Nel 2018 il settore turistico italiano ha registrato 428 milioni di arrivi dall’estero. A questi si sommano gli italiani: secondo un’indagine di Confturismo-Confcommercio nel 2019 il 77% degli italiani ha scelto e di rimanere all’interno dei confini nazionali durante le vacanze, anche grazie a un’offerta di strutture e servizi in grado di coprire tutto l’anno. Anche per la concorrenza sempre più variegata delle mete estere, coccolare e stupire i turisti è diventata la parola d’ordine delle strutture ricettive italiane. Un obiettivo spesso raggiunto al prezzo dei diritti basilari dei lavoratori del settore
L’ultimo rapporto di Federalberghi in collaborazione con l’Ente Bilaterale Nazionale Turismo ha rilevato che nel 2017 i lavoratori dipendenti nel settore alberghiero e della ristorazione ammontano a un milione. Molti di questi faticano a trovare una posizione lavorativa fissa e si dividono tra stagione invernale ed estiva.
In Italia il lavoro full-time dovrebbe essere organizzato su turni di 8 ore al giorno, per cinque o sei giorni a settimana. La legge prevede che la settimana lavorativa sia fissata a 40 ore massime, con la possibilità di arrivare a 48 ore con gli straordinari. Sappiamo che la realtà dei fatti è diversa in molti ambiti della vita economica del nostro Paese. In questo senso è fondamentale precisare un concetto: se si lavora di più è necessario essere almeno retribuiti di più. Sembra banale, ma non lo è. Nelle mete turistiche italiane la realtà è ben diversa per centinaia di migliaia di lavoratori privati dei loro diritti.
In stagione negli esercizi commerciali lavorano moltissimi giovani. Spesso questi giovani si avvicinano per la prima volta al mondo del lavoro. Non ne conoscono le dinamiche, non sanno quali sono i loro diritti e doveri, non sono informati sulla paga minima. Vogliono solo lavorare. Viene detto loro che dovranno lavorare per dieci o undici ore al giorno, se non di più, sette giorni su sette. Per quattro o cinque mesi. Centocinquanta giorni consecutivi di lavoro, con forse un paio di pomeriggi liberi, ovviamente se ce n’è la possibilità. Quel pomeriggio libero diventa un lusso e non un diritto. Poi arriva il momento della paga. Secondo l’Istat un cameriere d’albergo guadagna mediamente 24mila euro lordi, che al netto dell’irpef risultano essere circa 1480 mensili. Considerando le circa ottanta ore settimanali lavorate da molti stagionali la paga oraria è di poco più di 4 euro all’ora. Il valore di una birra media al pub.
Alcune testimonianze hanno portato in luce gli orari di lavoro a limiti della schiavitù richiesti dai datori di lavoro. Negli hotel spesso si coprono tutti e tre i servizi: colazione, pranzo e cena. Questo significa iniziare a lavorare intorno alle sei o sette del mattino per finire intorno alle undici o mezzanotte, con qualche ora di pausa nel pomeriggio. I baristi possono arrivare a lavorare fino a notte inoltrata iniziando nel pomeriggio. I più “fortunati” mangiano in hotel o ristorante i resti di cene e pranzi e possono soggiornare in alcune stanzette messe a disposizione dal proprietario della struttura. A molti, invece, tocca anche affittare un appartamento che sarà difficile trovare a un prezzo ragionevole, visto che i prezzi sono quelli che si offrono ai turisti.
Sono condizioni indegne per un Paese che ha tra i suoi valori la tutela dei lavoratori. Marco (nome di fantasia) ha lavorato per un mese e mezzo in un hotel di Jesolo Lido: “Vieni assunto e ti viene detto che lavorerai per otto ore al giorno e che avrai le tue giornate di riposo. Ti dicono che ogni tanto ci potrebbe essere la necessità di fermarti di più, ma non mi aspettavo di lavorare 80 ore a settimana senza pause. Se ti lamenti ti dicono che sei fortunato, perché magari hai anche l’alloggio che è una misera stanza sporca. Con l’alternanza scuola lavoro, poi, vengono presi stagisti che lavorano quanto un dipendente retribuito, ma non sono pagati. Tutti lo sanno ma nessuno fa nulla“.
Questo avviene anche grazie alla complicità delle istituzioni, intimorite dall’idea di regolamentare un settore troppo remunerativo, tanto a livello economico quanto elettorale. Sarebbe compito dell’Ispettorato del Lavoro vigilare, ma così non è. Chi frequenta le zone turistiche sa come si lavora in quegli hotel e ristoranti, ma è una realtà accettata che pochi hanno il coraggio di combattere e denunciare. Ad aprile la Cgil Emilia Romagna ha avviato una campagna contro le gravi condizioni dei lavoratori stagionali, ma resta un caso isolato. In molti preferiscono tutelare o ignorare questo sistema, anche per i segnali di crisi del settore emersi nei primi mesi del 2019 che verrebbero ulteriormente aggravati da una effettiva opera di regolamentazione e tutela dei lavoratori dipendenti.
Al danno ai lavoratori si somma quello contro la collettività: i contratti che vengono stipulati prevedono le classiche 40 o 48 ore settimanali, mentre il resto viene dato in nero, fuori busta paga. A questa formula si affianca quella dei pagamenti integralmente non dichiarati. La Cgia di Mestre ha stimato che i lavoratori in nero in Italia siano 3,3 milioni e che l’evasione che ne deriva ammonti a 43 miliardi di euro l’anno. Nello specifico l’Istat afferma in un rapporto sull’economia sommersa dell’ottobre 2018 che il settore che comprende l’alloggio e la ristorazione rappresenta il 23,7% dell’economia sommersa, con il 16,2% di lavoratori irregolari.
Il 12 ottobre 2019 in un comunicato stampa il presidente della Regione Veneto Luca Zaia ha scritto riguardo al risultato del Veneto nel turismo: “Sono orgoglioso di un primato che dedico ai nostri imprenditori, operatori e lavoratori del turismo. Se questa terra veneta è la più amata dai turisti di tutto il mondo lo si deve a persone lungimiranti che, fin dal dopoguerra, sono andati in giro per il globo a promuovere il Veneto che usciva dalla povertà e conosceva l’emigrazione“. Nelle sue parole si trova l’ipocrisia di una politica che fa finta di non vedere, vantandosi di primati costruiti su attività che in molti casi calpestano la legalità e i principi basilari della tutela del lavoro.
La realtà è che tutti gli attori sociali sono complici di questo fenomeno. Dagli albergatori che sfruttano i dipendenti giustificandosi dietro una presunta impossibilità a tenere aperta un’attività adeguandosi alla legge ai turisti che usufruiscono di quelle strutture senza curarsi delle condizioni di chi lavora per loro. È inutile vantarsi dei primati dell’Italia in campo turistico, sbandierando in ogni occasione utile il suo patrimonio artistico e paesaggistico, se questi vengono raggiunti con sistemi di sfruttamento che ricordano le realtà più buie del Terzo mondo. L’illegalità e la complicità verso questo sistema devono finire, se vogliamo davvero definirci un Paese civile.