Marco* è un poliziotto. Qualche anno fa era impiegato in un commissariato, una realtà piccola, dove tutti lavorano a stretto contatto. I colleghi da tempo sospettavano che Marco fosse gay, ma a nessuno sembrava importare più di tanto. I problemi veri sono arrivati quando è stato trasferito in una grande città. I colleghi hanno cominciato a camminare con le spalle al muro quando incrociavano Marco nei corridoi e a evitare di lavorare con lui, finché una collega gli ha rivelato l’esistenza di un gruppo WhatsApp che lo riguardava. “Negli ambienti militari si tende a indagare sulla vita privata dei colleghi, perché facendo un lavoro pericoloso devi sapere chi hai vicino e di chi ti puoi fidare, ma anche perché, come in qualsiasi ambiente, anche qui non ci si salva dai pettegolezzi,” racconta. “Io sono una persona molto socievole, ho subito legato con tutti, giocavo a calcetto, uscivo con loro. Poi ho scoperto che uno dei colleghi più anziani aveva creato un gruppo su di me. Giravano le mie foto, commentavano ogni cosa che postavo su Facebook. Poi sono cominciati fatti più gravi: sono andati dal portinaio di casa mia a chiedere con chi abitassi, hanno addirittura controllato a chi fosse intestata la mia macchina per vedere se ci fosse anche il nome del mio compagno”. Marco è solo uno dei tanti poliziotti e militari della comunità Lgbtq+ che hanno subito discriminazioni per il loro orientamento sessuale o la loro identità di genere.
Il problema non sono soltanto i colleghi, ma anche i superiori. Quando Marco si è rivolto a un responsabile, racconta, questi gli ha letteralmente riso in faccia. È dovuto arrivare alla minaccia di diffida per farsi ascoltare. Venti giorni dopo essere arrivato nell’ufficio dove lavora adesso, un collega ha cominciato a diffondere voci sul fatto che Marco molestasse i colleghi e che vivesse con una prostituta trans, quando è sposato da anni con suo marito. “Questo mi ha fatto molto male, perché ha coinvolto anche la persona che mi sta vicino. Varcavo la soglia della porta dell’ufficio e mi veniva da vomitare”. In entrambi i casi, Marco ha dovuto affrontare la cosa da solo, parlando con franchezza. Dopo un po’ di ostilità, ha cominciato a comportarsi come suo solito e oggi il suo rapporto con i colleghi è migliorato. “Credo che il problema sia far capire che siamo persone normali, che fanno cose normali”.
Secondo l’associazione Polis Aperta (parte della rete European LGBT Police Association, che racchiude le organizzazioni di uomini e donne omosessuali in divisa in quindici Stati membri) in Italia una percentuale variabile tra il 5 e 10% (quindi tra le 16mila e le 32mila persone) degli appartenenti alle Forze Armate e ai Corpi di Polizia è omosessuale. Il dato non è preciso perché per molti il coming out è ancora un tabù, nonostante il Codice di ordinamento militare, in vigore dal 2010, negli art. 637 e nell’art. 1468 vieti esplicitamente qualsiasi tipo di discriminazione legata all’orientamento sessuale “in sede di attribuzione di incarico, di assegnazioni o di trasferimento a comandi, a enti, a reparti, ad armi o a specializzazioni”. Per la Polizia non esiste una regola così esplicita, ma comunque vale il decreto legislativo n. 216 del 9 luglio 2003, che all’art. 2 sancisce la parità di trattamento lavorativo a prescindere dall’orientamento sessuale.
Non è passato molto dal tempo in cui le persone omosessuali nell’Esercito italiano non erano nemmeno ammesse. Fino al 1986, il codice militare includeva gli “invertiti” tra le “personalità abnormi e psicopatiche”, dicitura poi modificata con “sessualmente deviati”: chi ha fatto la leva obbligatoria sa che dichiararsi gay era un modo per evitarla. Oggi il riferimento all’orientamento sessuale è scomparso, ma permane quello ai “disturbi nell’identità di genere” tra i fattori che possono pregiudicare l’ammissione. La situazione riguardo le persone trans, infatti, è ancora molto confusa.
È interessante notare, però, che un divieto esplicito alla leva delle persone gay sia arrivato soltanto nel ventesimo secolo. Le persone lesbiche invece non rappresentavano un problema, visto che le donne sono entrate ufficialmente nei corpi armati solo di recente (in Italia nel 2000). Nell’antica Grecia l’omosessualità era generalmente incoraggiata all’interno degli eserciti, perché si credeva che migliorasse i legami tra i soldati. Ne sono un esempio il leggendario battaglione sacro di Tebe composto da 150 amanti, di cui ci dà notizia Platone nel Simposio, o la dichiarata relazione omosessuale tra Achille e Patroclo. Plutarco negli Apoftegmi spartani ci racconta che nella Sparta del VII secolo le donne erano iniziate al ruolo di guerriere tramite relazioni lesbiche con le loro superiori. Se nel mondo antico si può dire che ci fosse una grande apertura e libertà in tema di orientamenti sessuali, le cose cominciarono a cambiare con la diffusione del Cristianesimo, che usava l’episodio biblico della distruzione di Sodoma come prova della natura peccaminosa dell’omosessualità. Nei secoli successivi, la questione della legalità dell’omosessualità in Occidente ha attraversato fasi alterne, ma per la maggior parte del tempo è stata comunque considerata un vizio, un peccato o al massimo un crimine contro la morale. Nell’Ottocento, però, diventò un problema psichiatrico: il fatto che l’omosessualità fosse considerata una malattia rese impossibile l’ingresso di persone gay negli eserciti, e i codici militari si regolarono di conseguenza. Nel 1942 furono infatti bandite dall’Esercito degli Stati Uniti a causa dei loro presunti “disordini psicopatici della personalità”. Questo non impedì che nei momenti in cui servivano più uomini, come durante la seconda guerra mondiale o la guerra in Vietnam, moltissimi gay venissero arruolati lo stesso. Nel 1993 il presidente Clinton firmò un provvedimento poi noto con il nome di “Don’t Ask, Don’t Tell” (non chiedere, non dire), che si prefissava escludere la questione dell’orientamento sessuale dall’Esercito, ma che di fatto continuava a bandire le persone omosessuali. Il provvedimento fu poi dichiarato incostituzionale e revocato da Obama nel 2010.
