Il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron ha annunciato nelle scorse settimane il ritorno in Francia del servizio di leva come strumento di socializzazione e assorbimento dei valori della République. Ancora non è chiaro il come, dove, e quando; quello che si sa è che la misura non sembra gravare sulle spese statali, sulle carriere universitarie, né costringere al pernottamento in caserma, e coinvolgerà ragazzi di ambo i sessi per un periodo tra i tre e i sei mesi. Il tema della reintroduzione del servizio militare era uno dei punti della sua campagna elettorale dello scorso anno, sicuramente uno dei più discussi, e il giovane rampante ha tenuto fede alla parola data.
Il dibattito sulla correttezza di questa metodologia di educazione civica resta un punto senz’altro aperto e contestabile. Sembra impossibile che interi apparati statali in ogni parte del mondo non riescano a elaborare nulla di meglio per raggiungere l’obiettivo di forgiare una struttura sociale più coesa, onesta e interessata al bene comune.
Macron non è il primo politico ad aver lanciato l’idea di un ripristino del servizio militare obbligatorio. In Italia, ad esempio, ultimo in ordine di tempo è stato il Ministro dell’ Interno Matteo Salvini a individuare nel servizio di leva, la cosiddetta naja, un modo per “insegnare a qualche ragazzo come si rispetta il prossimo”. La proposta di legge leghista è di un servizio obbligatorio (militare o anche, seppur fatto passare in sordina dai suoi stessi promulgatori, civile) su base regionale per sei mesi. Prima ancora, anche il redivivo Berlusconi aveva ideato “Pianeta Difesa”, un breve periodo di vita militare riservato a uno stretto numero di giovani selezionati dall’Associazione Nazionale Alpini. Il Pd invece proponeva un mese di servizio civile obbligatorio: una leva obbligatoria orientata a servizi socialmente utili, ma che mantiene un’ambigua apertura a uno svolgimento di tale periodo nelle forze armate.
L’obbligo di leva in Italia è stato sospeso da relativamente poco tempo: il Parlamento ha votato largamente a favore della sua interruzione nel 2004, con 433 sì, e la Legge Martino è entrata in vigore l’1 gennaio 2005. Una decisione che ha interrotto, pure senza abolirlo, in quanto per farlo servirebbe una modifica costituzionale, un servizio che esiste dalla nascita del Regno d’Italia, e che è stato progressivamente ridotto nel corso dei suoi 143 anni di esistenza fino ad arrivare, appunto, alla sua eliminazione.
Questa volta la questione è stata posta dal punto di vista educativo, ma potrebbe essere risolta in maniera più efficace con altri mezzi che avremmo già pronti in casa: per esempio, con l’introduzione di un periodo obbligatorio di volontariato, sullo stampo del servizio civile. Un’esperienza più direttamente radicata nella quotidianità, nelle città e nei quartieri, che metta in vivo contatto i ragazzi con realtà e persone con cui hanno già condiviso spazi, ma che hanno sempre ignorato o voluto ignorare, riscoprendole, conoscendole e costruendo rapporti. Eppure sembra così complicato mettere in pratica a livello codificato e universale un sistema che ha già dimostrato di funzionare e avere considerevoli risvolti positivi. Più semplice, evidentemente, partorire o comunque rielaborare un sistema di leva giovanile adatto al nuovo millennio.
L’idea francese non è certamente un caso isolato a livello mondiale: sono molti i Paesi in cui il servizio militare è ancora obbligatorio. A partire dalla civilissima Norvegia, che dal 2016 lo ha esteso anche alle donne, per passare ai meno insospettabili Russia, Corea del Nord e del Sud, Cina, Emirati Arabi. Paesi dove la pace e la civiltà regnano da sempre sovrani, in linea di massima. O come Israele, dove dura due anni e otto mesi per gli uomini, e due anni per le donne, e dove chi si rifiuta di praticarlo viene nel migliore dei casi imprigionato.
