Se vogliamo che i nostri figli siano al sicuro quando non ci siamo dobbiamo tutelare chi li cura - THE VISION

Le notizie di cronaca che riguardano episodi di maltrattamento ai danni dei bambini, commessi da persone che se ne dovrebbero prendere cura, riaccendono ogni volta i riflettori intorno alla questione della sicurezza in ambito educativo. È successo recentemente in seguito al fatto accaduto in provincia di Modena, dove una trentenne, incensurata, ha lanciato dalla finestra il bambino di diciotto mesi che accudiva dallo scorso gennaio come babysitter. La notizia è stata ricondivisa ampiamente sui social da moltissimi utenti, che hanno parlato della paura provata ogni volta che affidano i propri figli a persone sconosciute. Tanti ritengono che sarebbe giusto monitorare ciò che succede tra le mura della scuola ricorrendo a telecamere; e quando i bambini vengono affidati alle babysitter si dovrebbe procedere a un accertamento del loro stato di salute mentale anche attraverso il ricorso a perizie psicologiche e accertamenti al casellario giudiziale, ma in realtà ci sarebbe un modo più semplice per avere qualche sicurezza in più: basterebbe infatti affidarsi a figure professionali riconosciute. Peccato che le professioni di cura siano, ancora oggi, tra le più svilite, sotto molti punti di vista. 

Il lavoro di babysitter, in particolare, fa spesso pensare a un impiego stagionale, da portare avanti durante il percorso di studi per poter contare su un piccolo ingresso economico. In realtà, alcune inchieste sottolineano come, in seguito alla pandemia, molte donne abbiano tentato questa strada per riaffacciarsi al mondo del lavoro; ne sono una dimostrazione i tanti gruppi Facebook e siti nati per incrociare domanda e offerta. Accanto agli annunci di molte studentesse si possono trovare quelli di donne più mature che, senza alcun tipo di formazione, si propongono per accudire bambini e ragazzi. Tra le più giovani, tante mettono in risalto le competenze acquisite attraverso lo studio in ambito educativo, tuttavia è importante sottolineare che, ad oggi, per poter essere assunte in qualità di babysitter non è necessario possedere alcun requisito specifico. 

Secondo le associazioni di categoria e i servizi di consulenza sindacale, gli unici obblighi sono quelli di natura contrattuale: come qualsiasi altra attività, il lavoro di babysitter dovrebbe essere soggetto alla stipula di un contratto tale da garantire una paga oraria variabile – tra i sette e i dieci euro lordi – per un massimo di 40 ore settimanali. Tuttavia, il sommerso appare molto elevato, così come le condizioni di lavoro precarie caratterizzate da incarichi a chiamata, reperibilità continua e un impegno orario che in molti casi supera ampiamente i termini di legge. Il fatto che il lavoro di babysitter non richieda una specifica formazione rispecchia il modo in cui il sistema sociale si è interessato alle professioni di cura, in particolare quelle che afferiscono al settore educativo per la prima infanzia.

La professione dell’educatore è infatti un’invenzione recente. Tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso, questa figura era del tutto priva di qualsiasi riconoscimento. A ricoprire questo ruolo erano di solito persone che ruotavano nel mondo dell’associazionismo e svolgevano l’attività su base volontaria. Come sottolinea la studiosa Giulia Fasan in un contributo apparso sulla rivista Studium Educationis, si tratta di una lavoro che nasce dal basso, grazie a un movimento di uomini e donne che avevano a cuore l’educazione, e forse è proprio questa sua origine a renderlo tanto disorganizzato. La frammentarietà appariva incentivata anche dal proliferare di titoli e qualifiche brevi ottenute nell’ambito della formazione professionale – come quelle di educatore, animatore, tecnico socio educativo, operatore pedagogico e così via – che, a partire dagli anni Settanta, hanno prodotto un quadro talmente eterogeneo da generare ulteriori ostacoli alla riconoscibilità della professione.

 

La storia del riconoscimento professionale della figura dell’educatore procede di pari passo con l’istituzione di ambienti espressamente dedicati alla cura dei più piccoli. L’asilo nido, in Italia, venne fondato solo nel 1971 quando la Legge 1044 assegnò alle Regioni il compito di provvedere alla creazione di luoghi adatti alla custodia dei bambini, “per assicurare un’adeguata assistenza alla famiglia e per facilitare l’accesso della donna al lavoro nel quadro di un completo sistema di sicurezza sociale”. La legge obbligò le Regioni a dotarsi di normative specifiche al fine di assicurarsi che gli ambienti fossero consoni e il personale “qualificato e idoneo per garantire l’assistenza sanitaria e psico-pedagogica dei bambini”. Le dipendenti impiegate provenivano in larga parte dall’Istituto Magistrale, la scuola superiore che fino agli anni Novanta ha preparato i futuri insegnanti, all’epoca affiancate obbligatoriamente da una puericultrice, una figura socio-sanitaria che si occupava di assistere i bambini sul piano sanitario, assicurandosi che la loro crescita fosse regolare. Questa figura socio-sanitaria esiste ancora, ed è presente in alcune realtà, ma di solito presta servizio in veste di libera professionista.

