Il revenge porn è molto più diffuso di quanto pensiamo. E una legge non basta a combatterlo. - THE VISION
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Revenge porn è un termine che l’Italia ha imparato a conoscere nel 2016, quando una donna napoletana di 33 anni, Tiziana Cantone, si tolse la vita dopo che il suo ex-fidanzato aveva diffuso un video che la ritraeva mentre praticava sesso orale. Il caso di Cantone era stato in un primo momento archiviato come suicidio, ma è stato recentemente riaperto anche grazie alla caparbietà della madre, Maria Teresa Giglio, che si è rivolta a investigatori privati per raccogliere ulteriori prove sui responsabili delle vessazioni nei confronti della figlia. A distanza di quattro anni e di una legge in merito abbiamo però imparato che il termine “revenge porn”, che si può tradurre come “vendetta pornografica”, è inadeguato per descrivere un fenomeno che è molto più che una dinamica di ritorsione tra due persone. Come dobbiamo considerare, ad esempio, i gruppi Telegram dove vengono diffuse e sessualizzate anche le immagini più innocenti, prese direttamente dai profili Instagram o Facebook di donne e ragazze inconsapevoli? Quello che bisogna tenere a mente quando si parla di condivisione non consensuale di materiale intimo – questa è l’espressione più corretta – è che raramente si tratta di qualcosa che riguarda solo una coppia o la fine di una relazione, ma che è strettamente connesso anche con l’educazione sessuale, il consenso, i diritti digitali, l’accountability delle grandi piattaforme digitali e persino la nostra stessa democrazia. È stato il Codice rosso, approvato nel 2019, a introdurre il reato di “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate”, punito con la reclusione da uno a sei anni. La pena è prevista non solo per chi ha acquisito o diffuso per primo il materiale, ma anche per chi lo inoltra a sua volta. Se oggi abbiamo questa legge, è anche grazie all’impegno dell’attivista e ricercatrice Silvia Semenzin, che da anni si occupa di studiare l’argomento e di educare le persone sul legame tra internet e sessualità. Semenzin è dottoranda in Sociologia digitale all’Università di Milano e collaboratrice del collettivo di educazione sessuale Virgin & Martyr, e ha cominciato a interessarsi all’argomento dopo aver scoperto l’esistenza di alcuni gruppi WhatsApp dove suoi conoscenti si scambiavano immagini di ragazze. Nel 2018 ha lanciato la campagna “Intimità violata” con una petizione su Change.org, con le associazioni Insieme in Rete, I sentinelli e Bossy. La petizione ha visto il sostegno della deputata Laura Boldrini, che si è impegnata personalmente a proporre il primo disegno di legge sul tema, che non è stato però mai discusso. Tuttavia, l’incessante impegno divulgativo di Semenzin e la notizia dell’archiviazione del caso di Tiziana Cantone, avvenuta nel 2018, hanno contribuito a far emergere la necessità dell’introduzione del nuovo reato, un grande passo avanti dal punto di vista legislativo, anche se con qualche dubbio sulla sua reale efficacia.

Silvia Semenzin

“Bisognerebbe cominciare lavorando sul termine revenge porn, che però è ormai entrato nell’uso comune”, dice a The Vision Semenzin. “È un termine scorretto per due ragioni: la prima è che parlare di vendetta è riduttivo e rischia di cadere nel victim blaming. Nella maggior parte dei casi, vedi i gruppi Telegram, non si tratta di vendetta, ma di un esercizio di potere sulla libertà delle donne. La seconda ragione è che non si tratta di pornografia, perché la pornografia di norma è consensuale. Qui non c’è nessun consenso”. Come fa notare la ricercatrice poi, l’insistenza sul porno finisce proprio per legare il corpo femminile a un consumo di tipo erotico. Questo implica che l’immagine di un corpo femminile, magari pure vestito con un abbigliamento quotidiano, sia intrinsecamente pornografica. Se è vero che anche le immagini intime di uomini possono essere diffuse senza il loro consenso (e nel loro caso il problema è che non viene riconosciuto come un abuso), il fenomeno nei confronti delle donne assume dei connotati diversi: nei gruppi, dai nomi degradanti e misogini, viene diffuso e sessualizzato qualsiasi tipo di immagine ritragga una donna. È chiaro che, stando così le cose, i discorsi moralizzanti del tipo “Se non volevi che le tue foto nuda finissero su internet dovevi evitare di scattarle” non servono a niente. Quello che invece serve, secondo Semenzin, è agire su due fronti: quello della prevenzione e quello legale. Per quanto riguarda la prevenzione è necessario slegarsi dalla logica della vittimizzazione ed evitare discorsi colpevolizzanti. Se è importante educare le persone (e soprattutto le più giovani) ad assumere comportamenti prudenti su internet, censura e proibizionismo però non funzionano, anche perché, vedendo quello che accade nei gruppi Telegram, seguendo questa logica una donna non dovrebbe più pubblicare niente sui social, nemmeno le sue foto in costume durante le vacanze al mare. Allo stesso modo, in un mondo in cui i social occupano un ruolo preponderante nella nostra quotidianità, è impensabile arginare fenomeni come il sexting con la moralizzazione. L’educazione veramente necessaria, sottolinea la ricercatrice, è quella legata al consenso.

