La notte tra il 29 e il 30 maggio scorso, su un bus londinese, Melania Geymonat e la sua ragazza Chris hanno subito un attacco lesbofobico: un gruppo di adolescenti le ha picchiate a sangue in seguito al rifiuto della coppia di baciarsi di fronte a loro, per il loro divertimento voyeuristico, per poi derubarle. Cinque giovani, tutti tra i 15 e i 18 anni, sono stati arrestati dalla polizia nel giro di poche ore, con l’accusa di furto e lesioni personali aggravate. Buona parte del mondo politico britannico ha espresso solidarietà alle due donne, dalla premier Theresa May al leader laburista Jeremy Corbyn, passando per il sindaco di Londra Sadiq Khan. La notizia ha fatto il giro del mondo, accompagnata dalla foto che le ritrae con gli abiti e il viso insanguinati in seguito alle percosse. Chris, che usa solo il suo nome di battesimo, ha dichiarato al programma radiofonico World at One, in onda su BBC Radio 4: “Ero arrabbiata e la sono ancora. È stato spaventoso, ma la cosa che mi fa essere ancora furibonda è che questa non è una situazione nuova”. Melania Geymonat ha aggiunto: “La violenza non è [accaduta] solo perché siamo donne che hanno una relazione, ma anche perché siamo donne”.
Intervistata nei giorni successivi dal podcast Beyond today della stessa emittente, Geymonat ha spiegato di aver deciso di diffondere pubblicamente la notizia della sua aggressione dopo essersi consultata con la famiglia e gli amici, pur non immaginando l’enorme eco che avrebbe avuto: “Un lato positivo di tutto questo è che di una violenza di questa portata se ne parla. Se si fosse trattato solo di un gruppo di uomini che dicono a una coppia di donne di baciarsi o roba del genere, non saremmo nemmeno andate alla polizia, perché è una cosa abituale”.
Geymonat ha centrato perfettamente la questione: la lesbofobia, come ha scritto qualche anno fa sul Guardian la giornalista Jane Czyzselska, è omofobia con un contorno di sessismo. Le violenze e le molestie lesbofobiche sono un’esperienza quotidiana per molte lesbiche, solo che non se ne parla, restano invisibili, come invisibile è, ancora troppo spesso nel 2019, la soggettività lesbica. Questo caso è divenuto notizia perché c’è stato un pestaggio e ci sono le foto con il sangue che scorre. Di solito la lesbofobia si manifesta in modi più sottili rispetto al mero pugno in faccia: con gli insulti verbali, le molestie, l’essere prese poco sul serio come coppia o il fatto che il passante di turno creda che la coppia in questione esista solo per stimolare le sue fantasie. Sottesa ma sempre presente, c’è infatti l’estrema oggettificazione sessuale delle lesbiche da parte di uomini cisgender. Alcuni padri sono disturbati dal coming out delle figlie perché faticano a conciliare l’immaginario pornografico mainstream che da sempre associano alla figura della lesbica alla loro stessa progenie.
Tra le forme più gravi di lesbofobia ci sono i cosiddetti “stupri correttivi”, perpetrati nella convinzione di far cambiare idea alla donna, come accaduto a una ragazza palermitana per anni abusata dal padre, ora a processo. Queste forme di violenza sono particolarmente diffuse in Sudafrica e in India, e come sappiamo le regole della notiziabilità vigenti nei nostri media impongono che dei Paesi non occidentali si parli solo in caso di catastrofi, guerre o golpe – e anche in questi casi non è detto che accada.
Nel calderone della variegata umanità espressa dall’acronimo LGBTQ+, ancora oggi, le molteplici soggettività rainbow tendono a dissolversi, soprattutto quando sono i media generalisti a parlarne, e a emergere è (quasi) sempre e solo l’omosessualità maschile. Non è un caso che i gay siano gli unici a non aver sentito il bisogno di una giornata della visibilità a loro espressamente dedicata, come invece hanno creato le lesbiche (26 aprile), le persone bisessuali (23 settembre), quelle intersex per ricordare la violenza istituzionale che subiscono (8 novembre), e quelle trans, che ne hanno una per la visibilità (31 marzo) e una per ricordare le vittime dell’odio transfobico (20 novembre). Ai gay bastano la Giornata mondiale contro l’omolesbobitransfobia (17 maggio), e il 28 giugno, la Giornata mondiale dell’orgoglio LGBTQ+. Il motivo è facilmente intuibile: viviamo in una società ancora profondamente patriarcale, e in quanto tale misogina e maschilista, che se proprio deve parlare di persone non eterosessuali si leva il pensiero parlando di o rappresentando i gay, dopo di che ritiene di aver espletato i suoi doveri riguardo alla diversity – termine di stampo aziendalista particolarmente odioso perché presuppone ideologicamente l’esistenza di uno standard umano invariabilmente maschio, bianco, cisgender e abile. Storicamente c’è sempre stata una buona parte di gay a cui questo status quo è andato bene così, perché sono riusciti ad approfittare, nonostante l’”handicap” dell’omosessualità, dei vantaggi di essere maschi bianchi cisgender in un mondo fatto a loro misura. Oggi le cose per fortuna stanno cambiando, molti attivisti gay prendono coscienza del loro posto al sole nella scala dei privilegi, degli stereotipi viventi prodotti dalla maschilità tossica, e cercano di decostruire il loro vantaggio, ma certo il patriarcato in sé è ancora ben lontano dall’essere sconfitto.
