Siamo ossessionati dal lavoro. Modella le nostre identità, struttura le nostre vite e ci dà uno scopo. Il lavoro è ciò che siamo. Crediamo che la nostra produttività e i nostri successi non solo ci definiscano come persone ma siano la strada per il successo e la felicità. Per il filosofo coreano Byung-Chul Han, la società capitalista contemporanea è diventata una società della prestazione e noi, come suoi soggetti, siamo diventati “soggetti di prestazione”, impegnati costantemente a vendere noi stessi sul mercato. In questo contesto soffriamo di una pressione internalizzata per raggiungere il successo – fare di più, essere di più, avere di più. Consapevoli o meno, abbiamo internalizzato l’etica del lavoro capitalista al punto che avere successo o fallire grava pesantemente sul nostro benessere ed è considerato una responsabilità individuale. La principale conseguenza è il burnout – l’esaurimento emotivo, cognitivo e fisico che deriva dalla pressione di fare costantemente.
Così, per Han, nel mondo contemporaneo l’Io non è più un soggetto, ma un progetto. È qualcosa da ottimizzare, massimizzare, rendere efficiente, coltivare per la sua capacità di essere produttivo. La preoccupazione è che tutte le attività della vita finiscano così per essere considerate come righe di un curriculum. Consapevoli o meno, rischiamo di essere governati dalla domanda: “Quanto ciò che sto facendo in questo momento influenza la mia massima capacità produttiva?”. Questo modo di pensare si infiltrerà persino nei nostri momenti personali e apparentemente privati, trasformando ogni scelta e azione in una mossa strategica nel gioco dell’auto-miglioramento e del progresso.
Credo Han abbia colto qualcosa di importante qui, anche se tratteggiato in maniera molto ampia. Nell’economia contemporanea, il nostro lavoro è sempre più un aspetto personale. Lo portiamo con noi ovunque grazie ai nostri smartphone. La nostra potenzialmente costante connessione al lavoro implica che ogni momento della vita è anche tempo utile per lavorare. A chi lavora nella gig economy è chiesto di essere il manager di se stesso ma è al contempo obbligato a rispondere alla pressione alla produttività propria degli algoritmi delle piattaforme digitali. I nostri profili social sono un riflesso della versione ottimizzata al meglio di noi stessi, curati per proiettare un’immagine di successi e traguardi.
Eppure non è difficile notare che la società della prestazione è una farsa. Dagli anni Settanta, la produttività negli Stati Uniti è aumentata a un ritmo di tre volte e mezzo maggiore degli stipendi dei lavoratori. La precarietà è cresciuta del 9% dalla fine degli anni Ottanta e si sono riscontrati livelli straordinariamente alti di burnout nella forza lavoro. In breve, siamo sottopagati, insicuri ed esauriti. E, nonostante ciò, la società della prestazione – con il suo imperativo di essere più produttivi, più efficienti, e di ottimizzare noi stessi – conserva la sua forza attrattiva.
Il problema è che, come “soggetti di prestazione”, non solo ci esauriamo, ma lo scopo e il valore delle nostre vite non sono mai raggiungibili. Una volta ottenuti il lavoro dei sogni, la casa perfetta, una vita ottimamente ottimizzata – quando cioè saremo abbastanza produttivi, abbastanza efficienti, abbastanza importanti, solo allora penseremo che la nostra vita avrà un senso. Ma proprio come il frutto che sfugge continuamente alla presa di Tantalo, il significato dell’esistenza rimane sempre fuori dalla nostra portata.
Il filosofo tedesco Moritz Schlick, vissuto dal 1882 al 1936, ci mostra quanto questo approccio alla vita sia un errore. Nel saggio On the Meaning of Life (“Sul significato della vita”), del 1927, Schlick scrive che “[La] deificazione del lavoro in quanto tale, il grande vangelo della nostra era industriale, è stata esposta come idolatria”. Egli sostiene che il vero significato della vita può essere trovato solo in quelle cose che “esistono per se stesse e non hanno altro scopo esterno”, nell’“azione libera”. Per Schlick il valore della vita può essere trovato solo nel gioco.
Il gioco, infatti, è un’attività che compiamo senza altro scopo. È ciò che viene definita un’attività autotelica – trova in se stessa e nel proprio stesso svolgimento lo scopo precipuo del suo realizzarsi. Quando giochiamo, siamo coinvolti dalla passione e dalla gioia che ritroviamo nell’attività stessa. Non siamo motivati da ricompense esterne, non sono la performance e uno scopo esterno a guidarci. Non ci divertiamo per essere produttivi o migliorarci. Giochiamo per il semplice fatto di giocare. In sintesi, quando lo facciamo, se si tratta davvero di un gioco, non possiamo essere “soggetti di prestazione”.
