Quando ho finito l’università, in quanto laureato in studi umanistici, ho vissuto un periodo che non esito a definire schizofrenico. Non è stato tanto il duro impatto con il mercato del lavoro a scoraggiarmi. Le vere difficoltà sono sorte per la mancanza di punti di riferimento che mi aiutassero a trovare una strategia efficace per la ricerca di un impiego. Ho visto il mio curriculum passato al vaglio da datori di lavoro che alzavano il sopracciglio non appena scorgevano la mia laurea umanistica, come se avessi passato gli ultimi cinque anni a studiare cose inutili. Allo stesso tempo, ho visto passarmi davanti persone meno qualificate, magari sprovviste di laurea, perché corrispondenti a profili che non vengono mai completamente specificati. Nessuno, ad esempio, è mai riuscito a capire quali siano le “doti caratteriali” testate nei colloqui motivazionali. Ai miei coetanei non andava meglio, e molti di loro si sono adattati all’idea di fuggire all’estero pur di trovare un’occupazione minimamente attinente ai propri studi. Esperienze del genere non sono luoghi comuni dettati dall’ingenuità dei giovani laureati, ma sono parte di un fenomeno ben preciso, una criticità del mercato del lavoro che affligge l’Italia più di altri Paesi.
Per skill mismatch si intende il mancato incontro fra le competenze dei lavoratori disponibili e le richieste di mercato. Questo origina una carenza di offerta in settori in cui la domanda è alta, che viene colmata da figure non sempre adatte al tipo di professione. Allo stesso modo si creano sacche in cui l’offerta è molto alta e la domanda è bassa: in questo caso sono le retribuzioni ad abbassarsi e chi non si adegua è costretto a cercare lavoro in settori meno qualificati. Nel primo caso si parla di lavoratori underskilled, ovvero sottoqualificati ma assunti per necessità, nel secondo caso si parla di underemployed, ovvero sovraqualificati per il lavoro che stanno svolgendo.
Lo skill mismatch è causato da svariati fattori, che incidono in maniera diversa a seconda del contesto. Il più importante è la situazione economica del Paese: quando l’economia ristagna è normale che si chiudano alcuni spazi lavorativi, perché le aziende sono portate a tagliare i lavori che non sono strettamente necessari. Un altro fattore molto importante investe il cambiamento tecnologico: a causa della velocità con cui le tecnologie mutano al giorno d’oggi, succede di frequente che le aziende cerchino competenze nuove ma che spesso non sono ancora insegnate. Questo fenomeno è legato anche all’invecchiamento della popolazione lavorativa, che spesso fatica a tenere il passo di un’economia basata sull’innovazione. Al giorno d’oggi in diversi settori – in primis in quello digitale – l’arco di tempo in cui le competenze di un lavoratore si considerano obsolete è in media di 10-15 anni.
L’Italia evidenzia un forte scompenso del mercato del lavoro: secondo uno studio della Bocconi in collaborazione con JP Morgan, il nostro Paese è il terzo al mondo nei Paesi dell’area Ocse per disallineamento fra le competenze chieste dalle aziende e la formazione dei giovani. Se guardiamo ai lavori più richiesti dalle aziende italiane, troviamo lavori fisici che necessitano di una formazione pratica – come fabbri, saldatori, operai elettrici – e un ampio ventaglio di occupazioni del settore digitale, come informatici, tecnici, ingegneri gestionali ed esperti bancari. Eppure, nel primo trimestre del 2019 sono state assunte 1,2 milioni di persone, circa 60mila in meno rispetto al trimestre dell’anno precedente. Dunque il mercato ristagna nonostante la richiesta di competenze. Il tasso di disoccupazione giovanile si attesta intorno al 30% e circa un terzo delle aziende fatica a trovare profili adatti per più di un milione di contratti. Per questo, dati Ocse alla mano, circa il 40% dei lavoratori non è compatibile con il proprio impiego, il 20% dei lavoratori è sottoqualificato e il 19% è sovraqualificato per la mansione che svolge. Questo significa che il sistema italiano fatica ad assorbire in maniera corretta la forza lavoro a disposizione, permettendo che un lavoratore su cinque abbia un impiego non adatto alle proprie competenze: da chi, pur avendo una lunga esperienza lavorativa, non ha dimestichezza con il nuovo mondo digitale, fino al famoso laureato che, in mancanza di altro, va a fare il cameriere.