Sugli intenti di Macron, nessuno ha nulla da ridire – su quelli di Salvini forse sì, visto che il suo desiderio di “riportare in Italia un po’ di ordine, disciplina e rispetto” sembra eccessivamente richiamare lo slogan fascista “Disciplina ed ordine formano la grandezza di un popolo”, e l’apologia di fascismo, è bene ripeterlo per coloro ai quali non bastasse la sua inaccettabilità morale, è incostituzionale. Una maggior conoscenza dell’Ordinamento giuridico del Paese di cui si è cittadini, in cui si vive e si vota, una migliore capacità di gestione delle relazioni sociali e un’educazione civica approfondita sono certamente aspetti in cui il sistema formativo di molti Stati è carente, se non completamente privo, forse per disinteresse o forse perché viene dato per scontato che tale formazione si acquisisca in famiglia.
Eppure, non è la reintroduzione di un obbligo al servizio militare il metodo giusto per arrivare a questi risultati. Se non sono arrivati negli anni in cui il servizio di leva era attivo nel nostro Paese (e la storia lo dimostra), non arriveranno ora. Anche nella relazione stesa dopo la legge del 2000 – che portò al superamento della coscrizione obbligatoria – emergeva la necessità di una trasformazione e diminuzione dello “strumento militare”. Secondo il rapporto andava definito un modello professionale e non più misto con volontari, perché risultava ormai impossibile “sottacere che il rilevante calo demografico in atto in Italia unito all’incremento del fenomeno dell’obiezione di coscienza renda sempre più difficile raggiungere contingenti di leva idonei a soddisfare le esigenze qualitative e quantitative delle forze armate”.
Fin dal principio sono esistiti i disertori, e sono cresciuti di anno in anno, acquisendo anche connotazioni politiche di pacifismo e antimilitarismo. L’obiezione di coscienza, legalizzata solamente nel 1998, registrava sempre più pressanti domande: le richieste nel 1990 furono 16mila, 30mila nel 1994, 70mila nel 1998. E poi si può pensare al problema dei suicidi in caserma, raddoppiati tra il 1988 e il 1989, così come agli episodi di nonnismo e di morti sospette, come quella del paracadutista Emanuele Scieri, che scosse profondamente l’opinione pubblica e dette una spinta all’abolizione della leva militare.
Tutto questo trascorso fa comprendere come la lunga lotta per arrivare all’abolizione della leva militare obbligatoria sia stata espressione di una volontà ferma, sofferta e sudata del popolo italiano. Per di più, oltre all’opinione etica che si può avere al riguardo, i costi sono notevoli per lo Stato, e ulteriori spese militari nazionali (già oggi superiori all’ 1,2% del PIL, e in aumento) possono avere forti impatti sull’andamento economico generale.
Esistono dunque altri modi per “salvare” una generazione che corre il costante rischio di essere allo sbando, sommersa com’è da mille stimoli e idee, ricoperta di input e aggredita da trend e influencer, e che comprensibilmente fatica a trovare un proprio ordine logico comportamentale. Deve esserci un metodo oltre a quello di imparare “una formazione militare di base: disciplina e autorità, conoscenza delle priorità strategiche del paese e delle grandi problematiche della sicurezza, attività fisica e sportiva”, per tre, quattro o sei mesi, qualunque sarà la durata effettiva.
Certo, questo sistema li abituerà alle regole, all’ordine e all’obbedienza, e sono persino ipotizzate collaborazioni con altri ministeri più prettamente indicati allo svolgimento di compiti educativi, come quello dell’Istruzione. Ma ci sono anche strade alternative degne di essere valutate.
Il servizio civile nazionale, istituito in Italia con la legge del 6 marzo 2001, lavora esattamente per ottenere quei valori tanto desiderati da Salvini e Macron, ma mira ad arrivarci in maniera diversa, insistendo sulla solidarietà, sull’inclusione sociale e sulla partecipazione comunitaria. Piuttosto che interessarsi alle questioni di sicurezza e a rafforzare i muri, tenta di abbattere quelli mentali, di incoraggiare a guardare gli aspetti positivi anziché sottolineare quelli negativi, a vedere il bicchiere mezzo pieno e non quello mezzo vuoto. Questo prende forma nel promuovere la cooperazione, la tutela dei diritti e dei patrimoni ambientali, storici, artistici, umani.