Il gioco spontaneo dei bambini ci aiuta a vederlo chiaramente. Il bambino non ha bisogno del suo gioco. Le rigide aspettative di produttività e dell’efficienza non hanno alcun significato per lui. Non vede altro davanti a sé se non la propria presenza nel mondo. Il suo gioco è la forma più pura di gioia non solo per la sua natura di bambino, ma perché è totalmente rapito dalla propria esperienza momento per momento. Non è ancora caduto vittima dell’errore cruciale che la maggior parte di noi compie da adulti, cioè che “in generale l’essere umano è sempre incline a considerare ogni stato come propedeutico a uno successivo e più perfetto, poiché nessuno di essi lo è mai completamente”.
Eppure, anche da adulti sperimentiamo la gioia del gioco, ma solo in rari e sporadici momenti. E anche quando lo facciamo, lo consideriamo frivolo o poco serio. Crescendo, il gioco non diventa altro che una breve pausa dal lavoro, un momento che ci aiuta a riempire il tempo tra un periodo e l’altro di produttività. Ma soprattutto, per Schlick, è possibile trasformare il nostro lavoro in gioco. E se il primo può assumere il carattere creativo e autosufficiente del secondo, allora la distinzione collassa: “L’azione umana è lavoro, non tanto perché porta a dei risultati, ma solo quando procede ed è governata dal pensiero di quei risultati… È la gioia nella pura creazione, la dedizione all’attività, l’assorbimento nel movimento, che trasforma il lavoro in gioco”. E così lavorare può diventare gioco solo se il vangelo dell’etica del lavoro – i cui insegnamenti ci esortano a diventare massimamente produttivi – viene soppiantato dalle conoscenze che abbiamo avuto fin dall’infanzia, ma che abbiamo perso.
Schlick era conscio che il suo appello alla giocosità non potesse essere un semplice meccanismo di auto-aiuto psicologico da accendere e spegnere all’occorrenza: richiedeva un cambiamento strutturale per eliminare il lavoro che è “meccanico, brutalizzante, degradante” o quello che serve a “produrre solo spazzatura e vuoto lusso”. Significa che il capitalismo, che assoggetta i lavoratori a insostenibili richieste di produttività e induce crisi di sovrapproduzione, è antitetico a una società giocosa. Finché il “soggetto di prestazione” è una conseguenza dell’etica del lavoro capitalista, il “soggetto giocoso” dovrà emergere da un nuovo insieme di condizioni economiche.
Cosa significherebbe vivere in maniera più giocosa? Innanzitutto, rifiutare le mansioni che non abbiano una motivazione intrinseca e costruire delle condizioni di lavoro felicemente coinvolgenti; in secondo luogo, ridurre l’enfasi che oggi il lavoro ha nel determinare la realizzazione personale e nel dare significato alla vita. Nonostante sia centrale per chi siamo e per l’impatto che possiamo avere sulla vita degli altri, infatti, sopravvalutiamo la centralità del lavoro nella nostra esistenza – a nostro rischio e pericolo. Dovremmo poi allontanarci dall’uso dell’efficienza e della produttività come indicatori sociali di benessere. Infine, per vivere in maniera più giocosa dovremmo sviluppare competenze e capacità per giocare – dedicandoci a quelle attività che sono appunto autoteliche e non “oscurate” dall’avere uno scopo.
Il gioco può essere facilmente respinto come qualcosa di infantile, irresponsabile e non degno della serietà richiesta a noi moderni “soggetti di prestazione”. Ma la richiesta di vivere giocando è davvero la richiesta di rigettare le condizioni della società della prestazione. Abbracciare il gioco è una sfida audace al mantra della produttività implacabile. E dovremmo anche fare attenzione a non cadere nella trappola dell’auto-aiuto. Qualsiasi esortazione a “trovare il tuo bambino interiore” o a “cercare la tua personalità giocosa” senza un cambiamento strutturale rischia di essere un’azione priva di efficacia. Questo infatti non è solo un atto di ribellione personale, ma un imperativo sociale. L’appello alla giocosità non è una prescrizione psicologica solo per l’individuo ma è un invito all’azione collettiva contro la società della prestazione.
Questo articolo è stato tradotto da Psyche