Quindi le lesbiche subiscono strutturalmente una discriminazione intersezionale: in quanto donne e in quanto lesbiche. Questo anche nei casi “fortunati”, ovvero quando sono donne occidendali cisgender ricche e belle secondo gli standard mainstream. È bene ricordare che le conseguenze della discriminazione intersezionale non si sommano aritmeticamente, ma si rinforzano tra loro creando un effetto esponenziale. Perciò, quando nelle singole soggettività si sommano altri eventuali strati di svantaggio, il minority stress tocca vette stellari, e si creano miscele di potenziali marginalità, fatica, infelicità che richiedono un enorme lavoro per essere non tanto superate per diventare quanto più simili possibile a un sedicente prototipo di “lesbica accettabile”, ma anche solo riconosciute e rivendicate: la razza, la classe sociale, l’essere cisgender, intersex o trans, una persona binaria o no, dover convivere o meno con una disabilità.
Non stupisce che le stesse lesbiche soffrano di lesbofobia interiorizzata, non stupiscono le gag sui “lesbodrammi” che vorrebbero essere autoironiche ma spesso valicano il confine dell’odio di sé, non stupisce se fino a pochi anni fa nella maggior parte delle rappresentazioni cinematografiche era in agguato la cosiddetta “poiana lesbica”, cioè la fine tragica di un personaggio lesbico (il termine è nato da un film del 2001, Lost and Delirious, in italiano L’altra metà dell’amore, in cui una delle giovani protagoniste salvava una poiana e alla fine si suicidava mentre l’animale tornava a volare libero). Non stupisce nemmeno che la stessa parola “lesbica” sia poco usata dai media, e invisa anche a diverse lesbiche medesime. Sebbene sia una parola scelta a suo tempo dalle donne omosessuali coinvolte anche nel femminismo nella piena autodeterminazione, la connotazione d’uso tra le non attiviste resta ambigua, tra l’insulto e il tag di Pornhub, mentre dovrebbe trattarsi di un mero descrittore. Non stupisce, infatti, che sia poco usata dai media, che a “lesbica” spesso preferiscono ancora “donna gay”, applicando una falsa universalità che la parola gay in italiano non ha, o gli aggettivi “lesbo” (come nell’ormai mitico titolo di Libero di qualche anno fa: “Delitto di Ostia, spunta la pista lesbo”), o “saffico”, due termini allusivi che si rifanno alla tradizione di oggettificazione sessuale delle lesbiche di cui si parlava poc’anzi.
Nel nostro Paese esiste ancora, nominalmente almeno, un’associazione nazionale che si occupa nello specifico delle lesbiche, vale a dire ArciLesbica. Peccato però che negli ultimi tre anni abbia attuato un riposizionamento politico basato essenzialmente su due punti: l’essere diventata un’associazione che non considera le donne trans vere donne, e un no totale e per nulla dialogante alla gestazione per altri, che ha condotto questa associazione ad avvicinarsi a siti pro life, a porsi ai margini del movimento LGBTQ+, e in ultima istanza verso la scomparsa, visto che molti circoli locali si sono disaffiliati o sciolti pur di non avere più a che fare con un’associazione nazionale detentrice di queste posizioni. Sono riuscite a comparire relativamente spesso sui media generalisti, specialmente quelli conservatori, ma al prezzo di diventare residuali.
Le lesbiche che vivono in Italia, atomizzate, dovrebbero tentare di uscire dal silenzio, al momento rotto solo dalle violente posizioni arcilesbiche, per prendere parola pubblica sulle questioni che le riguardano più da vicino. Ai primi di febbraio si è tenuto a Bologna un evento intitolato Lesbicx, a significare il desiderio di apertura verso tutte le soggettività che desiderino identificarsi col lesbismo. Organizzato da Lesbiche Bologna, associazione che si è disaffiliata da ArciLesbica, ha intercettato la voglia di dialogo e discussione che già circolava in rete. Che riesca a crearsi una rete Lesbicx a partire dal convegno bolognese non è affatto scontato, ma certo sarebbe un primo passo positivo per l’uscita dal silenzio, senza dimenticare, certo, le lotte comuni a tutte le soggettività del movimento LGBTQ+, né la necessità di continuare a mischiarsi alle lotte di tutte le persone oppresse, senza timore di smarrire la propria identità.