Le immagini da Beirut, dopo le esplosioni del 4 agosto, descrivono una devastazione che va ben oltre le strutture del porto. Strade e interi palazzi della capitale libanese sono sventrati, tre degli ospedali che dovrebbero curare le migliaia di feriti sono “completamente distrutti”, come ha denunciato l’Ordine degli infermieri del Paese. Lo stesso neo premier Hassan Diab non ha esitato nel definirla una “catastrofe”, “senza precedenti” anche per il partito armato Hezbollah che, con Israele, nega ogni responsabilità sull’accaduto. L’esplosione di tonnellate di una sostanza tossica e infiammabile come il nitrato di ammonio, che per il primo bilancio della Croce rossa ha ucciso almeno 135 persone (ma si temono centinaia di dispersi), è probabilmente la catastrofe peggiore che si potesse immaginare per il Libano: testimoni sopravvissuti anche alla lunga guerra civile affermano di non aver mai provato prima di questo 4 agosto qualcosa di così scioccante. L’esplosione, però, è stato solo il capitolo più grave della storia libanese degli ultimi mesi: tra il 2019 e il 2020 una crisi economica gravissima ha fatto sprofondare l’ex Svizzera del Medio Oriente in una condizione di difficoltà senza precedenti, almeno dalla fine della guerra civile del 1975 -1990.
A luglio l’agenzia di rating Moody’s ha declassato il Libano al grado C della solvibilità del debito. L’ultimo, equivalente alla “spazzatura”, come il Venezuela. Lo ha fatto per le perdite del 65% sulle obbligazioni legate al Paese, e per degli indici economici e finanziari nel complesso ancora peggiori (per la scarsità delle risorse energetiche e le ridotte dimensioni del territorio libanese) di quelli del regime di Caracas. Il Pil nazionale era già in calo del 5,6% nel 2019, secondo i dati della Banca mondiale, dato aggravato dai lockdown a intermittenza che sono diventati necessari a causa dell’epidemia di COVID-19. Le previsioni fino al 2021 sono nere anche secondo il governo, a causa della “rapida svalutazione in corso della valuta”: un’inflazione che Moody’s stima a un livello di “quasi il 90%, su base annua a giugno 2020, rispetto al 6,7% di fine 2019”, che sta bloccando anche le importazioni di beni di consumo e di materie prime indispensabili per la produzione industriale. Ogni volta che il Libano riapre dopo un lockdown, come tra aprile e maggio, una folla di libanesi torna in piazza per le proteste che agitano il Paese dall’autunno del 2019. Le manifestazioni alla fine dell’anno hanno costretto alle dimissioni del premier Saad Hariri.
A marzo è stato di fatto dichiarato il default, mentre a maggio sono iniziati i negoziati finora inconcludenti per ricevere aiuti dal Fondo monetario internazionale (Fmi). In questo scenario molti analisti temevano che Beirut conoscesse una nuova stagione di violenza per il livello ingestibile delle tensioni e per le armi ancora in circolazione in città e nei depositi di Hezbollah. Ma fino alle esplosioni del porto l’allerta globale per la pandemia aveva sovrastato anche l’attenzione per lo stato sempre più drammatico, e potenzialmente irreparabile, del piccolo Paese cerniera del Medio Oriente, riuscito a superare le Primavere arabe e l’altro numero di profughi arrivati dalla Siria durante i nove anni di guerra civile – tutto questo nonostante il Libano sia da anni logorato da una pax molto armata con Israele. Aver scongiurato, nonostante l’alta densità abitativa e i continui assembramenti per le proteste, anche il collasso sanitario per il COVID-19 (65 morti e meno di 5300 casi rilevati ufficialmente nel Paese), aveva tenuto lontana la bancarotta libanese dalle cronache internazionali. Gli eventi degli ultimi giorni ci costringono adesso a guardare in faccia la crisi profonda e a lungo ignorata del Libano.
Un tracollo che a fine aprile ha portato anche Coca Cola, sulla scia di altre multinazionali, ad annunciare l’uscita dal Paese il 31 maggio, dopo la dichiarazione della sua società di distribuzione, National beverage company (Nbc), di non riuscire più a sostenere le spese per le perdite accumulate. La crisi finanziaria rende difficile per le compagnie anche importare le materie prime in Libano, a causa della penuria delle riserve di dollari con cui il Paese svolge i suoi acquisti sui mercati internazionali. Il franchising libanese della Coca Cola è stato così messo in vendita e, secondo indiscrezioni dei media arabi, i suoi diritti sono stati comprati in queste settimane dall’ex ministro dell’Energia e Telecomunicazioni Alain Tabourian, che in passato ha rilevato partecipazioni di altri gruppi del comparto bevande e che avrebbe preteso la chiusura del ramo della compagnia con il licenziamento di tutti i suoi dipendenti per chiudere l’accordo.