Nonostante anche in Italia ci siano tutelate normative nei confronti delle persone Lgbtq+ e persino Ignazio La Russa, ministro della Difesa tra il 2008 e il 2011, si sia schierato contro le discriminazioni nelle forze armate, la realtà nel nostro Paese somiglia ancora molto a quel principio di “Don’t Ask, Don’t Tell”. Le persone omosessuali in divisa, generalmente restie al coming out, sono ancora esposte agli attacchi omo-transfobici perpetrati dai colleghi, soprattutto nell’Esercito. In questo ambiente, come racconta anche Marco, gli episodi di violenza e discriminazione sono molto più gravi. L’Hague Centre for Strategic Studies ha creato l’LGBT Military Index – i cui risultati si possono leggere in una mappa interattiva – che classifica l’inclusione di persone gay, lesbiche e transgender nei vari corpi di difesa. Al primo posto c’è la Nuova Zelanda, mentre all’ultimo la Nigeria. L’Italia si trova in trentottesima posizione, con un punteggio di 72 su 100. Un posizionamento positivo su scala globale, ma pessimo su quella europea. L’indice però non tiene conto di ciò che succede nelle caserme e che non si può misurare con statistiche e dati: vessazioni, pestaggi, violenze sessuali.
Il nonnismo, secondo il sociologo militare Fabrizio Battistelli, è una “forma di contropotere che si pone come alternativo e in potenziale conflitto con la gerarchia ufficiale”. Il nonnismo si crea quando all’asse di potere della gerarchia si sovrappone quello dell’anzianità: i riti di iniziazione alla vita militare, che comprendono anche umiliazioni legate alla sfera sessuale, vanno perpetrati soltanto perché i “nonni” li hanno dovuti subire quando erano “nipoti”. Il nonnismo era un fenomeno endemico dell’Esercito di leva perché la naja prevedeva l’isolamento sociale dei soldati, che per un anno vivevano in una sorta di realtà separata con regole proprie e diverse da quelle della società civile. Oggi le violenze nelle caserme non vengono più chiamate nonnismo, ma violenza privata, estorsione e maltrattamenti: dopo la morte del paracadutista Emanuele Scieri – deceduto a 19 anni nel centro di addestramento della Folgore di Pisa e per cui oggi sono state riaperte le indagini – e l’istituzione di una Commissione parlamentare apposita, nel 2000 fu approvata una legge che rafforza la tutela penale nei confronti delle vittime di tali reati. Questo implica che l’omo-transfobia non si possa più considerare una normale dinamica da caserma, ma un vero e proprio crimine di odio.
Secondo Gabriele Guglielmo, poliziotto e presidente di Polis Aperta, la diffusione degli atti omofobi non è un fenomeno che ha una connotazione geografica o che caratterizza un corpo specifico, ma che dipende molto dai singoli comandi: “Dove ci sono ufficiali più illuminati, non succede niente, ma dove non c’è questa fortuna, tutti si sentono legittimati a umiliare e trattare male i colleghi. In generale, si intensificano quando una persona non è dichiarata. Più sei nascosto, più sei oggetto di scherno,” spiega. Per questo l’attività di Polis Aperta si concentra soprattutto sulla normalizzazione, attraverso giornate di formazione: “La nostra attività si rivolge sia all’esterno, nei confronti della società civile, sia all’interno, con iniziative rivolte ai corpi di difesa. Questo perché se le persone sanno come gestire un atto di discriminazione, è più facile creare un ambiente positivo anche per i colleghi Lgbtq”. Fondamentale, in questo senso, è il ruolo svolto dall’OSCAD, l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori. L’OSCAD agevola la presentazione delle denunce, che spesso non vengono riportare per vergogna, paura di ritorsioni o incompetenza del personale. Polis Aperta collabora attivamente con l’Osservatorio, istruendo la Polizia sulla gravità e le conseguenze dei crimini d’odio.
Sebbene la situazione delle persone gay e lesbiche nei corpi armati sia notevolmente migliorata rispetto a una decina di anni fa, c’è ancora molto lavoro da fare per attuare vere politiche di inclusione, soprattutto sul fronte transgender. La comunità Lgbtq+ non ha mai avuto un buon rapporto con la polizia, a partire dai moti di liberazione cominciati proprio in seguito a un violento raid nel bar Stonewall Inn nel 1969, a New York. Questo non significa, però, che i poliziotti e i militari siano tutti ostili nei loro confronti. Anzi, c’è un gruppo sempre più crescente di funzionari che usa il proprio potere per proteggere e sostenere la comunità. L’intervento delle forze dell’ordine è necessario per garantire a tutti l’aiuto e la tutela dai crimini d’odio, di cui molti poliziotti e militari sono vittime in prima persona.
*I nomi sono stati cambiati nel rispetto della privacy degli interessati