Un’altra faccia, più ideale e utile, della “difesa della Patria”, adempiendo al principio costituzionale della solidarietà sociale e lontana dal salviniano pensiero che ritiene “che di fronte a rigurgiti razzisti e alla minaccia del terrorismo un esercito di leva sia meglio per la democrazia”. Un’occasione per strutturare una serie di percorsi che contemplano la possibilità di essere portati avanti per evolvere in impegni duraturi. Questo si contrappone fortemente alla leva militare: per questa infatti si tratterebbe di un periodo di novanta giorni – un briciolo di tempo se comparato al totale della vita, che finisce per diventare un cerchio fine a se stesso, un insieme chiuso di esperienze che rischiano di non comunicare con il mondo reale.
La linea di pensiero che propende per il servizio civile è stata già d’altra parte adottata dalla maggior parte degli Stati europei (Norvegia inclusa) individuandola come ipotesi più o meno facilmente accessibile di “obiezione di coscienza” alla leva militare classica (in molti casi, come per Portogallo o Repubblica Ceca, è stata resa volontaria). Per tanti comunque permane la possibilità di scelta di una via militare, perché va bene essere buoni ma senza esagerare, bisogna pur mantenere un’immagine potente e rigorosa.
È comprensibile essere spaventati dall’incremento della bellicosità su scala globale, dell’escalation di pericolose minacce tra leader. È proprio la paura, ad esempio, ad aver fatto reintrodurre in Svezia la leva: quando nel 2014 la Russia aveva sconfinato con un sottomarino nelle sue acque, fu ripristinato un servizio di leva, non di massa (che era stata abolita solo pochi anni prima, nel 2010), ma selezionato.
In un pianeta dove già tre o quattro adulti giocherellano felici con i missili, non è propriamente un’idea geniale insegnare agli adolescenti a credere nella forza militare, a obbedire ciecamente agli ordini, a dare sempre e comunque ragione ai propri superiori. Né tantomeno istruirli a guardare sempre prima a se stessi che agli altri, predicargli che che mors tua vita mea, insegnargli a costruire recinti di filo spinato. Non si tratta di sottovalutare le potenzialità aggressive dei Paesi, né di sminuire l’importanza di un sistema di forze dell’ordine che consenta ai cittadini di sentirsi liberi e sicuri. Però un conto è chi sceglie di farlo per mestiere, per ragioni più o meno degne di stima e in modo più o meno apprezzabile. Un conto è spingere sul binario militare l’intera popolazione giovanile di uno Stato per vedere chi decide poi di restare a bordo. Sarebbe più conveniente educarli a credere di poter cambiare lo stato delle ingiustizie partendo dal proprio piccolo e dal quotidiano e in modo pacifico, a tentare di abbattere le barriere di odio, paura e ignoranza aprendo la mente alla diversità.
È sbagliato continuare a rimarcare la necessità di un carattere militare, di legare un servizio a un termine che rimanda a un mondo legato alla lotta, alla violenza, che essa sia quella sperimentata in prima persona o quella telecomandata da lontano con un bottone. Valori che stridono con quelli di Liberté, Egalité e Fraternité(soprattutto all’ultimo) propugnati e difesi dalla Costituzione francese a cui Macron dovrebbe fare riferimento. E nell’articolo 11 della nostra, di carta costituzionale, si legge: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Difficile credere che a sbagliarsi fossero i Padri e le Madri Costituenti. I segni nel corso della storia poi sembrano giocare a loro favore: non è stata ancora registrata una guerra che sia stata evitata o risolta con la guerra stessa, o uno Stato uscito indenne (o semplicemente uscito) da un conflitto senza piaghe. È vero che le rivoluzioni non si fanno solo con i fiori, neppure quelle socio-culturali, ma forse il servizio militare non è quello che ci serve per tornare a essere cittadini duri, puri e onesti in civilissime e avanzatissime Repubbliche.