I milioni di libanesi, di ogni appartenenza religiosa, che dal settembre 2019 manifestano denunciano soprattutto l’operato delle dinastie politico-affaristiche che in Libano controllano il potere e tutti gli affari dalla fine della guerra civile, secondo il principio della spartizione settaria tra le fazioni prima nemiche. Gli Hariri sunniti, i Gemayel cristiano-maroniti, i Jumblatt drusi, e i pochi altri ricchissimi clan familiari delle diverse componenti confessionali si tramandano, con le gerarchie sciite di Hezbollah, partecipazioni societarie e incarichi politici-istituzionali. Questo sistema da una parte ha permesso di superare gli scontri armati settari, ma dall’altra produce corruzione ed enormi sperperi, favorendo la concentrazione di grandi patrimoni in poche mani e bloccando la formazione di una nuova classe dirigente come vorrebbero i cittadini. Una delle ultime mobilitazioni, lo scorso luglio, ha riguardato il taglio di 850 dipendenti dell’Università americana di Beirut (Aub) come extrema ratio per evitare la chiusura dello storico ateneo sopravvissuto anche alle guerra civile.
I licenziamenti “ineludibili per le eccezionali difficoltà”, confermati dai vertici dell’università dove studia e si laurea parte di tutto l’establishment mediorientale, interessano anche centinaia di unità, tra amministrativi e sanitari, del prestigioso Centro medico dell’Aub. Lo stesso polo ospedaliero e di ricerca che, nelle ore immediatamente successive alle esplosioni, ha comunicato di aver preso in carico circa 400 feriti, nonostante i tagli al personale imposti dalla spending review del governo. Tagli alla sanità così massicci espongono anche la popolazione libanese al pericolo più che concreto di non essere curata nella nuova ondata di contagi da COVID-19 che, da Paesi vicini come Israele, Palestina, Iraq e Iran sta ora raggiungendo anche il Libano. Non a caso fine luglio è stato reimposto il lockdown nel Paese, per l’aumento dei casi e per le terapie intensive già “al limite” a Beirut e negli altri principali centri abitati.
Per la bancarotta mancheranno adesso in Libano anche risorse per gli oltre 300mila sfollati a causa dalle esplosioni al porto. Secondo un’indagine pubblicata a febbraio dell’istituto di ricerca InfoPro, dalla fine di novembre 2019 risultavano persi nel Paese circa 220mila posti di lavoro nel settore privato, a causa della crisi finanziaria. I lockdown hanno poi avuto un prezzo economico altissimo, mentre nell’esecutivo Diab creato dopo le dimissioni di Hariri, si continua a litigare sui miliardi da chiedere con il soccorso del Fmi. Intanto un terzo dei quasi 7 milioni di libanesi vive sotto la soglia di povertà, la lira libanese si è svalutata dell’80% rispetto al dollaro, mentre il rapporto debito pubblico Pil è schizzato in questi mesi al 170%.. Una somma di fattori che in una lettera circolata su Twitter lo scorso luglio un accademico del Centro medico dell’Università americana di Beirut ha descritto come “un orribile e deprimente film dell’orrore”. Una condizione che dopo la sanguinosa guerra civile e i bombardamenti israeliani del 2006 i libanesi non si meritano.
Per assurdo oggi è proprio Israele, tra i primi governi insieme all’Unione europea, a tendere la mano degli aiuti umanitari al Libano. Forse perché, nonostante le frizioni e i continui confronti anche militari ai confini, questa catastrofe nella catastrofe pone a rischio imminente la tenuta non solo del Libano ma della gran parte degli altri fragili equilibri del Medio Oriente. Il Paese ha assorbito nei decenni più di 400mila palestinesi, secondo i numeri del governo e dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), e dal 2011 anche circa 2 milioni di profughi siriani. Ora la pandemia va a colpire le già deboli economie degli Stati arabi e musulmani fiaccati da oltre mezzo secolo di guerre. Nello stesso Stato di Israele si protesta a Tel Aviv e a Gerusalemme per i lavori perduti a causa dei lockdown, con scontri frequenti tra dimostranti e forze di polizia. Lo stesso sta succedendo Libano, dove sono scoppiati disordini tra gruppi di diverse appartenenze religiose subito dopo le esplosioni, vanificando l’esperienza degli ultimi mesi che ha visto manifestanti di tutte le confessioni religiose uniti contro il governo e la crisi economica. Anche la piazza delle proteste popolari che hanno unito i libanesi è stata rasa al suolo dall’esplosione del 4 agosto: un triste presagio per ricordarci che sei il Libano cedesse di nuovo alle divisioni del secolo scorso, nel governo come tra la popolazione, la catena di eventi potrebbe trascinare l’intero Medio Oriente in una nuova catastrofe umanitaria.