Solo a partire dai primi anni Zero le università hanno iniziato a formulare percorsi di studio specifici per la formazione del personale educativo. La riorganizzazione accademica sopraggiunta in seguito alla Legge 270/2004 ha decretato, tra le altre cose, la nascita della laurea triennale in Scienze dell’Educazione che diventa il requisito di accesso per lavorare come educatore. A partire dalla riforma del 2004, però, le regole relative alla formazione della figura educativa sono state più volte riformulate dalla politica, provocando ulteriori problemi. Nel 2015 la cosiddetta “Buona Scuola” ha imposto infatti un curriculum specifico per lavorare all’interno dei nidi, frammentando ulteriormente l’identità di chi ricopre quel ruolo e creando notevoli disparità tra chi opera nei servizi alla prima infanzia – che la legge tutela maggiormente attraverso un percorso di studi ad hoc – e tutti quelli impegnati in altri ambiti, come l’educazione degli adulti, delle persone disabili o in comunità. Proprio per provare a fornire qualche garanzia anche a chi sceglie di non lavorare nella fascia zero-sei, la Legge Iori – ultimo capitolo in fatto di riforme – ha portato al riconoscimento ufficiale della figura dell’educatore attraverso la creazione di tre profili: l’educatore professionale socio-pedagogico, ovvero il “classico” educatore; l’educatore professionale socio-sanitario, la cui formazione è erogata dalla facoltà di Medicina; e il pedagogista, figura professionale che si forma attraverso un percorso di cinque anni con competenze in ambito di progettazione, intervento e valutazione dei servizi educativi.

 

Nonostante siano passati diversi anni da questi ultimi passaggi normativi, la condizione di chi opera all’interno delle professioni educative non è affatto migliorata. Al contrario, si è verificato uno scollamento tra il piano legislativo e quello sociale: per molte realtà, infatti, è stato difficile accogliere i cambiamenti imposti dall’alto e ciò ha prodotto ulteriore confusione, con servizi educativi che in realtà non hanno mai modificato le procedure di assunzione. I nidi comunali continuano a esistere, anche se sono sempre più affidati alle gestione di cooperative che nel frattempo hanno incrementato l’offerta di servizi per la fascia zero-sei. L’attenzione nei confronti dell’infanzia è alta, per questo sembrano esserci molte opportunità di impiego. Ciononostante, non è difficile imbattersi in annunci relativi alla ricerca di personale che non rispettano i termini di legge. In alcuni ambienti sembra che titoli e qualifiche abbiano un valore accessorio, così capita spesso di trovare offerte di lavoro come educatori a cui possono candidarsi anche laureati in Psicologia o, molto peggio, persone prive di titoli riconosciuti. Tutto ciò, per forza di cose, si ripercuote sui compensi, drasticamente bassi, così come sulle tutele contrattuali. Non solo: tali politiche generano un preoccupante circolo vizioso, poiché si riflettono inevitabilmente anche sui bambini, che finiscono per essere accolti all’interno di strutture che, per tenere costi contenuti, a volte finiscono per fornire servizi poco rispettosi del loro benessere.

La precarietà che gli educatori sperimentano nei colloqui di lavoro si specchia in un’evidente mancanza di riconoscimento sul piano sociale. Non è inusuale ritrovarsi in discussioni in cui ci si chiede perché siano necessari titoli di studio se, in definitiva, la professione educativa consiste “solo” nel giocare coi più piccoli e assicurarsi che non si facciano male. Analogamente a ciò che accade quando una famiglia è alla ricerca di una babysitter, anche al personale educativo viene spesso richiesta una buona “predisposizione personale” verso i bambini, competenza certamente importante ma che per essere tale ha bisogno di innestarsi su una comprovata esperienza e su qualifiche idonee. Nonostante siano passati quasi cinquant’anni dai primi corsi formativi erogati dalle Regioni, sembra che sia difficile per gli educatori affrancare la propria immagine dal mondo del volontariato e dall’idea che prendersi cura dell’infanzia sia un compito a cui tutti possono dedicarsi, nella misura in cui è possibile per tutti essere genitori, fratelli maggiori e zii.

La condizione lavorativa di chi si occupa della prima infanzia non ha subito sostanziali miglioramenti, neppure attraverso il riconoscimento normativo. Le precarie condizioni contrattuali, i turni prolungati che portano in fretta al burnout, uno stipendio non commisurato al grado di responsabilità sono sempre stati sotto gli occhi di tutti, ma solo in seguito alla pandemia gli operatori del settore educativo sono diventati più consapevoli rispetto all’insostenibilità di questa situazione. Cooperative e altre agenzie hanno denunciato la carenza di personale dal momento che i lavoratori preferiscono riversarsi in ambito statale accettando incarichi come supplenti, personale ATA o educativo, fornendo supporto agli alunni più fragili. Ciò rende più difficile per il terzo settore poter disporre di operatori qualificati, e di conseguenza si opta per assunzioni non idonee ma necessarie per non lasciare scoperti i servizi dedicati alla prima infanzia.

Assumere personale privo di titoli, però, non è certo la soluzione; al contrario è necessario insistere affinché il lavoro educativo possa godere di un reale riconoscimento. Prendersi cura dei bambini è logorante, sia fisicamente che mentalmente: le madri – e in generale qualsiasi persona si occupi di cura primaria – lo sanno bene; e i turni prolungati uniti all’assenza di un supporto sul piano psicologico amplificano questa condizione. Occuparsi di un minore non è un passatempo: significa monitorarne la crescita, lo sviluppo, scrivere progetti educativi efficaci, valutarli e documentarli nel tempo, significa assistere le famiglie costruendo con loro una buona alleanza educativa. Garantirne le migliori condizioni lavorative significa, in definitiva, tutelare la sicurezza di quanto vi è di più prezioso per le famiglie e la società intera: i bambini.

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