Nel 2015, il Corriere della Sera raccontava che l’80% dei giovani reclutati per lavorare all’Expo di Milano avrebbe rifiutato un contratto semestrale a causa dei “Turni troppo scomodi”. Nel 2017 è invece diventata virale la vicenda di Angelo Pattini, imprenditore milanese che ha trascorso mesi alla ricerca di pasticcieri e panettieri disposti a rinunciare al sussidio di disoccupazione in favore di una paga regolare tra i 1200 e i 1400 euro netti al mese: stando a quanto riportato da Repubblica, riuscire ad assumere cinque dipendenti sembrava un’impresa impossibile. Nessuna candidatura aveva ricevuto lo stesso anno anche un’azienda veneta in cerca di 70 persone tra ingegneri e operai, nonostante i “contratti di tutto rispetto“.
Secondo un certo tipo di narrazione i giovani italiani sono talmente viziati – o, riprendendo l’ex ministra del lavoro Elsa Fornero, choosy – da snobbare qualsiasi opportunità lavorativa che non rispecchi l’occupazione dei loro sogni o obblighi a orari troppo faticosi. Il problema, in tutti questi casi, non è solo che le cose non sono mai come vengono raccontate – gli stipendi previsti dall’Expo ammontavano a meno della metà di quanto riportato, e anche la faccenda del pasticciere a Milano era ben più complessa di quanto intuibile dai titoli dei giornali: la retorica dei “giovani che non hanno voglia di lavorare” è fuorviante e impedisce di riconoscere le vere radici della disoccupazione.
Che in Italia gioventù e lavoro viaggino da anni su binari paralleli non è una novità. A oggi, il numero di giovani ufficialmente disoccupati rimane allarmante nonostante, a causa della pandemia, in molti abbiano addirittura smesso di cercare lavoro, provocando così un calo dei tassi di disoccupazione registrati dall’Istat. L’Italia detiene, fra le altre cose, il primato europeo per divario fra occupati giovani (20-29 anni) e anziani (55-64 anni). Il dato più allarmante riguarda infine il numero di Neet (Not in Education, Employment or Training), ovvero di giovani che, oltre a non essere occupati, non sono inseriti in un percorso di istruzione né di formazione: sono il 22.2% dei 15-29enni (contro una media Ue del 12.5%), con un’incidenza al Sud più che doppia rispetto al Nord. In quasi la metà dei casi (circa un milione di persone), i Neet hanno più di 25 anni.
La percentuale di Neet sembra confermare in apparenza che l’Italia è diventata, nell’ultimo decennio, un Paese di giovani nullafacenti, ma si tratta di una lettura superficiale che apre la strada a semplificazioni pericolose. Secondo un rapporto specifico sull’argomento dell’Anpal (Agenzia nazionale politiche attive e del lavoro), nel 2017 il 41% dei Neet era composto da giovani con un livello di istruzione medio-alto, in cerca della loro prima occupazione; circa il 20% erano donne di origine straniera, impegnate in attività domestiche o di cura; il 25% era composto da under 20 “in cerca di opportunità”, anch’essi mediamente istruiti; solo nel 14.5% dei casi si trattava di giovani “disimpegnati”, senza esperienza lavorativa e in apparenza poco interessati a procurarsene una.
I Neet sono una categoria estremamente variegata, composta da individui con esperienze e motivazioni anche molto diverse fra loro. Nella maggior parte dei casi si collocano in una zona liminale, una sorta di frattura fra la loro identità di studenti e quella di lavoratori, dove le risorse investite per ottenere un titolo di studio faticano a trovare un riscontro nel mondo del lavoro. Gli esperti parlano di un vero e proprio mismatch fra le nozioni acquisite durante la formazione e quelle richieste dalle aziende. Nei casi peggiori, questo disallineamento fra domanda e offerta preclude l’accesso al lavoro perché mancano le competenze richieste; quando va bene, si ottiene una posizione per cui si è sovra o sotto-qualificati – come accade, secondo uno studio Ocse, per il 40% dei lavoratori italiani.
In molti Stati europei il problema non si pone, perché il dialogo costante fra scuola e mondo del lavoro permette a domanda e offerta di adeguarsi a vicenda. In Germania, per esempio, dal 1969 si ricorre a un modello di “formazione duale” (duale ausbildung) per cui, all’età di quindici anni, gli studenti possono scegliere se frequentare il liceo o optare per una sorta di alternanza scuola-lavoro. Questa prevede un quarto del tempo trascorso in un istituto professionale specializzato e i rimanenti tre quarti in un’impresa con un contratto di apprendistato. Qui gli studenti-lavoratori vengono seguiti da tutor appositamente formati e ricevono uno stipendio, variabile a seconda della professione; al termine dei tre anni di apprendistato, le probabilità di assunzione possono superare l’80%. Grazie a questo sistema, nel 2016 quasi il 20% degli occupati tedeschi aveva meno di 29 anni (in Italia il 12%). Tre anni dopo la disoccupazione giovanile tedesca ha raggiunto i minimi storici dall’unione di Est e Ovest.
