Il ruolo della donna per la Lega è diventato negli anni sempre più rilevante. Purtroppo, però, non è il ruolo che ci aspetteremmo: quello che ai vertici della Lega interessa non è l’emancipazione femminile, ma quanto le attività delle leghiste possano favorire il partito. La Lega sta infatti adottando per le campagne elettorali regionali la strategia di proporre figure femminili, soprattutto nelle regioni in cui la vittoria non è scontata. Per capire le vere motivazioni dietro questa strategia, bisogna tornare al 2012-2013, quando la Lega era ancora Lega Nord e otteneva percentuali elettorali ben al di sotto il 10% delle preferenze. In quei mesi il partito era sotto la pressione di varie correnti: quella di chi vedeva la linea di Umberto Bossi come l’unica possibile e quella di chi sosteneva un rimodernamento. Per convincere i militanti che il nuovo partito di Roberto Maroni rappresentava un reale rinnovamento venne condannato in modo esplicito il “celodurismo”, atteggiamento che aveva fatto la fortuna del partito, ma che ormai non riusciva più ad allargare il suo bacino elettorale. Per segnare una cesura con il passato, i sostenitori di Maroni condannarono come “scorie celoduriste” gli attacchi razzisti rivolti alla neo-ministra per l’integrazione Cécile Kyenge da Calderoli, poi condannato per diffamazione con l’aggravante del razzismo in primo grado a 18 mesi. Il tentativo era quello di proporsi come partito più moderato che, sebbene fermo su posizioni intransigenti su temi come l’immigrazione, si proponeva più aperto e moderno su altri. L’obiettivo era arrivare al voto delle donne.
Fino a quel momento, infatti, le donne costituivano una minoranza dei votanti, dei militanti e degli eletti della Lega Nord, dal momento che la retorica machista e sessista che esaltava la virilità e la prestanza fisica del “maschio padano” allontanava la maggioranza dell’elettorato femminile. Le donne, poi, erano viste solo come simbolo della “nazione Padana”, ma venivano del tutto snobbate nella partecipazione attiva del partito. Il sessismo ideologico della Lega Nord, malcelato da giustificazioni meritocratiche, concludevano il quadro.
Per rivolgersi ai moderati, una volta eliminati gli atteggiamenti più radicali, si è puntato su un utilizzo strumentale del tema dell’uguaglianza di genere: Maroni promise, per esempio, che il Consiglio Regionale della Lombardia sarebbe stato formato per la metà da donne, cosa poi avvenuta dopo la sua vittoria. Questo permise di ristabilire la credibilità di un partito in ginocchio dopo gli scandali che lo avevano colpito: gli elettori padani erano infatti delusi dalle continue notizie di tangenti, come quelle relative al caso Montedison, di riciclaggio di denaro sporco e del crack finanziario del CrediEuroNord, che dimostravano come la Lega non fosse meno ladrona degli altri partiti. Ma è con l’arrivo di Matteo Salvini, alla fine del 2013, che queste idee embrionali diventano strutturali nella strategia politica della Lega. L’utilizzo delle donne nella politica leghista è quindi riuscito a salvare e a rinnovare l’immagine pubblica di un partito sull’orlo del baratro, e i vertici della Lega ne hanno intuito la forza come strumento propulsore per la propaganda di Salvini.
Le posizioni più estreme in tema di immigrazione sono state riviste in un’ottica di “razzializzazione del sessismo”: secondo quest’ottica, l’immigrazione è una minaccia anche per i diritti delle donne del proprio Paese e per questo motivo va eliminata. Questo pensiero si allinea perfettamente alla vena machista che la Lega non ha mai perso, in cui l’uomo deve proteggere la propria donna in quanto capofamiglia, figura che Salvini è riuscito a incarnare. Non sono casuali le dichiarazioni di Salvini che utilizzano la retorica del “lo dico da papà”, che lo ha anche portato nel 2019, poco prima di staccare la spina al governo giallo-verde nella speranza di essere eletto come premier, a definirsi come padre di tutti gli italiani. Ma quello che i vertici hanno intuito è che la “razzializzazione del sessismo” avrebbe pagato molto di più se a esporsi in prima linea fossero state le stesse donne. Per questo motivo in Umbria, in Emilia Romagna e adesso in Toscana, luoghi in cui la vittoria della Lega era o è vista come difficile ma possibile, sono state scelte candidate donne.