Il dato è particolarmente drammatico per il settore umanistico: secondo il rapporto Ocse del 2017 il tasso di occupazione dei laureati in ingegneria è dell’85%, quello delle materie economico-giuridiche è dell’81%, mentre il dato occupazione delle materie umanistiche fatica ad arrivare al 75%: praticamente un laureato su quattro non trova lavoro. Prendendo in considerazione la fascia anagrafica fra i 25 e i 34 anni, solo il 64% dei laureati italiani ha un’occupazione, la media europea invece è dell’83%. Nonostante questo, ben il 30% dei laureati complessivi proviene proprio da studi umanistici. L’economista Massimo Anelli, analizzando i database dell’Inps, ha seguito il percorso lavorativo di tutti i laureati di una grande città italiana fino a 25 anni dalla laurea: la ricerca ha messo in evidenza che le lauree umanistiche rendevano in termini di occupazione il 30% in meno di quelle in giurisprudenza, economia e management. Secondo Anelli, “Alla base di questa situazione c’è anche un’informazione inadeguata sugli esiti lavorativi e retributivi delle diverse facoltà, che porta a una scelta basata sulle sole preferenze individuali per le diverse discipline”.
Il caso italiano evidenzia diversi problemi strutturali. Da una parte c’è un’importante frattura fra il mondo della scuola e quello del lavoro, uno iato che porta alla mancata comunicazione fra le due sfere. La scuola non prepara gli alunni all’impatto col mondo del lavoro, disinteressandosi – o comunque arrivando in ritardo – alla sempre più veloce trasformazione delle competenze richieste. Allo stesso modo il mondo del lavoro non riesce a comunicare adeguatamente i requisiti necessari, né a mettere in luce i profili più adatti, impedendo ai giovani di capire quali competenze è opportuno maturare.
Ma c’è anche un problema di mentalità. Tutti, alla scelta del percorso universitario, si sono sentiti dire “fai quello che ti piace, così ti riuscirà meglio”: il retaggio culturale italiano, in maniera forse un po’ ingenua, non prende in considerazione le nuove criticità del mondo di oggi, come se la realizzazione personale non dovesse mai scontrarsi con i rapporti di forza della contemporaneità. La distorsione italiana considera la cultura umanistica un sapere-feticcio, puramente teorico, privo di applicabilità nel reale, è invece poco sviluppato il settore delle humanities, come invece in molti altri Paesi. Anche i datori di lavoro hanno le proprie colpe, perché valorizzano sempre le solite lauree, snobbando quelle del settore umanistico. Si ha la percezione che gli studi umanistici siano inutili, volti allo sviluppo di competenze inapplicabili nella pratica. Ma non si tiene conto che proprio la cultura umanistica aiuta nello sviluppo di competenze trasversali e flessibili, come la capacità di pensare fuori dagli schemi, o di applicare nuovi modelli di problem solving. In America se ne sono già accorti, e infatti le competenze umanistiche sono molto richieste sul mercato: le realtà della Silicon Valley stanno assumendo laureati in filosofia, soprattutto per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Le compagnie di Wall Street , consce della grande competitività del settore finanziario, cercano di sperimentare nuovi approcci al mondo degli affari assumendo laureati in letteratura e storia dell’arte. L’idea è creare un ponte fra uomo e macchina e sfruttare al massimo le potenzialità della macchina tramite un sapere laterale. A proposito di machine learning Lorenzo Tomasin, ordinario di Lingua italiana all’Università di Losanna: “I laureati in ambito umanistico hanno un approccio teorico che si applica anche in ambiti che sembrano distantissimi. Prendiamo il machine learning o lo speech recognition: chi li può analizzare meglio di un umanista?” È proprio l’ambito della connessione che interessa alle aziende.
L’Italia, al contrario, ristagna sia nell’immobilismo della propria economia, sia nella difficoltà a sfatare i luoghi comuni. A rimetterci sono i giovani, disorientati dal trattamento loro riservato: forza lavoro inutile per un mercato che non ha idea di come valorizzarli. Per cambiare questa situazione, il nostro Paese avrebbe bisogno di piattaforme più dirette che mettano in connessione aziende e università. In questo modo la scuola aggiusterebbe il tiro sulla formazione e i datori di lavoro si renderebbero conto delle effettive potenzialità di una forza lavoro che aspetta solo di essere valorizzata.