librerie indipendenti chiuse nel periodo in cui è stata in vigore sarebbe stato maggiore. Ma se si tratta di contestazioni che hanno un fondamento dal punto di vista delle mere dinamiche economiche, non può sfuggire come queste stesse manifestino il loro limite proprio nel non considerare che il libro, oltre che una merce, è anche veicolo di trasmissione del pensiero, ragion per cui le librerie indipendenti non sono solo semplici esercizi commerciali. Ognuna di esse infatti, fa scelte diverse, anche valorizzando il ruolo di mediatore culturale del libraio, ultimo baluardo della bibliodiversità e principale interlocutore degli editori indipendenti.
Anche Massimo Bray, oggi presidente del Consiglio d’amministrazione della Fondazione per libro, la musica e la cultura, che è stato anche ministro per i Beni, le attività culturali e il turismo, ha messo in guardia sul rischio di ricondurre la necessità di promozione e diffusione del libro soltanto ai “dominanti termini economicisti, per rilanciare il settore dell’editoria in crisi”, ricordando come in gioco ci fosse anche la necessità di consentire una cultura diffusa, vera garanzia della democrazia. Se a questo aggiungiamo come le librerie indipendenti abbiano dato prova di costituire dei veri e propri centri di aggregazione e discussione sul territorio, ne deriva come possa essere un errore affrontare la loro riduzione con gli stessi parametri con cui si analizza la chiusura di altre attività commerciali, sostituite da grandi punti vendita in seguito a dinamiche di mercato.
E qui emerge il secondo limite della critica liberista alle misure di sostegno alle librerie indipendenti: essa si basa su un’analisi che tiene conto solamente dei “saldi”. Se la grande distribuzione e le librerie di catena sono più efficaci delle librerie indipendenti, si sostiene, vuol dire che i consumatori hanno scelto quel mezzo e che queste ultime sono destinate a essere soppiantate. L’importante, per i critici liberisti, è che i libri vengano venduti e non saranno le misure protezionistiche ad aumentare i lettori. Anche se questa è un’analisi formalmente corretta, è tuttavia sostanzialmente incompleta, dal momento che non tiene conto della pericolosità che in un mercato come quello del libro si verifichino gravi squilibri nella distribuzione, con un numero sempre più esiguo di operatori in grado di scegliere quali siano i libri a dover arrivare sugli scaffali dei punti vendita e di conseguenza fra le mani dei lettori.
Attualmente le librerie di catena possono già contare su accordi vantaggiosi con le maggiori case editrici (anche perché come nel caso di Mondadori e Feltrinelli, per fare un esempio lampante, i due soggetti sostanzialmente coincidono) in merito ai diritti di resa e al credito, senza sottovalutare il fattore sconto che la recente legge prova a disinnescare. Se si aggiunge che nelle grandi catene la disposizione, la promozione e la permanenza dei libri non è rimessa alla sensibilità del libraio, ma a indicazioni che tendono a renderle tutte uniformi e, aspetto da non sottovalutare, a favorire le case editrici legate alla proprietà della catena stessa, appare chiaro come il pluralismo del settore sia a rischio.