Con questa strategia il corpo delle donne è diventato lo strumento per normalizzare anche le proposte più reazionarie e razziste del partito: gli stereotipi di genere che le percepiscono come naturalmente portate alla cura e meno aggressive degli uomini hanno mitigato la percezione di un partito noto per l’aggressiva retorica anti-immigrazione. A una maggiore visibilità delle figure femminili nel partito, però, non è corrisposto un ammodernamento della Lega sulle tematiche di genere. Anzi, si è assistito a un irrigidimento e a una conseguente contraddizione della retorica leghista. Il partito pretende di difendere i diritti delle donne associando l’immigrazione alle violenze sessuali e all’arretratezza culturale delle migranti che non si riscattano dai mariti violenti, ma dall’altra parte si batte per i modelli più coercitivi e tradizionali di genere e di famiglia. Questa ambivalenza permette alla Lega di rivolgersi a varie categorie di elettori e di elettrici e per questo motivo entrambe le strategie vengono portate avanti con convinzione. La carta vincente sta nel far portare avanti queste visioni in contraddizione proprio dalle dirette interessate, le donne.
“Penso che le manifestazioni contro la violenza sulle donne servano a poco. Di violenze ne subiamo tutti, ogni giorno. E magari le compiamo. La violenza è parte dell’uomo e della donna, è parte della natura”. Queste parole sono state scritte in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne del 2016. Se le avesse scritte un uomo, la sua carriera politica sarebbe già finita, ma il fatto che siano della candidata alla regione Toscana Susanna Ceccardi ha permesso alla Lega di lanciare un messaggio che svilisce il problema della violenza di genere, senza per questo essere tacciata di maschilismo. L’esempio principe di come la Lega sfrutti le proprie donne per portare avanti politiche contro il genere femminile si è visto in Umbria, unica regione, al momento, in cui a vincere è stata una candidata leghista, Donatella Tesei. Secondo Tesei, tenere sotto osservazione obbligatoria una donna dopo l’assunzione della pillola abortiva è un provvedimento in difesa della sua salute e per questo a giugno ha eliminato la possibilità di sottoporsi all’aborto farmacologico in day hospital nelle strutture sanitarie della regione. Gli effetti di un tale provvedimento sono evidenti: tenere una donna in ospedale per tre giorni può significare imporle di rivelare il proprio aborto in famiglia o sul posto di lavoro.
Che non sia la salute delle donne la principale preoccupazione della presidente Tesei lo dimostra la sua firma a un Manifesto Valoriale redatto dalle associazioni prolife e la sua vicinanza agli ambienti del Family day. Fortunatamente il ministro Speranza è intervenuto a livello nazionale, ma la linea della Lega resta chiara. Nell’autunno 2018 a Verona la giunta leghista ha votato una mozione contro l’aborto e nella stessa città nel marzo 2019 ha ospitato il Congresso delle famiglie, in cui molti degli ospiti erano accaniti sostenitori antiabortisti. Al governo nazionale, con il ddl Pillon che, per come era strutturato, avrebbe penalizzato soprattutto le donne prive di reddito, finendo col disincentivare i divorzi stessi. In questo modo la Lega si assicura il voto degli ambienti più bigotti e conservatori d’Italia.
Anche studi recenti hanno mostrato come, contrariamente a quanto si pensa, le donne non sempre sono sostenitrici dei loro stessi diritti. Il fatto che si appartenga al genere femminile, infatti, non implica difendere i diritti delle donne, soprattutto se si è cresciute in un contesto maschilista, facendo propri le modalità, i dettami e l’ideologia di ambienti simili. Un’ideologia di cui la Lega è profondamente intrisa. Calderoli al Senato ha di recente insinuato che la doppia preferenza di genere possa essere una modalità che danneggia proprio le donne. Ha dichiarato, nell’imbarazzo generale, che: “il maschio solitamente si accoppia con quattro o cinque rappresentanti del gentil sesso e si porta il voto di quattro-cinque signore. E se uno aumenta la platea dell’elettorato passivo riduce la possibilità che le donne siano elette”. Con queste dichiarazioni esce allo scoperto il maschilismo nascosto con grande fatica di un partito iper conservatore che non ha nessuna intenzione di rinunciare al dominio del maschio. Le donne occorrono alla Lega per entrare nei luoghi di potere nei quali, proprio grazie al loro aiuto, verranno penalizzate altre donne, con una dinamica che raccoglie il sostegno convinto di quella parte di società italiana che non ha mai sostenuto l’emancipazione femminile. Bisogna comprendere che la politica leghista in favore delle donne non si batte per i loro diritti, e cancellare l’ipocrisia che mimetizza la connotazione maschilista o misogina dalle politiche proposte da donne: queste, infatti, possono – spesso in totale consapevolezza – minacciare i diritti del loro stesso genere. Mai come oggi, invece, bisogna difendere i diritti conquistati. Un buon punto di partenza è avere ben chiaro che la Lega dei “padri degli italiani” e del mai rinnegato celodurismo non sarà mai un partito che tutela i diritti delle donne, ma solo capace di grande opportunismo nei confronti delle donne, per un tornaconto elettorale.