Il modello duale consente di formare lavoratori altamente specializzati per le posizioni richieste e motivati per il lavoro che andranno a svolgere. Ciò si riflette anche nei tassi di produttività del Paese, che negli ultimi vent’anni ha registrato una crescita annua sempre superiore all’1%; in Italia, fra il 2010 e il 2016 la produttività è aumentata con una media dello 0.14% (solo la Grecia ha fatto di peggio), mentre negli anni precedenti, secondo l’Ocse, il nostro è stato l’unico su quaranta Paesi a registrare un tasso di produttività negativo.
Il successo tedesco non sarebbe stato possibile senza il supporto di una classe dirigente in grado di comprendere l’importanza di investire nella figura del giovane studente ancora prima del suo ingresso nel mondo del lavoro: negli anni il modello duale si è tradotto in notevoli vantaggi economici in termini produttività e qualità del lavoro. Un ruolo fondamentale spetta anche al fattore culturale: le aziende tedesche, a differenza di quelle italiane, non concepiscono il sistema duale come un mezzo per avvalersi di manodopera a basso costo, ma riconoscono i vantaggi legati a una formazione tecnica di qualità. Una volta plasmato un lavoratore competente e instaurato con lui un rapporto di fiducia, quindi, non hanno alcun interesse a cederlo alla potenziale concorrenza.
In Italia, invece, la cultura del giovane sfruttabile non riguarda solo le aziende. Ovunque prevale la retorica della “gavetta”, che invece di consentire al neo assunto di approcciare la professione, valorizzare le proprie competenze e acquisirne di nuove, spesso diventa un pretesto per scaricare sulle sue spalle le mansioni meno stimolanti per stipendi minimi. Quello del “se non resisti, non meriti il lavoro” non è solo un modus operandi disumanizzante, ma è anche controproducente, come confermano le esperienze degli italiani che si formano in Italia per poi decidere di lavorare all’estero. Secondo un giovane ingegnere intervistato dal Fatto Quotidiano, in Paesi come Germania o Irlanda non solo la gavetta non esiste, ma le capacità del lavoratore vengono valorizzate fin da subito: “Tutto inizia con un ‘Dimostrami cosa sai fare'”, senza fermarsi al solo voto della laurea. Una strategia decisamente efficace: sempre secondo l’Ocse, l’Irlanda nel 2018 deteneva il primato assoluto di produttività, con una crescita annua del 6.12%.
Fra i fattori che frenano l’ingresso nel mondo del lavoro, oltre al disallineamento tra domanda e offerta e una concezione distorta dell’apprendistato, si aggiunge spesso l’incapacità delle aziende di riconoscere il valore delle competenze non puramente tecniche. In una società sempre più globalizzata è essenziale che flessibilità, conoscenza delle lingue, abilità di problem solving e capacità di collaborare con persone provenienti da contesti diversi vengano valorizzate almeno quanto la capacità nell’utilizzo del computer. È necessario adattare i programmi scolastici a quanto richiesto dal mondo del lavoro, ma è compito di chi assume riconoscere le potenzialità di soft skills e lauree umanistiche, oggi ancora sinonimo di futuro precariato nonostante l’arricchimento che potrebbero apportare alle imprese private e al settore pubblico.
Nel complesso, è evidente che le cause della disoccupazione siano da imputarsi più a un sistema strutturalmente gerontocratico che alla pigrizia dei millennial. Nel 2021 non è più accettabile che le uniche strade possibili per raggiungere un’autonomia economica siano rinunciare alle proprie aspirazioni (quando non alla propria dignità) o trasferirsi all’estero – opzione non alla portata di tutti. È necessario promuovere il dialogo fra scuola e lavoro e favorire, allo stesso tempo, il riconoscimento dei giovani come un potenziale da valorizzare e non come beni sfruttabili. A guadagnarci sarebbero non solo i singoli lavoratori, ma soprattutto le aziende, come dimostra il modello tedesco.
In questo cambio di prospettiva, anche i media svolgono un ruolo determinante. La retorica del giovane indolente, che negli ultimi anni è diventata il fulcro dello storytelling giornalistico, oltre a non rispecchiare la realtà promuove la deresponsabilizzazione delle istituzioni e della collettività, dipingendo la condizione dei Neet come una colpa della singola categoria e non come il sintomo dell’inefficienza dell’intero sistema Paese. Fra la storia di un neolaureato a cui non viene data la possibilità di rendersi indipendente dai genitori e quella di un venticinquenne choosy che passa in rassegna le offerte di lavoro senza accettarne nemmeno una, è la seconda ad attirare più clic, ma si tratta di una narrazione tossica e fallace. Senza investimenti concreti in formazione e politiche attive, la ricerca del lavoro è destinata a rimanere una lotta fra l’individuo e un sistema incapace di mettersi in discussione. Tutto il resto sono solo pregiudizi paternalistici.