Che il contributo dei librai indipendenti sia prezioso, d’altronde, lo testimonia paradossalmente anche Stefano Mauri, presidente del gruppo Gems e vicepresidente di Messaggerie italiane, fra le maggiori società di distribuzione del libro, riconoscendo che “i librai indipendenti conoscono meglio il contenuto dei volumi che vendono” e che è importante che non scendano sotto una certa soglia perché l’editoria non diventi troppo “d’allevamento”. Mauri aggiunge anche che “con presentazioni, informazioni sui social e corsi di ogni genere, questi negozi diventano veri e propri centri culturali”. Se ciò non certifica necessariamente la qualità dei consigli del libraio, attribuisce a esso un importante ruolo nella promozione della lettura e nella diversificazione dell’offerta. È paradossale che un simile apprezzamento giunga da un top manager dell’azienda leader nella distribuzione nazionale, perché è proprio questa distribuzione a rappresentare il principale ostacolo che i piccoli editori devono superare per arrivare alle librerie di catena. Le condizioni poste dalla grande distribuzione sono infatti molto onerose, non solo dal punto di vista dei costi percentuali sul prezzo di copertina (che possono arrivare fino al 60%), ma anche del numero minimo di copie e di titoli che l’editore dovrebbe garantire e che un piccolo editore fatica a produrre, venendo di fatto posto in condizioni di minore accesso al mercato. Se a ciò aggiungiamo che i proprietari delle società di distribuzione più grandi possono coincidere con quelli delle principali case editrici, è chiaro come non solo la bibliodiversità, ma anche la libera concorrenza sia messa a rischio. Per comprendere le dimensioni del fenomeno, può essere utile fornire qualche numero: la citata Messaggerie Italiane, proprietaria della holdig GeMS (secondo gruppo editoriale italiano), dopo aver acquisito sul mercato il suo principale rivale Pde, prende parte a un duopolio che con Mondadori-Rizzoli (primo gruppo editoriale italiano, oltre che distributore), occupa complessivamente circa il 95% del mercato della distribuzione libraria.
In questo quadro si inserisce la volontà del legislatore di regolare gli sconti. Per capire l’impatto che gli sconti selvaggi hanno sul mercato del libro è sufficiente tener presente che a parità di fatturato negli ultimi anni il numero di libri venduti è sceso; contestualmente, con l’aumentare degli sconti è cresciuto anche il prezzo di copertina dei libri. Di fatto quindi, il famoso risparmio del consumatore è stato abbondantemente ammortizzato dall’aumento dei prezzi, determinato da case editrici che spesso sono proprietarie anche del punto vendita che applica gli sconti. A essere tagliata fuori da questa dinamica non è certo la grande distribuzione online, che in virtù dei suoi numeri è in grado di reggere l’urto e strappare accordi reciprocamente vantaggiosi con la grande editoria, ma è proprio il libraio indipendente, che non può farsi carico del deprezzamento del bene-libro in virtù dell’esiguo margine sul prezzo di copertina (indicativamente circa il 30%, a fronte del 55% del distributore e dell’8% dell’editore, che però talvolta coincidono) e che si vede costretto a venderlo a un prezzo più alto, stabilito da chi è proprietario delle librerie di catena, cioè la sua stessa concorrenza.
Un circuito perverso questo, che la Legge sulla lettura si propone di spezzare, anche se sono in molti a giudicarla una misura ancora insufficiente. Altro aspetto da non sottovalutare è che spesso queste librerie si trovano in piccole comunità, dove una grande catena non avrebbe interesse a investire: al Sud ad esempio ben un terzo dei comuni con più di 10mila abitanti non ne ha nemmeno una. Una questione che si inserisce nel contesto più ampio dello spopolamento dei piccoli centri, dovuta anche alla sparizione di esercizi commerciali storici e botteghe artigianali che, per ammissione dello stesso ministro Dario Franceschini “hanno un valore sociale, aggregativo, identitario che va ben oltre il valore assoluto della libertà d’impresa e del valore dell’attività commerciale”.
Sebbene siano in sofferenza, per molti lettori (il 24% del totale) le librerie indipendenti rappresentano ancora la principale opzione per l’acquisto dei libri. Si tratta di un numero importante, spesso composto da utenti che partecipano attivamente alla comunità che si crea attorno alla libreria, grazie alle diverse attività culturali che i librai organizzano. Oggi la politica propone una soluzione che potrebbe risultare inefficace, ma lo sono anche le critiche sollevate basandosi sui soli parametri della domanda e dell’offerta, che non riconoscono l’importanza del libro, la necessità di una pluralità di operatori che lavorino per la sua diffusione e il valore di luoghi di aggregazione socioculturale che possano nascere intorno a esso.