Laura Boldrini

Proprio perché parliamo non tanto di “revenge porn” ma di diffusione non consensuale di immagini (gli anglosassoni parlano anche di image-based abuse, abuso basato sulle immagini), l’attenzione deve essere posta sulla presenza o assenza di autorizzazione delle persone coinvolte. Questo approccio amplia la prospettiva, includendo anche chi riceve foto non richieste o chi ha subito attacchi hacker e, più in generale, sposta il discorso da chi è vittima della diffusione a chi l’ha perpetrata. Inoltre, il focus sul consenso è utile per inquadrare fenomeni come quelli dei gruppi Telegram, dove le immagini non sono necessariamente intime, o il più recente esempio del deepfake porn. In questo caso il volto di una persona viene sovrapposto a un video porno già realizzato. Secondo Sensity, un’organizzazione che si occupa di studiare l’uso illegale dei deepfake, ogni mese vengono caricati sui siti porno circa mille video realizzati con questa tecnologia. Un video con il volto di Emma Watson caricato sul sito porno Xvideos è stato visto 23 milioni di volte in pochi giorni. A ottobre 2020 il Garante della privacy ha aperto un’istruttoria nei confronti di Telegram proprio a causa della circolazione di un software di deepfake sui canali italiani. Il secondo livello dell’azione riguarda infatti le responsabilità delle aziende digitali. Anche in questo caso, non dando facoltà ai social o alle piattaforme di messaggistica di decidere cosa censurare, ma caricandole della responsabilità legale della condivisione non consensuale di materiale intimo. “Bisogna tenere sempre a mente che le piattaforme digitali hanno come fine il profitto”, spiega Semenzin. “Dare il potere alle aziende di decidere cosa è visibile o meno riflette questa visione e il punto di vista di chi le amministra. Prendiamo ad esempio Instagram: Instagram ha deciso che la nudità femminile è offensiva, ma non sono offensivi video di guerre o immagini di cadaveri”. Inoltre la censura è uno strumento inutile per chi ha subito la diffusione delle immagini, un processo che è quasi impossibile arginare una volta innescato. Su Telegram, ad esempio, che fa dell’anonimato e della privacy degli utenti un suo vanto, è molto difficile ricevere assistenza o riuscire a segnalare qualcuno. Come afferma la ricercatrice, “una delle soluzioni che vengono proposte – e l’avevamo inserita anche nel disegno di legge – è quella di obbligare le piattaforme ad aprire una sede legale nei Paesi in cui operano. In questo caso, quando c’è una richiesta urgente o anche una denuncia da fare, c’è qualcuno che risponde”. Nel 2017 la Germania ha approvato una legge, molto controversa, che rende legalmente responsabili i social network della diffusione di materiale illegale sul territorio tedesco, con multe fino a 60 milioni di euro in caso di inadempienza. In Francia una legge simile è stata approvata lo scorso anno e poi impugnata da un gruppo di parlamentari, in quanto lesiva della libertà di espressione. “È anche vero”, fa notare Semenzin, “che provvedimenti del genere fanno sì che il revenge porn si ‘deplatformi’, cioè si sposti su altre piattaforme meno controllabili, come appunto Telegram”.

La soluzione ideale sarebbe riuscire ad avere una legislazione europea sull’accountability delle piattaforme digitali e dei social network. Nei prossimi mesi si discuterà il Digital Service Act della Commissione europea, nel tentativo di unificare la frammentarietà delle leggi nazionali relative anche alla gestione dei comportamenti illeciti commessi su internet. Si tratta, come sempre quando si parla di diritti digitali, di un argomento spinoso che deve trovare e per certi aspetti ridefinire un equilibrio tra la tutela delle persone, la loro libertà di espressione e la democrazia. Resta però inutile agire sul fronte legislativo se manca una vera consapevolezza del fenomeno, consapevolezza per la quale, nel nostro Paese, dobbiamo ringraziare persone come Silvia Semenzin.


Questo articolo è stato scritto in collaborazione con Basement Café by Lavazza. Il progetto, ideato e prodotto da Lavazza, è diventato nel corso di due stagioni e coi suoi 28 ospiti un format culturale di riferimento per il pubblico del web e un luogo di confronto e contaminazione tra due generazioni su musica, cultura e tutti quei temi che interessano l’universo giovanile. Tutte le puntate sono distribuite sul canale Youtube Basement Café by Lavazza.

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